La rubrica semiseria ̶d̶i̶ ̶c̶r̶i̶t̶i̶c̶a̶ ̶c̶i̶n̶e̶m̶a̶t̶o̶g̶r̶a̶f̶i̶c̶a̶
a cura di Tiziana Cazzato
“Private”, il lungometraggio ambientato in Palestina di Saverio Costanzo
Mentre mi dimeno fra relazioni finali, convocazioni di consigli di classe, preparazione delle ultime lezioni, mi concedo una pausa e mi regalo un po’ della vostra compagnia. Vengo a cercarvi, perché – non è una scusa – ho bisogno della vostra presenza, per sentirmi un po’ meno sola in questa lunga domenica dedicata esclusivamente al lavoro. D’altronde mi sono goduta il relax del sabato, non posso mica esagerare! Perché sì, amici miei, Visti e svisti è per me momento di piacere. Condividere con voi i film che ho visto, potervene parlare, regalarvi la gioia di leggermi mi rilassa, e sapere che, poi, magari, li guarderete pure, mi fa essere in pace con me stessa. Fare insieme a voi salti temporali nella storia o geografici per trovare le perle più o meno note della settima arte, vedere e/o rivedere alcune pellicole è entusiasmante. Soprattutto quando, come oggi – che ho i muscoli delle gambe indolenziti per aver partecipato ad alcune gare di velocità– non bisogna fare un salto molto lungo. Soprattutto quando, come oggi, la perla è un bellissimo film italiano, consigliato da chi di film non solo se ne intende.
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Il risveglio di una normalissima famiglia palestinese. Mohammed è un professore di lingua inglese, sua moglie è una casalinga. Hanno cinque figli e ogni mattina è una gara alla conquista del bagno. Bisogna fare in fretta, per non arrivare tardi a scuola. Il risveglio normale di una qualsiasi famiglia, il risveglio di una quotidianità che può raccontarsi nello stesso modo in moltissimi angoli di questa terra.
Eppure…
Si aprono la porta e le finestre sulla vita privata di una normalissima famiglia palestinese formata dai due genitori e dai loro cinque figli, abitante in una casa sul confine che divide – o dovrebbe dividere – i palestinesi dagli israeliani.
In una notte però, avvolto nel buio, come hanno raccontato e raccontano ancora oggi le pagine di politica e cronaca internazionale, nella vita privata di una famiglia palestinese fa irruzione l’esercito israeliano. I soldati occupano il secondo piano della casa, mentre relegano la famiglia al piano inferiore: il salone sarà la loro nuova dimora. È lì che si chiuderanno al tramonto per uscirne solo all’alba. Potranno usare le altre stanze solo su decisione del comandante israeliano, senza poter, per alcuna ragione, salire al piano superiore.
Mohammed ha fatto la sua scelta. Consapevole di abitare in una regione a rischio, ha sempre scelto di non scappare. Ha scelto per sé e per la sua famiglia di non essere un rifugiato, perché essere un rifugiato significa non essere.
Sceglie, anche in quella durissima condizione di convivenza, di non lasciare la sua casa e invita la moglie e i figli a non aver paura e a combattere. Perché restare è combattere e ci vuole coraggio a scegliere di non rispondere alla forza con la forza, alle armi con le armi. Per non odiare gli ebrei per tutta la vita. Perché ci vuole coraggio a scegliere di combattere in modo fermo e pacifico.
“Perché non lascia la casa?”
“Perché dovrei? È casa mia. Perché non lasci tu casa mia?”
La moglie e i figli non comprendono però la scelta del professore: Samiah ha paura di restare sola a casa, mentre il resto della famiglia è a scuola; il figlio maggiore sogna di diventare un kamikaze e inizia a costruire una bomba con la quale spera di far saltare in aria i soldati israeliani; Jamal vorrebbe andar via, accettare l’invito a stare a casa di un suo compagno; Nada, la bambina di otto anni, dopo essere rimasta fuori dal salone durante una notte di bombardamenti ha smesso di parlare, non riesce a dormire.
La storia entra nel privato di una famiglia e viene raccontata dalla macchina da presa di un regista che nel 2004 sceglieva di esordire con un film coraggiosamente originale e con il quale si è aggiudicato il Bardo d’oro 2004 al Festival di Locarno ed è stato premiato come miglior regista esordiente con il David di Donatello e il Nastro d’Argento. O forse il quotidiano non solo di una famiglia, ma di uomini, donne, bambini e soldati raccontano la dimensione intima e privata di una questione, come quella palestinese-israeliana, che sembra non avere fine.
Un film che raccontava ciò che accadeva diciassette anni fa, ma che continua a raccontare i fatti di oggi, in un crescendo di paura e angoscia.
Quella che il regista ha saputo magistralmente trasferire sulla pellicola in modo obiettivo e distaccato, lasciando parlare i fatti e rimanendo occhio indagatore che osserva ogni componente della famiglia palestinese, prigioniera in casa sua. Con una macchina da presa a spalla che si accosta ai volti e ascolta quello che dicono quegli sguardi carichi di un’angoscia e di una paura che diventano urla, lacrime e silenzi assordanti, nel continuo tentativo di non farsi rubare non solo la vita, ma la più semplice normalità. Il profumo dei biscotti, la riparazione della serra, lo studio, i progetti di vita da perseguire.
Occhio che indaga anche nel privato dei soldati israeliani, spiati attraverso quella fessura che Mariam, la figlia diciassettenne, si apre quando, non vista, sale al piano superiore e si nasconde nell’armadio. Tornano, così, alla mente i brevissimi componimenti di Ungaretti, che come nessun altro ha inciso nel cuore e nella mente dell’umanità la condizione dei soldati al fronte: fragili come quelle foglie sugli alberi, in una stagione che si appresta a morire. Ragazzi. Perché prima che soldati, quegli uomini armati sono ragazzi. Con la nostalgia dei sapori e dei profumi di casa, con il terrore soffiato nelle note di un flauto per il bisogno di abbandonarsi alla dolcezza della musica, con la gioia esaltante per il gol segnato dalla squadra del cuore e il sogno di vedere lo scudetto cucito sulla maglia dei propri campioni.
Un film che va dritto al cuore, che lo colpisce come una lama tagliente e lo fa tremare di paura soprattutto quando lo schermo si fa buio e diventano immagine solo il respiro, gli affanni, le parole e le urla dei protagonisti. Un film girato da chi si rende invisibile per mettersi a servizio della storia e da chi sceglie una luce reale, minima, essenziale che squarcia con rapidi lampi i silenzi, e irrompe nel buio amplificando la tensione, il terrore, l’angoscia e che dà al film una forza e un’originalità raggiungibili solo da grandi professionalità ed eccellenze.
Una storia semplice quella di Private, candidato anche agli Oscar come miglior film straniero (l’Academy rifiutò però la candidatura solo perché il film non era girato in italiano) e che da domani guarderò con i miei ragazzi, a scuola, sul finire di questo anno scolastico, come ultima proposta di quella che abbiamo chiamato “Cinema di…classe”, per regalare loro un’altra grande emozione, perché continuino a scoprire il valore, la bellezza, la qualità. E non svelerò il nome del regista, perché il fatto che si chiami Saverio Costanzo e che sia il figlio del più famoso Maurizio, è una notizia privata che risulta altamente irrilevante.