Intervista a Guido De Simone

a cura di Graziano Gala e Gaia Giovagnoli

 

Guido_De_Simone_fotoQuali sono i tuoi maestri (non solo letterari: cinema, musica, arte figurativa, ecc.)? 

Il mio primo amore è stato per Montale, soprattutto quello degli Xenia: negli anni dell’università lo leggevo ad alta voce, chiuso nella mia stanza e quasi al buio, facendo avanti e indietro intorno al letto. Debbo moltissimo anche ai ragazzini di Penna, alle colline di Pavese, al Fortini che se ne andava in una strada di Firenze. In misura minore a Pagliarani e Sereni. Tra i contemporanei a Pusterla e Magrelli, dalla cui scrittura ho imparato tanto sulle “periferie della lirica”.

Scrivere è provare un dialogo con questi maestri. Nel farlo, cerco di tenere a mente tre cose. Quella «strana gioia di vivere anche nel dolore» che troviamo in alcune canzoni di Battiato o Vecchioni. L’equilibrio della scultura, in particolare del Ganimede di Thorvaldsen. L’importanza di uscire dal proprio vissuto: una cosa di cui ho letto in molti critici, ma che ho realmente compreso a Milano, davanti alla Blue Mountain di Kandinskij. La poesia ha poco a che fare col poeta.

 

Quali poeti della tua generazione senti affini (per temi e/o scelte formali)?

Mengaldo scrive che «un testo a rigore, non rappresenta neppure il suo autore: rappresenta solo se stesso». Secondo Szondi, «i testi non si presentano come degli esemplari, ma come degli individui». Se questo è vero, posso sentire affine una poesia, non un autore.

Apprezzo molto la dolorosa luce del Vangelo elementare di Gianluca Furnari, il lirismo onirico con cui Gaia Giovagnoli ha tratteggiato la sua Teratophobia, quel numinoso sgretolarsi della pietra leccese in Una Madonna che mai appare di Andrea Donaera, la lucida provocazione che è condizione fondante de L’estate di Gaia di Alessio Paiano. Non per questo posso dirli affini: farei a loro un torto. Ma mi trovo spesso a recitare ad amici e alunni versi come «Riposa: rifaccio foresta sullo schianto», «L’opera della luce sugli stagni erano segni, rime elementari»; «Mi scopro essere niente e sgretolato, tu in sogno mi ricomponi, paziente (pulisci il mio mento sporco di gelato)»; «Fabio dice prima di scrivere leggere tanto ma non c’è tempo non c’è tempo per un canto». Rileggendo Agostino durante l’ascesa al monte Ventoso, Petrarca annota di non poter credere che tutto fosse accaduto casualmente: «sapevo che quanto avevo letto era stato scritto per me, non per altri».

 

Cosa cambieresti del panorama poetico di oggi?

La domanda spinge in due direzioni – da un lato i poeti, dall’altro il loro pubblico – ma mi pare che il problema di fondo sia comune: manca da tempo una capillare riflessione sulle categorie dell’estetica. La tendenza più preoccupante è trasformare i poeti in personaggi, puntando su pose e atteggiamenti spesso fini a se stessi, su una visibilità esasperata ed esasperante e molto poco invece sui testi. I poeti dovrebbero aver ben poco da dire, fuori dai propri testi. Ma non è questo che chiede il pubblico della poesia d’oggi.

Credo che il problema nasca dal nostro sistema scolastico: c’è troppa storia della letteratura, troppo biografismo e aneddotica; manca l’incontro diffuso con i testi ed è mortificante vedere quanti docenti richiedano ancora ai propri alunni la parafrasi del testo. Per Bonnefoy, parafrasare è «lasciare la preda per l’ombra». Caproni si dice «convintissimo che una poesia non si possa commentare». Un secolo addietro Croce spiegava che «la forma è essa stessa sostanza». Com’è possibile che i docenti non l’abbiano ancora recepito? Non stupisce poi che gli alunni pretendano di poter “riassumere” il canto di Paolo e Francesca o l’episodio di Eurialo e Niso. Non stupisce che qualcuno dica di aver “capito” Montale perché sa spiegare il concetto del male di vivere.

Nessuno si sognerebbe di ridurre Van Gogh a un’ammucchiata di blu e giallo, ma pare legittimo declassare una lirica alla somma delle sue figure retoriche, alla biografia dell’autore, al suo “contenuto”. No. Abbiamo un problema di fondo nella riflessione sul poetico.

 

Fai riferimento solo al Novecento o ti senti vicino a qualche autore emerso negli ultimi 20 anni? 

Stefano Carrai ha scritto versi straordinariamente potenti ed equilibrati: quelli dedicati al padre in Il tempo che non muore, quelli de Paszkowski, una mattina in La traversata del Gobi. Trovo una certa consonanza in molti testi di Massimo Gezzi, come Verso Lugano o Traccia n. 4, e devo assolutamente citare anche Guido Mazzoni, sia il poeta che il critico.

Spiace che questi poeti non entrino nelle scuole. (Perdonate la deviazione!) L’imprinting dei nostri giovani avviene sugli Stilnovisti, cui poi si aggiunge una lunga carrellata del Petrarca, mentre non si leggono (quasi) mai poeti viventi. Questo riduce lo spazio d’azione della poesia. Se fermassi dieci persone per strada e chiedessi loro di scrivere qualcosa, nove su dieci scriverebbero di un amore impossibile o scadrebbero in vuota paesaggistica. Moltissimo tempo viene speso per Manzoni, che già il Carducci avrebbe voluto buttare «fuori dalla finestra [con i suoi] Inni Sacri». Non tramandiamo alcun fuoco, custodiamo le ceneri, mentre i ragazzi ci chiedono – per dirlo con Magrelli – di «preparare un nuovo incendio».

 

Chi è Guido De Simone

Guido De Simone insegna nelle scuole secondarie di Firenze e ha dato vita al seminario fiorentino È ancora possibile la poesia?, giunto alla sua quarta edizione e volto alla sensibilizzazione dei giovani delle scuole superiori nei confronti della poesia secondo-novecentesca e contemporanea.

L’opera prima Come i fuochi di Settembre (Saya 2018) è stata selezionata tra le finaliste dei premi “Guido Gozzano” 2017­­, “InediTO” 2018, “Elena Violani Landi” 2019, ha vinto il premio “Bologna in Lettere – Dislivelli” 2018.

 

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