Piccole storie finite male, di Walter Spennato
di Graziano Gala
La verità è che i giochi con la penna funzionano come quelli col pallone: a un certo punto è preferibile salvare mani e gambe, ritrarre tutto e non affondare il colpo fino alla sua conclusione naturale. Ci sono quelli che non lo fanno, mosche bianchissime, figure disposte a sacrificare tutto pur di rimanere fedeli a una sorta di purezza del mestiere, della missione, verrebbe da dire in questi casi: uno, Cosimo Argentina, mi è costato una tesi di laurea. Un altro l’ho conosciuto quasi per caso e all’anagrafe risuona Walter Spennato. In Piccole storie finite male quest’autore decide di partire da uno dei termini noti della letteratura, la morte, per farne strumento primo di indagine, arnese imprescindibile allo scardinamento di convenzioni sociali, finzioni e accordi in un libro dall’andatura musicale (lato A e B) fatto di tracce dalla durata certa e certificabile. La morte – in una scrittura che mira a mostrare il retrobottega, l’inesplorato, ciò che sarebbe meglio non dire – diventa possibilità di cristallizzare gli eventi, di guardarli bene in volto per un ultimo momento dandone una descrizione il più possibile fedele. Lo scrittore – giustiziere della notte in un’accezione quasi benniana (“Nei sogni della notte i cattivi chiedono perdono e i buoni uccidono”) – cerca di raccontare nella loro nudità questioni spinose (eutanasia, immigrazione, drammi sociali) inquadrate nella cruda realtà senza strizzare l’occhio ad alcun pietismo in una società ormai così malandata da esser essa stessa motivo di cadute (la ripugnante indifferenza e la stupida testardaggine sembrano armi silenziose, ma efficaci). Tra i finiti che diventano statistica e lo stesso autore che si immagina nell’atto del precipitare, resta una sola constatazione amara dinanzi a quel termine diventato per Spennato inizio della scrittura: neppure la conclusione, infatti, pareggia, nessuna livella è all’orizzonte, giacché anche la morte è un lutto che non tutti possono permettersi. Non mi divertivo e non mi emozionavo con un prosimetro dai tempi del primo Argentina e di Zuccalà: grandissimi meriti a Spennato.