L’impietosa formula di una tragedia
Tommaso e l’algebra del destino di Enrico Macioci
Recensione di Stefano Bonazzi – 22/11/2021
Tommaso è bloccato sul sedile posteriore della Citroën di Giorgio Rovere. Padre e figlio sono usciti assieme quella torrida mattina del 14 Agosto 2014 ma Tommaso non sa quale sia la loro meta, il padre è distratto da una telefonata strana, è di cattivo umore e pronuncia parole di cui Tommaso non conosce ancora il significato. Parcheggia in una via sconosciuta, scende di corsa, sembra arrabbiato, preoccupato, la chiusura centralizzata scatta e il padre sparisce oltre l’angolo.
Tommaso non vedrà l’incidente. Non vedrà il corpo del padre accasciato sull’asfalto, l’ambulanza, il sangue. Tommaso non può sapere cos’è successo a suo padre perché Tommaso non può muoversi. Il suo corpo è bloccato dalle cinture di sicurezza, i finestrini sigillati, non c’è modo di liberarsi. Accanto a lui solo qualche giocattolo, briciole di merendine, nell’abitacolo un silenzio claustrofobico, nella testa una nuova voce dalla cadenza ambigua.
Tommaso ha cinque anni.
Questo è l’incipit di un incubo urbano che attinge dall’imprevedibile banalità di un evento casuale per imbastire una cattedrale di situazioni scandite a colpi di sadiche coincidenze. Un’algebra, appunto, che il narratore ci sbatte in faccia sin dalle prime pagine senza celarne la funzione, anzi, dandole forma e voce come fosse un vero e proprio personaggio senziente innescando una sequenza di avvenimenti che porteranno il piccolo Tommaso a una nuova forma di consapevolezza. L’unica ancora di salvezza per sopravvivere all’interno di quella prigione di metallo parcheggiata sul ciglio di una strada deserta. L’incidente, un fatto di cronaca come se ne sono sentiti tanti, l’incubo generato da una situazione familiare complessa che instilla nel ragazzo un senso di abbandono costante, remoto, la conferma del sentore che ci fosse già qualcosa che non andava nel modo in cui mamma e papà si parlavano negli ultimi mesi. Era già tutto lì, nascosto sotto le apparenze. Quella sagoma nera che ora scruta alle spalle di Tommaso oltre il finestrino dell’auto era già in mezzo a loro, da molto tempo prima. Si trattava solo di aspettare che fosse il momento giusto. “Famiglia” e “tempo”, ecco forse le due costanti del romanzo. Una clessidra impietosa che scorre sulla testa del piccolo protagonista ricordandogli costantemente che in quell’abitacolo non c’è nulla da bere, che l’ossigeno presto finirà, che nessuno si accorgerà della sua presenza perché è il 15 di agosto, quella zona è deserta e l’aria è bollente già dalle prime ore della mattina e nessun bambino di cinque anni dovrebbe mai apprendere in un modo tanto drastico e improvviso il concetto di “morte” ma che forse, accettarne l’ineluttabilità, potrebbe essere l’unica forma di sopravvivenza.
Se il romanzo precedente di Macioci, Lettera d’amore allo yeti ci mostrava la forza e l’affetto di un legame padre-figlio in lotta contro le forze del male e la spietatezza di un lutto famigliare, in questa nuova opera ogni sentimentalismo è bandito. La voce nella testa di Tommaso è cinica, feroce, a tratti fin troppo teatrale eppure sempre funzionale a mantenere una tensione narrativa che scorre feroce lungo queste duecento pagine che si bevono con la stessa avida sete che scuote le membra del piccolo Tommaso. Tra echi Kinghiani che ritornano costanti nella poetica dello scrittore, Macioci a questo giro non concede sconti, toccando tematiche anche inflazionate come l’abbandono, il sacrificio, il tradimento, il desiderio di sopravvivenza ma che acquisiscono tutta una nuova forma d’interesse se analizzate attraverso gli occhi di un bambino di cinque anni. Tommaso e l’algebra del destino è una scheggia nera e godibilissima che si regge su una struttura minimale ma granitica tanto quanto il rigore matematico da cui trae linfa.