La rubrica semiseria ̶d̶i̶ ̶c̶r̶i̶t̶i̶c̶a̶ ̶c̶i̶n̶e̶m̶a̶t̶o̶g̶r̶a̶f̶i̶c̶a̶ a cura di Tiziana Cazzato
Mulholland Drive, di David Lynch
Tutto ha inizio o fine qualche giorno prima delle vacanze di Natale. Sono lì che guardo prima il mio portatile, poi la valigia con cui decido di tornare a casa per le feste. Sto lì a pensare di non portare il computer con me: tornare a casa non vuol dire solo fare una vacanza, ma soprattutto sistemare tutte le cose sospese, sbrigare tutte quelle incombenze irrisolvibili da lontano, adempiere a impegni improrogabili, e poi, forse, magari!, riuscire a vedere pochi amici, qualche parente, leggere un paio di libri, vedere qualche bel film e, sì, dormire qualche minuto in più.
Sono ancora lì a pensare se il mio NeroWolfe ha diritto al suo posto in valigia o forse più a una separazione da me – e per lui vorrebbe dire dieci giorni di riposo totale – quando scopro di non dover prendere alcuna decisione. Il mio portatile ha fatto la sua scelta: ha deciso di spegnersi nel sonno e di non riaccendersi più. E così ha lasciato un posto vuoto nella mia valigia – subito riempito da un vestitino rosso e da una giacca nera (mai tirati fuori!) – e anche nella mia vita lavorativa, dove è arrivato un tablet che mette in risalto il mio non essere proprio una nativa digitale. Stiamo entrando in confidenza e sappiamo entrambi qual è l’obiettivo da centrare. E lo sapete anche voi. Lo immaginate, anche perché è un film, quello che vede protagonisti me e il mio tablet, dal finale abbastanza prevedibile. D’altronde io sono una ragazza semplice che ogni tanto dice che sarebbe dovuta nascere in un film e non nella vita vera per vivere almeno uno di quei lieto fine che forse non sono in grado di scrivere. Ma poi penso che sarei potuta nascere in una di quelle pellicole melense da diabete, o essere la prima vittima di un serial killer in un giallo, e torno a sorridere e a essere felice della mia vita, consapevole di dover e poter imparare a scrivere pagine più belle ed emozionanti per me. Intanto mi lascio sorprendere da momenti inattesi, da libri indimenticabili, da film davvero geniali e sensazionali.
Come quello visto in una bellissima serata di fine dicembre, quando sullo schermo è apparso, dopo una scena di ballo sfumata nel luminoso e sorridente volto di una giovane donna bionda, il nome di una strada che attraversa le colline di quella che è da tutti considerata la vera città dei sogni.
È notte. Un’auto, su cui si trova un’affascinante ragazza mora (Laura Harring) senza nome, sta attraversando Mulholland Drive, una strada di Hollywood (appunto), che diventa il titolo di un film capolavoro del 2001 firmato David Lynch (sceneggiatore e regista). La ragazza, che crediamo essere la protagonista, scampa a un incidente automobilistico, che però le provoca delle contusioni e la perdita della memoria. Fugge e trova riparo in casa di un’anziana donna appena partita. Sembra sperduta, spaurita, con un’unica consapevolezza, quella di doversi nascondere. Da chi? Da cosa?
Da lì a poche ore, Betty (Naomi Watts), nipote della proprietaria dell’appartamento, arriva a Los Angeles per realizzare il suo sogno d’attrice. Le due ragazze diventano amiche e Betty decide di aiutare Rita (il nuovo nome è ispirato dal poster del film appeso in bagno, “Gilda”, che vede protagonista l’indimenticata Rita Hayworth) a ritrovare la memoria. E mentre seguo rapita ogni scena, prestando attenzione ad ogni dettaglio, il film mi porta laddove mai avrei pensato di andare. Perché se anche voi, leggendo, avete creduto che vi stessi raccontando la trama, beh, sappiatelo sin d’ora: nulla è, come sembra. Anche solo provassi a svelarvi il finale, probabilmente scoprireste solo quello che ho voluto vederci io e non è detto coincida con ciò che vedrete voi. Ed è questa, penso, la grande forza del film e del suo regista.
Lynch ci fa partire da una strada reale, per poi condurci in un viaggio che di reale ha veramente ben poco. Con il genio che lo contraddistingue intrappola lo spettatore, gli toglie il respiro, lo fa deragliare. Ma soprattutto lascia a ognuno la possibilità di vedere con i propri occhi, di spiegarlo, di capirlo o anche no, di trarre le proprie conclusioni o anche di sentirsi sperduto.
Nulla è lasciato al caso, ogni particolare diventa protagonista del film: una borsa piena di soldi, una piccola scatola blu, una chiave triangolare. Ogni personaggio, dall’uomo che s’imbatte realmente nel suo incubo, al killer goffo e incapace, al regista che perde potere decisionale sul suo film finito nelle mani di produttori mafiosi, ha un ruolo fondamentale. Imprescindibile il buio e soprattutto quel Silencio che portano a lasciarsi andare, ad abbandonare il razionale per vivere l’inconscio, le intense emozioni accompagnate e amplificate anche da una magnifica colonna sonora.
Sono passate settimane dalla visione, eppure mi ritrovo ancora a pensare a Mulholland Drive, nato come episodio pilota di una serie mai partita, e diventato il film che non solo ha valso al geniale David Lynch (settantacinque anni festeggiati pochi giorni fa) il premio come miglior regista a Cannes nel 2001, ma che è anche nella classifica dei più grandi film mai realizzati.
Sono passate settimane dalla visione eppure l’atmosfera del film (e non solo quella) mi avvolge e mi pongo ancora delle domande, alle quali non cerco per forza di dare una risposta, per paura forse di privarmi di un po’ di quella bellezza che mi porto dentro e del desiderio di rivederlo ancora. Certa che sarà come vederlo la prima volta.
Accade così con le cose davvero belle.
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