Sulla scrittura di Lei che non tocca mai terra di Andrea Donaera
La recensione di Stefano Minisgallo
Dire qualcosa mentre si è rapiti dall’uragano
Ecco l’unico fatto che possa compensarmi
Di non essere io l’uragano
(Il primo Dio, Massimo Volume)
In Senza trauma (Quodlibet) Daniele Giglioli scrive che il nucleo fondante di una parte consistente della letteratura contemporanea sia – per l’appunto – l’esperienza traumatica, producendo così un ribaltamento di significati e intenzioni che in passato miravano all’esclusione e alla rimozione del trauma stesso.
Nel nuovo romanzo di Andrea Donaera Lei che non tocca mai terra (NN Editore, 2021) quelle stesse premesse argomentative da cui Giglioli muove la sua analisi sono ben presenti: il trauma e quella che il critico definisce brillantemente come scrittura dell’estremo. Per Giglioli questo estremo muove però necessariamente dall’immaginario perché immaginario è il trauma stesso da cui si dipana.
Donaera, invece, in questo suo secondo romanzo forza il meccanismo descritto da Giglioli e lo manomette proprio perché costruisce buona parte della sua narrazione in un’ambientazione crudamente realista ma nella quale non mancano riferimenti esoterici e divini, fino a che non sarà proprio la realtà a squarciare il velo della finzione.
Lei che non tocca mai terra è un romanzo corale, anzi, un romanzo a più voci, perché queste vanno a sovrapporsi, a scontrarsi eppure raramente dialogano, d’altronde sembra anche questa una evidente volontà dell’autore perché sarebbe difficile fare altrimenti al capezzale di una ragazza in coma. I personaggi di questo racconto si attraversano senza quasi mai toccarsi perché troppo differenti sono i loro vissuti ma soprattutto enormemente diversi sono i loro linguaggi: si ravvede una forma di comunicazione equa solo in pochi frammenti che riguardano i ragazzi del racconto, Andrea, Miriam e Gabry. Eppure, anche loro si scontrano con un muro di difficoltà a parlarsi, nonostante l’età che li accomuna. Questo non costituisce però un elemento di debolezza nello sviluppo del racconto di Donaera, semmai rappresenta un punto di forza, un modo di intensificare ulteriormente ciò che traspare per larga parte di questo romanzo: la solitudine intesa – appunto – come l’impossibilità di comunicare, di un parlare che non sia parlarsi in senso autoriferito.
Pur nella loro dimensione così individuale si avverte nei protagonisti di questo romanzo la volontà di raccontarsi, di dire qualcosa e affermarsi in quanto soggetti. L’unico personaggio raccontato da un narratore che non sia egli stesso è Miriam, per tutti gli altri l’autore si vale della prima persona singolare, perché Miriam è l’unico personaggio che esiste in una maniera perfettamente tangibile, è lei a catalizzare lo sguardo di tutti gli altri che hanno però necessità della già citata affermazione del sé. In questo senso, il personaggio più esemplare è Gabry amica o forse ex-amica (esisteranno gli ex amici?) di Miriam, che si rende conto nei lunghi messaggi che invia alla ragazza in quelle sessioni di talking cure prescritte dalla dottoressa, di finire a parlare sempre di sé. Ma anche rendendosi conto di questa tendenza autoriferita, Gabry non riesce a smettere di parlare di sé e, in fondo, non ci riesce nessuno degli altri personaggi che in quell’io affermano la propria soggettività, come brillantemente fece notare Emile Benveniste in Essere di parola. Sono personaggi non in cerca di un autore, come in Pirandello, semmai in cerca di una via di fuga da quello che credono essere un destino cinico.
Donaera è riuscito a costruire un testo perfettamente scomponibile in vari aspetti: quello del linguaggio di cui si è appena detto, e quello del senso eccedente (quello che Barthes definì come senso ottuso) dell’immaginario che costruisce. Tutta la struttura narrativa, l’ambientazione e la rappresentazione dell’immagine dei personaggi rimandano a uno scenario fortemente iconico: ecco che allora la Gallipoli di Donaera diventa ben più di un’ambiente con rimandi autobiografici per l’autore e che quella dimensione esoterica e divina rappresentata da Papa Nanni funzionano non solo per la loro azione sulla trama ma perché conferiscono un’estetica all’opera difficilmente ripetibile.
Da qui deriva quella produzione di senso ottuso, cioè di tutti quegli elementi significanti del testo che, come ebbe a dire Barthes, “aprono all’infinità del linguaggio”. Dopo l’esordio con Io sono la bestia il ritorno tra gli scaffali di una libreria di Donaera era atteso, perché oltre alla qualità del primo romanzo ci si interrogava su dove sarebbe potuto andare a posare il suo sguardo e la sua penna. Con questa seconda opera l’autore sembra procedere in quel percorso di costruzione di un linguaggio, intendendo tutti i sensi del linguaggio, che lo porti a tracciare una linea di demarcazione tra sé e il circostante.