Un legame di rabbia e solitudine

Gli affamati di Mattia Insolia – Ponte alle Grazie

Recensione di Stefano Bonazzi – 03/01/2021

 

gli affamati copertinaPaolo e Antonio, ventidue e diciannove anni, un padre ucciso da un televisore caduto in testa e una madre assente da più di cinque anni. Paolo e Antonio, un lavoro al cantiere edile e una carriera scolastica lasciata naufragare tra assenze e insufficienze. Paolo e Antonio, un’estate asfissiante e una vita trascorsa a Camporotondo, un paesino nel lembo di un Sud che nulla ha da offrire, se non qualche scorcio di mare incontaminato.

Paolo e Antonio, appunto. Due fratelli e un vuoto che fagocita tutto il resto. Eppure, nel romanzo d’esordio del giovane Mattia Insolia, c’è anche un terzo protagonista: la provincia. Camporotondo è una città minuscola, arida, un orizzonte dominato da schiere di caseggiati tutti uguali, sparuti centri commerciali, qualche pub e un’edilizia che per anni ha speculato imperterrita sopra queste terre di nessuno, dove è sempre la legge del più forte e non del più giusto, ad avere l’ultima parola.

In questo ambiente arido e privo di prospettive, Paolo lotta ogni giorno spaccandosi la schiena al cantiere per non perdere il suo impiego da operaio edile mentre Antonio trascorre le giornate nell’ozio e nella noia, in un susseguirsi di giornate tutte uguali in cui l’unica figura salvifica sembra essere l’amico Ivano e quel suo utopico e ammaliante piano di fuga a Milano in ricerca di una nuova vita.

Gelosia, invidia e dipendenza. Paolo è il fratello maggiore, la colonna portante della coppia, eppure al tempo stesso è anche l’anello più debole. L’amore e l’odio che prova verso Antonio è un legame rabbioso e disperato, avvolto in una morsa di filo spinato in cui ogni gesto si fa detonazione, scontro e morbosa rappacificazione alla ricerca di una serenità impossibile. Paolo continua a spronare il fratello a trovarsi un lavoro, non sopporta di vederlo barcamenarsi fra giornate inconcludenti passate a fumare e a bere mentre lui si spacca la schiena in cantiere per portare a casa due lire che non gli bastano neanche per arrivare a fine mese, vorrebbe solo istigarlo a svegliarsi, mettersi in carreggiata, iniziare a costruirsi un futuro eppure lui è il primo che, alla prima occasione, lo trascina assieme ai suoi amici in una sequenza di serate alcoliche scandite al ritmo di canne e puttane. Ma la rabbia di Paolo è un sentimento asfissiante, un’impellenza destinata a esplodere, distruggere e frantumare, perché attinge dalle fondamenta di un magma instabile e ribollente che ogni giorno si alimenta di quello stesso odio per una vita senza prospettive e una sessualità incapace di manifestarsi nella sua forma più sincera.

La penna di Mattia è abile nel tratteggiare queste disfunzionalità con una prosa schietta, veloce, priva di fronzoli. La storia cattura e prende ritmo, tra dialoghi al vetriolo, descrizioni asciutte e un punto di vista maturo capace di tratteggiare personaggi credibili e un contesto desolante che più di una volta mi ha riportato alla mente certe atmosfere anni novanta, tra il Brizzi più disincantato e un Ammaniti spogliato di ogni ironia.

Gli affamati è dunque una storia che arriva dritta al sodo, senza mezzi termini, coerente alle personalità dei suoi protagonisti e ci sbatte davanti a uno scenario in cui quel sentimento del male di vivere tipico di un’intera generazione, si avvita su se stesso, in una spirale crescente di incontrollate pulsioni, destinate fluire e detonare nei modi peggiori. È un mondo allo sbando, quello di Antonio e Paolo, una provincia che si è arenata sotto un cielo asfittico, un’arena desolante in cui i sogni vanno strappati con i denti e tenuti stretti addosso, lottando contro il mondo esterno e, a volte, anche contro la parte più fragile di noi stessi.

 

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