Credo che qualsiasi trentenne in buon equilibrio psico-fisico e in aspirazione scrittoria debba studiare nella più totale serenità la biografia di Andrea Donaera: Nuovi Argomenti, Nazione Indiana, Crapula Club, Inutile, Atelier, Argo, Il primo amore, Vibrisse, Interno poesia, Poetarum Silva, Verde, Minima&Moralia e potremmo continuare per altre tre righe solo citando blog o riviste. Andrea studia, pensa, calcola, si informa, si dedica con una serietà e una concentrazione pareggiabile per pochi. E riesce, riesce tremendamente, irrobustito da una cultura e un talento assoluti.
[Padre, non dovrebbe essere questo.
(E non lo è: faccio finta.)]
Ritorno al letto, mi ci seppellisco.
Se ti va iniziamo da qui: la poesia è buona (anche) se fa male.
La poesia, talvolta, è buona se fa tanto male da, alla fine, fare bene. Il meccanismo funziona se, attraverso un testo , si crea un confronto e un conforto – una specie di: «Non sei solo, anche io che sto scrivendo sto in quella tua palude» (magari con meno retorica, va be’, perdonami). Ma questo credo sia valido per tutta la letteratura, non solo per la poesia. Perché il tutto passa specialmente da come un autore usa la lingua, dallo stile che propone nell’enunciare le cose – dolorose o meno. D’altra parte c’è anche tanta poesia che smuove emotivamente in modi non consueti, una poesia che in superficie pare non cercare alcun contatto empatico con chi legge, ma che agisce su strati più distanti – quindi più profondi: raggiungendo, così, l’imprevedibilità che fa spesso grande un testo poetico. Penso, tra i primi classici del secondo Novecento che mi vengono in mente, al Sanguineti di Laborintus, a certo Franco Fortini, al primo De Angelis, all’ultimo Caproni, al Pagliarani più sperimentale di Rosso Corpo Lingua; mentre negli ultimi anni abbiamo ricevuto opere eccellenti in questo senso da Laura Pugno, Guido Mazzoni, Andrea Inglese, Elisa Biagini, Vincenzo Ostuni e molti altri tra i migliori poeti degli ultimi decenni – per non parlare di tanti giovanissimi, nati tra gli anni Ottanta e Novanta, che animano il mondo letterario facendo poesia molto buona e che, sì, a volte riesce anche a fare così male da fare bene.
Prosa di poesia: me ne parli spesso, la pratichi, spiegami.
Non credo si possa parlare esaustivamente di questo argomento in poco spazio. Lascio il link alla pagina della Treccani dove l’eccellente critico Paolo Zublena spiega un po’ tutto e lascia anche una breve ma utile bibliografia: http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/narrativa/Zublena.html
Per quanto mi riguarda, invece, posso dire che il forte interesse per questi argomenti mi ha portato – e, specialmente, mi porta – ad avere una visione strabica nei confronti della scrittura, e dunque a lavorare su un doppio respiro costante: potrei un po’ appiattire il discorso dicendoti che in ciò che scrivo in prosa inietto elementi virali provenienti dalla poesia, e viceversa. Ma c’è gente che lo fa molto meglio di me, grazie al cielo. Ci attende, credo, una bella stagione di giovani poeti che scrivono romanzi – dopo che riusciremo a smaltire l’attuale sbornia un po’ fuori luogo di romanzieri ipertrofici che scrivono anche poesie.
Come si gestisce a tuo dire la scrittura oggi?
Credo di pensarla in un modo abbastanza scontato – o addirittura banale. A un certo punto (e non solo oggi: o, almeno: è così da Lyotard in poi) è necessario capire se il proprio scrivere vuole essere soltanto un elemento del proprio privato (concepirlo come un episodio, quotidiano o sporadico, che trova senso nel suo semplice verificarsi) oppure lo si vuole far vivere in un contesto editoriale e dunque tentare di ottenere una rilevanza nel marasma complesso e un po’ rissoso di un mercato fatto di lettori, critici, questioni aziendali, uffici stampa etc. Se si decide di intraprendere la seconda strada bisogna fare i conti con un proliferare continuo di dinamiche, perché il materiale che si vuole scrivere deve essere solo l’inizio di un tragicomico effetto domino di convincimenti: bisogna convincere un editor (o, prima, un agente), il quale dovrà convincere un editore, il quale dovrà convincere i librai, i quali dovranno convincere i lettori, e l’ufficio stampa intanto dovrà convincere un critico a fare una recensione, e il critico dovrà convincere il giornale per cui scrive… And so on. Tutto questo delirio parte da una sola cosa: una cosa scritta, un manoscritto. Mi sembra chiaro, quindi, che, purtroppo, una cosa scritta bene non basta più: deve trattarsi di qualcosa del tutto contingente, chirurgicamente in linea con le istanze mosse dal popolo che vivifica il mondo dei libri. Questo, a mio parere, non è un bene, poiché stiamo rischiando di perdere tanta letteratura di qualità, spesso rigettata da un mondo editoriale che in molti casi concepisce il pubblico in modo bidimensionale. Fortunatamente esistono editori (spesso medio/grandi) che riescono a vendere libri mantenendosi del tutto al di fuori di certi processi; ed è inutile negare che ci sono anche grandi editori che portano avanti un’idea di qualità letteraria, alternandola però con materiale da autogrill o testi che avranno vita breve ma intensa (i libri delle star televisive, degli youtuber e così via). Ma queste cose sono sotto gli occhi di tutti e dette da me non hanno alcuna rilevanza. La cosa importante è un’altra: non mi pare che oggi sia facile essere liberi di produrre del materiale letterario nel quale si tentano strade nuove o meno battute (e dunque magari anche di qualità) senza doversi poi scontrare contro un muro di rifiuti editoriali seriali – specialmente se esordienti senza un curriculum letterario di sorta.
Usi il dialetto per intere liriche. A volte lo spruzzi in prosa. Che rapporto hai con la lingua natia?
Il dialetto del Salento è un po’ la mia lingua madre. Penso quasi sempre in dialetto, mi riesce molto naturale scriverlo, mi è impossibile eliderlo del tutto dal mio parlato. È un fatto involontario, determinato dall’essere cresciuto in un contesto nel quale quasi tutte le persone attorno a me parlavano soltanto in dialetto. Non si tratta di una scelta estetica del tutto cosciente, dunque. Non ho un legame forte con la mia terra di provenienza – anzi, per moltissimi versi la disprezzo e spero di non doverci ritornare stabilmente mai più. Ma la mia testa, la mia lingua e il mio linguaggio funzionano così: e me lo faccio andare bene, facendone, per quanto posso, un tratto caratterizzante della mia scrittura, anche se in realtà è un tratto caratterizzante del mio essere parlante e pensante.
Quello che chiediamo ormai a tutti i narratori: venti righe, seduto nel posto che più desideri. Di cosa scriveresti?
Scriverei di una casa di legno vicino a Kråkstad, in Norvegia. E di Øystein e di Bård che hanno comprato le birre e ora tornano verso quella casa. La giornata è buona, è aprile, Øystein e Bård si sentono bene mentre camminano svelti sotto il sole tiepido, i capelli lunghi sciolti, cantano ad alta voce una canzone dei Venom, fanno una smorfia alle signore che li guardano col cruccio del rimprovero. Arrivano alla casa, ma la porta non si apre, è chiusa a chiave, e l’unica chiave ce l’ha Yngve, e Yngve aveva detto che avrebbe aspettato lì. Øystein e Bård bussano, nessuno apre. Chiamano, urlando, Yngve. Nessuno apre. Allora entrano dalla finestra – la devono rompere picchiando coi gomiti fasciati nei chiodi di pelle nera. In cucina trovano Yngve, col fucile, il coltello, e il sangue che esce dai polsi, dagli occhi. C’è anche un biglietto, “Ursäkta blodet”, che in norvegese vuole dire “Scusate per il sangue”. Øystein e Bård non dicono niente, non si guardano, non sospirano. Restano fermi così per forse due minuti. Poi Øystein si piega, mette le dita tra la poltiglia di capelli e cervello, raccoglie un pezzo, lo lecca con la punta della lingua, lo mette nella tasca interna del chiodo. Bård, senza esitazioni, fa lo stesso. Øystein sorride, va verso il telefono, chiama la polizia. Bård apre il frigo, mette le birre in fresco, si chiede se tutto quello che ha attorno è davvero successo.