Visti e svisti – La rubrica semiseria ̶d̶i̶ ̶c̶r̶i̶t̶i̶c̶a̶ ̶c̶i̶n̶e̶m̶a̶t̶o̶g̶r̶a̶f̶i̶c̶a̶
a cura di Tiziana Cazzato
Ebbene sì, ci sono voluti pochissimi giorni (e se non ci fosse stato l’impegno del lavoro, avrei impiegato solo alcune ore) per leggere un libro di cui mi sono innamorata sin da quando ci siamo incontrati in libreria. Bellissima la copertina, titolo indimenticabile… Un vero colpo di fulmine, incoraggiato da un’amica, diventato amore pagina dopo pagina.
E fra le righe una frase, “Per me i pensieri sono più veri quando vengono pensati, esprimerli li distorce o li diluisce…”, che mi riporta alla mente un film visto qualche tempo prima. Un film che probabilmente mai avrei guardato se un amico non me lo avesse suggerito e non posso che ringraziarlo, come i miei alunni ringraziano me per aver loro sottoposto/ “imposto” la visione de I quattrocento colpi di Truffaut.
Sto pensando, anzi mi chiedo se sono all’altezza (e i centimetri qui non contano!) di recensire quello che considero un vero capolavoro. Un film che ho, ovviamente, riguardato prima di sedermi qui, in questa notte di inizio febbraio, dopo un’intera giornata dedicata alla scuola. Un film che ho riguardato, come vi ho detto prima, spinta da una frase sottolineata a pag. 160 di Un giorno questo dolore ti sarà utile di Peter Cameron (Adelphi Edizioni). E no, non è il film omonimo tratto dal romanzo: sarebbe troppo scontato. E io ci provo a non essere scontata.
Sto pensando, anzi mi sto chiedendo se sono in grado di raccontarvi un film che parte da un pensiero. Da un pensiero da cui Lucy, la protagonista interpretata da Jessie Buckley, non riesce a liberarsi, perché il pensiero è sempre lì, come un’idea nuova ma che, nello stesso tempo, sembra vecchia. Un pensiero che, come tutti i pensieri, è più vicino alla verità, alla realtà, perché nessuno puoi mai fingere un pensiero.
Ma qual è il suo pensiero?
Mentre la neve inizia con passo lento a imbiancare le strade e lei aspetta il suo fidanzato Jake (Jesse Plemons) per andare in macchina a conoscere i genitori di lui, Lucy sta pensando di finirla. La vita? O forse, con più probabilità, pensa di porre fine alla sua storia con Jake, che è un ragazzo straordinario, interessato, curioso, istruito, sensibile e poi… E poi insieme loro due risultano interessanti, mentre da solo Jake, le ha confidato, si sente invisibile.
Lei sa già come andrà a finire e non vuole portare avanti un rapporto sbagliato e malsano solo perché sarebbe la decisione più facile , come sceglie di fare la maggior parte della gente che applica “la prima legge di Newton sulle relazioni umane” : i corpi in movimento continuano il loro moto rettilineo uniforme (noioso?) finché non interviene una forza esterna. Finché non interviene, nel nostro caso, il coraggio di compiere una scelta.
Mentre proseguono il loro viaggio in un paesaggio che diventa sempre più bianco, come una pagina su cui scrivere una nuova storia, Lucy respira il senso di dolce malinconia che la pervade e intanto il suo nome risveglia in Jake il ricordo dei versi che Wordsworth ha composto per la sua Lucy (“The Lucy poems”), la ragazza da lui amata che incarna l’ideale di bellezza.
Ed è, forse, questa la prima di tante meravigliose citazioni letterarie e non solo che impregnano la pellicola e contribuiscono insieme alla meraviglia del testo, alla sublimità della luce e delle immagini, alla poesia di ogni singolo fotogramma, a rendere Sto pensando di finirla qui (potete vederlo su Netflix he lo ha prodotto) un vero gioiello firmato da quel grande maestro che è Charlie Kaufman ( già premio Oscar nel 2005 per la migliore sceneggiatura originale di Eternal Sunshine of the Spotless Mind, indegnamente tradotto in un brutto- concedetemelo- Se mi lasci ti cancello).
E seguiamo il pensiero di Lucy, il raccontarsi e rivelarsi dei due protagonisti al suono di versi composti (“Ossa di cane” è in realtà una poesia, e lo scopriamo più avanti nel film, della poetessa americana Eva H. D.) e recitati dalla giovane protagonista e nei quali il suo fidanzato si identifica al punto da sentirli come fossero stati scritti per lui. E Jake guarda con devota ammirazione la sua ragazza, ascolta ogni sua parola, presta attenzione anche ai suoi silenzi, e sente il bisogno, il grande desiderio di condividere con lei i suoi interessi, le sue passioni. Di farle amare almeno un po’ ciò che lui ama.
I loro sguardi, i loro pensieri, i detti e i non detti, sono accompagnati dal passo silente della neve e dal ritmo costante dei tergicristalli che ne spazzano via i fiocchi dal parabrezza.
E a un tratto, di colpo, la macchina da presa lascia l’auto andare lungo la strada, per portarci nella casa di un anziano uomo solo, o forse isolato, invisibile al mondo, agli occhi degli altri, che è lì, davanti alla finestra a guardare la danza bianca piovuta dal cielo. Un uomo anziano solo, forse isolato, invisibile al resto del mondo e agli occhi degli altri, il vecchio bidello di una scuola sperduta nel nulla, con la passione per il cinema e per il musical.
Lucy, o forse più semplicemente la giovane donna, che poi chissà mai perché si chiama Louisa e poi ancora Lucia e poi di nuovo Lucy. Che pensiamo prima essere una studentessa di fisica quantistica che compone versi, ma che poi diventa una specializzata in gerontologia, con la passione per la pittura e infine una semplice cameriera di cui Jake si è innamorato nell’istante in cui lei le ha servito il caffè, nel lungo incongruente racconto sul loro primo incontro che i due protagonisti regalano ai genitori di lui, felici di conoscere la ragazza del loro unico figlio, di cui sono così tanto orgogliosi.
“Anche Jake mi ha parlato tanto di voi” aggiunge Lucy.
“E sei venuta lo stesso?” sorride la madre di lei, superlativamente interpretata da Toni Colette, suscitando un moto di tenerezza in chi guarda la sua dolce espressione.
Un incontro quello fra la protagonista e i suoi “suoceri” scandito da risate e sorrisi sinceri, un pizzico di imbarazzo e un po’ di timidezza che accompagna il reciproco accogliersi. Quel reciproco piacersi: perché è una cosa positiva quando le persone che ti piacciono, si piacciono, si compiace Jake.
Un incontro raccontato dagli sguardi, da una giusta dose di attesa, di aspettative, di promesse, di ansie e da una malinconica dolcezza, dalla quale il regista d’improvviso s’allontana, cancellando il presente e fermandosi su una Lucy di spalle mentre guarda dalla finestra il tempo peggiorare e ancora una volta esprime, preoccupata quasi spaventata, la necessità di dover tornare a casa quella stessa sera.
Poi lei si volta e si riscopre sola nel silenzio di una stanza scaldata dal fuoco che arde nel camino. Chiama Jake. Sale così al piano di sopra e ogni gradino diventa un salto temporale che conduce lei, ma anche noi, in un tempo futuro inatteso, inimmaginato. Dave (un magistrale David Thewljs), padre di Jake, appare invecchiato e provato da una malattia non ben definita che colpisce la memoria, supportata (in attesa di non dover più ricordare che non riesce a ricordare) da biglietti che lo aiutino a muoversi nella casa e nella vita. Jake dà da mangiare alla madre divenuta di colpo più anziana- come se il tempo fosse passato solo per lei e il marito- e Louisa, perché quello diventa il nome della protagonista, non può che apprezzare quel gesto di amore e devozione. “Nessuno si accorge delle cose buone che fai e finisci col sentirti solo” ringrazia Jake, a voce bassa quasi a non voler lui stesso sentire le sue stesse parole.
Il ritorno al piano di sotto diventa metafora di un nuovo salto temporale, questa volta in un passato in cui la madre di Jake appare giovane con una fascia colorata che libera il viso truccato dai vaporosi biondi capelli, e una cesta in mano, riempita coi giocattoli sparsi dal figlio bambino.
Chiede a Lucy, quasi le impone, di portare nella lavatrice una sporca camicia da notte e lei si trova costretta a scendere in quella cantina, in cui Jake prima le aveva detto di non andare, perché non è rifinita, perché è solo un buco nel terreno, dietro una porta graffiata, soprattutto dal cane, e chiusa da un nastro di carta, come se questo potesse ostacolarne davvero l’ingresso.
In quella cantina, quando lei apre la lavatrice a pozzetto, succede qualcosa. Qualcosa che non starò a raccontare, per non privarvi della bellezza di scoprirlo.
Si insinua un dubbio, una strana domanda fra i pensieri di lei. Nella mente di ogni spettatore che, quando risale in macchina insieme ai due protagonisti, sulla strada di un ritorno, di un viaggio completamente nuovo, imprevedibile, sente affiorare delle forti sensazioni, un nuovo sentire, percepire e i pensieri si vestono di sogni, di amare illusioni. Di rimpianti e disillusioni. In un viaggio che – chissà dove ci ha veramente portati! – giunto a destinazione, ci costringe a riavvolgere il nastro, a cominciare daccapo per riascoltare tutte le parole, riguardare ogni gesto per scoprirne il senso, forse quello vero che Kaufman, con la potenza della sua arte, vuole rivelarci. Il senso di una vita e di un mondo che è più grande dell’interno della nostra testa, anche se è questa che ci aiuta a vedere, percepire, cogliere, ascoltare. Anche se è questa che ci fa immaginare, creare e soprattutto stupire. Perché quella del meravigliarsi resta forse l’unica vera arte a cui non dovremmo mai rinunciare e che il grande sceneggiatore e regista sa come coltivare.