La rubrica semiseria ̶d̶i̶ ̶c̶r̶i̶t̶i̶c̶a̶ ̶c̶i̶n̶e̶m̶a̶t̶o̶g̶r̶a̶f̶i̶c̶a̶

a cura di Tiziana Cazzato

“In the mood for love” di Wong Kar-wai

in-the-mood-for-love locandinaNon riesco ancora a crederci. È sera. Sono in bagno, davanti allo specchio, a truccarmi. Ebbene sì, sto preparandomi a uscire. Stasera vado al cinema! E so che non potrò togliere la mascherina, però, diamine!, stasera un filo di rossetto me lo voglio regalare. È una cosa che sapremo solo io e le mie labbra (adesso l’ho detto anche a voi): mi sembra più che sufficiente a far tornare quel sorriso che alcune notizie cercano di cancellare dal mio volto e dal mio cuore, rattristando entrambi (concedetemi un po’ di melodrammaticità! O di esagerazione). Infatti, sul treno di ritorno da scuola, nel pomeriggio ho letto delle due giornaliste californiane che hanno acceso una polemica sul bacio non consensuale di Biancaneve e…

Voglio evitare qualsivoglia commento, anche se non è facile. Quando ho letto in classe alcune fiabe con i miei alunni di undici anni, non vi nascondo che ero un po’ affranta dalle loro domande-osservazioni: “Ma prof., non è possibile che ciò accada perché sappiamo bene che…” Ora non starò a cercare nella memoria episodi precisi, ma mi riservo di presentarli qualora doveste chiedermi prove concrete (ce le ho! Come ora ho fretta di andare). La mia risposta alle loro obiezioni è stata quella di non cercare di spiegare in modo razionale ogni cosa: leggendo una fiaba, bisogna abbandonarsi alla fantasia, al mondo dei sogni, al respiro dell’irrealtà, perché, al di là della possibilità o impossibilità degli eventi, le emozioni che ci regalano e che proviamo sono vere. Abbiamo bisogno di sognare, di credere che ci sarà un vissero felici e contenti, anche se quello che poi hanno vissuto veramente Biancaneve e Cenerentola, dopo aver sposato i loro rispettivi principi azzurri, non lo sappiamo. E personalmente non m’interessa: avranno anche loro diritto a quella benedetta privacy!

A un certo punto deve pur calare il sipario sulla loro vita e lasciare che vivano e si vivano lontani dai nostri sguardi indiscreti, lasciando forse a noi una curiosità insoddisfatta, ma nello stesso tempo accendendo la nostra immaginazione, libera di creare e pensare ciò che più le aggrada.

Un po’ quello che fa Wong Kar-wai nel film In the mood for love, di cui vi avevo fatto cenno l’ultima volta che ci siamo visti e svisti. Il 28 aprile il cinema è ritornato in sala ed è ritornato, fra gli altri, con questo capolavoro (restaurato) del regista cinese, uscito per la prima volta nel 2000.

Non vorrei parlarvene e non vi dirò molto, perché vorrei faceste come me: alzarvi dal divano, cambiarvi, uscire e andare al cinema a vederlo. Nessuna mia parola riuscirà a dare giustizia alla bellezza di questo film, che – immersi nelle comode poltroncine di una sala buia – non vi limiterete a guardare, ma che vi ritroverete letteralmente a vivere. Vi troverete immersi nello stato d’animo per amare (ora sono io, chiedo venia, a fare la traduzione letterale di un titolo, privandolo della sua musicalità) e respirerete l’eleganza non solo degli abiti soffici e leggeri come carezze, delle movenze e di ogni più piccolo gesto della protagonista, ma anche quella degli oggetti, dei luoghi, dei dettagli. L’eleganza di un film che diventa poesia nel racconto di una storia d’amore che sembra restare accennata, ma che è semplicemente privata, intima. I dialoghi, così come la luce, sono sfocati e insinuano un senso di vuoto, di tristezza che sembra appartenere non solo ai protagonisti del film, ma allo spettatore stesso.

La storia inizia con un doppio trasloco. Lui è il redattore di un giornale e con sua moglie (sempre impegnata in trasferte lavorative) ha preso in affitto l’appartamento accanto a quello di lei, segretaria per una ditta di import-export, il cui marito è sempre in viaggio per lavoro. Un doppio trasloco che avviene lo stesso giorno, in circostanze molto simili, e che è il principio di un incontro. Incontro di silenzi, di parole taciute. Di emozioni che si respirano in tutta la loro intensità, seppure rimaste segrete nel cuore.

Eleganza anche nella nascita di un sentimento d’amore, ostacolato dal buon senso, dalla ragione, dal bisogno di far tacere le voci altrui, di essere diversi dai rispettivi coniugi, che restano in tutto il film delle voci fuori campo o al telefono e che incontriamo solo nelle borse e nelle cravatte, regali-souvenir dei loro viaggi di lavoro. Eleganza di una regia che chiude la porta della stanza 2046, dove i due protagonisti si incontrano, senza che a noi sia dato sapere cosa realmente accada fra loro. Senza che sia permesso al nostro sguardo di rubare anche solo un attimo di un’intimità che non è detto sia sesso, ma forse semplicemente qualcosa di più.  La bellezza e l’intensità di un sentimento profondo, indefinibile e di un’emozione palpabile solo se non si cerca di spiegarla, di definirla. Solo se si pensa a viverli, e il sentimento e l’emozione. Abbandonandosi alla poesia di una luce volutamente sfocata, di parole che restano sussurrate e di una colonna sonora che amplifica la malinconia, la tristezza e rallenta i passi sulle scale di lei, che non riesce a incrociare quelli di lui, come se il tempo facesse il loro gioco, facendoli arrivare tardi all’appuntamento con il loro desiderio di non cercarsi. Una musica, quella di Michael Galasso, che accompagna quelle parole rimaste soffocate in gola, intrappolate in quel cuore incastonato nel collo (citando Gaia Manzini, “Nessuna parola dice di noi”, Bompiani) e che danno un senso di soffocamento, da cui forse ci si vorrebbe e potrebbe liberare, se solo si riuscisse ad andare oltre il buon senso, oltre le regole sociali, oltre la ragione.

Un’atmosfera di sentimenti che mi porto dentro, mentre muovo i miei passi al ritmo lento e malinconico di quella musica che continua a suonare per me. Come sono belle le luci che illuminano Milano in questa piacevole notte di primavera. Sono dolci e lontane, come i rumori di una città che si prepara ad andare a dormire, mentre io penso alle parole dette in ritardo, a quelle non dette. Guardo l’ultima volta l’orario sul telefonino, per poi farlo scivolare in fondo alla borsa. Voglio solo sentire i miei passi. Voglio solo andare.  “Non voglio tornare a casa, stanotte”

 

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