Proprio adesso proprio così. Per intenderci meglio
Una rubrica di Valentina Di Cataldo
Allerta spoiler e consigli per la lettura:
Un noto filosofo del Novecento una volta ha scritto qualcosa di simile: “Il mondo di un filosofo dev’essere per forza un universo complicato”. Mi faccio forte di questa semicit e vi avverto: state per affrontare un testo lunghetto e a tratti un po’ difficile. Ho cercato di renderlo il più possibile leggero e decifrabile, ma i temi erano molti e complessi, e in ognuno se ne aprivano altri, perciò semplificare ancora significava perdere troppi livelli di complessità. E siccome, come si diceva, ǝ filosofǝ sono personcine complesse almeno quanto i loro mondi, eccetera eccetera, alla fine ho dovuto rassegnarmi e temo dovrete farlo anche voi: dentro le prossime pagine trovate tutto l’armamentario degli incubi peggiori (citazioni sparse qua e là, rimandi ad autori non del tutto conosciuti, termini specifici usati dando per scontati multipli rimandi impliciti).
Quindi: se non siete dell’umore o se ci sono parti che trovate particolarmente pesanti o oscure o ridondanti o poco interessanti, potete liberamente:
- Evitare di leggere le citazioni (le note a piè di pagina ve le ho risparmiate, potete respirare);
- Saltare qualche riga (paragrafo?) e riprendere qualche riga (paragrafo?) più sotto;
- Saltare a piè pari fino all’ultima frase, poi scrivermi nei commenti che avete adottato questa strategia di lettura;
- Leggere solo l’inizio, poi lasciar perdere (ma scrivetemelo così mi regolo con le dosi di noia per le prossime volte);
- Leggere solo la quarta e la quinta parola di ogni riga (in qualche modo un senso lo troverete comunque, ne sono sicura, anche se non so quale, ma sarebbe interessante scoprirlo. Scrivetemi);
- Scandagliare parola per parola, soffermarvi su ogni termine che vi suona assurdo o inutile, smontare il testo, chiedermi ragioni (di nuovo, scrivetemi!);
- Smettere di leggere adesso;
- O anche adesso;
Se invece siete arrivati fino a qui e pensate di proseguire nella lettura, coraggio, siete già in moto e procedete di buon passo. Vi prometto che troverete anche questioni interessanti che forse potrebbero svoltarvi la giornata (o la vita, ma adesso sto esagerando, lo so. Creavo hype).
In ogni caso, fatemi sapere cosa ne pensate e se magari qualche armonico ha risuonato anche nelle vostre corde. Lo scopo di questa rubrica è quello di cercare un confronto umano, ancor prima che filosofico.
Grazie per la pazienza e buona lettura.
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Riaprire i lembi del discorso. Alcune doverose (rinnovate) precisazioni.
La primavera scorsa, sentendomi sull’orlo di una recuperata normalità, lanciavo qui le premesse di un dialogo asimmetrico e improbabile ai margini della pratica filosofica. Conscia dell’azzardo (forse un po’ meno della difficoltà dell’impresa), tentavo un rilancio sulla condizione liminale, di non-già-più e non-però-ancora, in cui mi pareva fossimo immersǝ. Mi sembrava a quel punto che l’intera questione potesse essere letta nella chiave del confine, del limite, del margine, dell’orlo e di altri nodi correlati, e intorno a questo perno mi proponevo di scavare un percorso, un andirivieni di tracce e problemi. Parole-radice, dunque. Innesti e inneschi. Strade. Coordinate. Vie di senso abitabili tra le molte possibili. L’intenzione dichiarata era di far reagire tra loro determinate parole-radice perché ci facessero da territorio e da progetto, guidandoci attraverso lo sradicamento che sentivo e sospettavo non fosse solo mio. Allora, con troppa fiducia, pensavo che sarei tornata a precisare poco più tardi e perciò lasciavo aperti i discorsi e scoperti i fili e concludevo il pezzo con una serie di domande e l’apertura di un crocicchio, auspicando la prospettiva di un innesto semantico e di una messa in crisi.
In questi mesi di esperienze recuperate, nel contesto rinnovato degli ultimi tempi, in cui ci siamo almeno in parte riappropriatǝ degli spazi e dei corpi, le molte facce della questione hanno preso di volta in volta il posto di sfondo o di proscenio, senza però venire più a tema in modo esplicito. Forse inevitabilmente, il tentativo di risignificazione, più che sul piano filosofico, è avvenuto nel magma concreto della vita vissuta.
Tuttavia, una volta aperto, l’innesto è rimasto lì ad attendere e a smangiare i margini sotto la superficie, in un lavorio di rilancio che oggi esige con prepotenza rinnovata che il discorso non sia lasciato cadere, che si riallaccino i lembi di quelle premesse, che si riapra la traccia del percorso sospeso.
Sarà quindi meglio riprendere alcune delle domande che ponevo e controllare cosa ne è stato nel frattempo, giacché, a distanza di tempo (nel tempo della distanza), mi sembra che, se da una parte siamo ancora a quel bivio, sospes3 sul crocicchio della decisione e nella contemplazione dell’apertura, d’altro canto sia la questione in sé ad essersi trasformata insieme al punto di vista, in una metamorfosi che non è stata teorica, ma agita, patita, vissuta, eppure, a conti fatti, è tanto più filosofica quanto in apparenza più estranea alla filosofia.
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Scuotere i confini della biografia. Una questione di credibilità.
Mi sembra doveroso a questo punto porre una questione preliminare e piuttosto cruciale sull’ironia della biografia che sempre torna a intrecciarsi con il progetto della ragione, proprio quando invece – così ha reclamato per secoli il discorso ufficiale – dovrebbe restarne fuori o tuttalpiù rimanersene muta in disparte, pena la perdita di credibilità e di rigore intellettuale del discorso stesso.
Più che mai, mi pare di vedere, la faccenda riguarda il territorio e il gesto di un confine, di un confinamento e di uno sconfinamento (di una certa parte del discorso rispetto a una certa altra parte, o anche di un determinato modo rispetto all’intero di riferimento). Questo limite multiplo ci sollecita da un margine dell’esclusione, mettendo in dubbio addirittura la verità e la validità del nostro interrogare, e perciò è forse ora di scuoterlo e metterlo in crisi.
Verrebbe da chiedersi se una simile separazione (normativa, prescrittiva, che pretende di autorizzare il lecito escludendo l’illecito) non sia già in sé un tentativo di cosmetizzazione in atto, un modo (deliberato o inconscio) per ripulire l’esistente lasciando fuori quanto vi è di irriducibile alla coerenza logica.
Seguendo una certa tradizione di filosofia del sospetto, potremmo vedervi la rimozione di un sintomo o addirittura la negazione ostinata di un problema strutturale e leggere l’operazione come un tentativo auto-eteronormato di escissione in cui però va a finire che il discorso si mette in scacco da sé condannandosi alla paralisi dell’insignificanza e alla morte per svuotamento, colpito dalla nemesi della stupidità. (Con lucida veggenza, Adorno in Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, evidenziava il rischio di cancellare dal discorso la parte umana, emotiva, sentimentale, rendendolo un pensiero vuoto, inutile, vacuo).
Ad aggravare ulteriormente la situazione, proprio noi proprio adesso proprio così. Ora che (a modo nostro e per certi versi) ci troviamo dopo la crepa, con molte delle coordinate saltate, spiazzat3 e disorientat3 nello strascico della catastrofe mancata, quale certezza potremmo avere che il paradigma funzioni ancora, che non sia invece del tutto inservibile o indecifrabile? Avrebbe senso ostinarsi in quel solco? Più probabilmente, già da un (bel) po’ possiamo intravedervi un alone, la proiezione di un resto incalcolabile, la traccia di un eccesso di vita (una sorta di Lebenswelt di husserliana memoria) che torna inevitabilmente a ossessionare il discorso con spettri e fantasmi (con conseguenze inquietanti, benché forse anche aurorali, come ci ha suggerito Derrida e con lui alcuni altri). Come gestire, allora, questa biografia vivente che si re-intrufola a sorpresa e con prepotenza? Come ascoltarla? Come darle voce? E con quale voce dire quello che c’è da dire? In altre parole: come reagire ai problemi che ci sollecitano dal presente? Come non travisarli, ometterli, stravolgerli nella forzatura di un impianto teorico posticcio? Detto altrimenti, quale posto resta per la filosofia in questa urgenza vissuta percepita?
Il dubbio non è di poco conto, ma forse contiene già in sé il proprio antidoto, soprattutto se assumiamo che la filosofia è arte dinamica, pratica situata di interrogazione sulla vita (alla vita, nella vita, per la vita, dalla vita vivente che siamo). Del resto, si fa filosofia (o anche, per converso, il pensiero ci fa) sempre e soltanto attraverso il nostro qui e ora.
Mi pare che proprio qui si giochi l’intera questione dell’esistere, sul margine interno della costruzione dell’io-sono e poi su quello inter-soggettivo del noi-siamo e infine (ma insieme) sulle linee di frizione lungo le quali queste frontiere sfregano tra loro. “L’esercizio filosofico è questione di relazione tra identità e frontiera”, scriveva Husserl. (Si tratta casomai di “non rinunciare né al presente né a pensare la presenza del presente”).
Conviene quindi “non lasciarsi sedurre dal pathos della ragione” (di nuovo Adorno) e invece “tendere l’orecchio, chinarsi verso questo borbottio del mondo” (Foucault, questa volta) che non sa dirsi ma prova comunque a parlare attraverso il nostro balbettare.
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Balbettare meglio. Tentativi di non-esclusione.
Facciamo dunque il giro intorno alla questione, mettiamola a fuoco e a tema e riconsideriamola dal principio per stabilire meglio le coordinate del nostro gioco. Impresa tanto disperata e già votata all’errore, quanto fondamentale per non dissolverci lungo strada. Mi si perdonerà se per una volta il discorso risulta un po’ contorto, ma non riesco a trovare modi più semplici per dire quello che voglio senza perdere strati di complessità. (Del resto, già Whitehead lo diceva da qualche parte: l’universo di un professor di filosofia dev’essere per forza un mondo complicato. Siamo dei mostri, sì, è vero. Ma non poi così tanto. Ma sì. Scusate).
Ardua innanzitutto (ma non solo) perché, come accennavo l’altra volta, ogni radice ne contiene molte e ogni nodo problematico trascina inevitabilmente con sé anche tutti i precedenti e i seguenti della catena semantica, e quindi, si diceva, l’esperimento può essere intrapreso solo a partire dal margine di uno sguardo multiplo, stratificato, incoerente, che preveda già in partenza la possibilità di deviare, di perdersi, di infilarsi in un groviglio potenzialmente inestricabile.
Eppure non abbiamo altra scelta se non rifare continuamente il percorso a ritroso, girare a vuoto intorno al cuore del problema, ricalcare le premesse senza tregua, abitare il balbettio dell’inservibile e rimettere in scena il gioco fantasmatico del presente e dell’assente in un rimescolamento continuo (“inarrestabile processo di insubordinazione intellettuale, scompaginamento concettuale delle gerarchie”, come scriveva Adorno, ma senza ipotesi di conciliazione finale, aggiungerei).
Senza dubbio, è una deviazione politica. Siamo già (da sempre?) nel luogo della trasgressione. Eppure si tratta solo di una rilettura innocente (imperterrita) di ciò che c’è, nel senso (weiliano e non solo) in cui lettura è inevitabilmente anche una reinterpretazione, una relazione di un certo tipo con la realtà, “uno stare al mondo che si costruisce con la prassi dinamica e l’esercizio”, ovvero una reinvenzione biunivoca del mondo e del soggetto. Sempre Weil, ermeneutica forse oltre le sue stesse intenzioni: “L’azione su se stessi, l’azione sugli altri consiste nel trasformare i significati”.
Ma allora, adesso qui, per la precisione, non si sta soltanto descrivendo ex-post un’immagine data. Piuttosto, già dal principio si stavano tratteggiando mondi alternativi.
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Tratteggiare scenari. Per una poetica della relazione.
Sempre Foucault, in Storia della follia, scriveva: “La definizione dell’identità di una cultura si gioca e si decide sulla [sua] percezione dei limiti, sulla messa a fuoco delle esperienze-limite” in cui tale cultura si determina e si lacera per differenza dal suo altro, cioè da quello che non è disposta ad accettare come parte di sé”. Se è vero che queste esperienze di frontiera tracciano il limite irriducibile dell’esperienza e determinano lo status di cosa (chi) in questa esperienza può essere inclusǝ, mi sembra possa essere utile mettere in gioco di rilancio proprio la soglia di questa lacerazione che si perpetua, recuperare il (un) bordo e innestarvi un (degli) elemento(i) altro(i), eterogeneo(i), aprire una (delle) traiettoria(e) divergente(i) nel groviglio di partenza. Che cosa si creerebbe? Probabilmente qualcosa di mostruoso, una chimera dispersa e nomade. Sarebbe senza dubbio un territorio inaudito in cui muoversi, un non-luogo, un non-territorio.
Val forse la pena, in questa prospettiva, saggiare se sia possibile raccogliere l’invito di certǝ autorǝ che ci hanno preceduto e imbastire nel concreto un discorso plurale e non esclusivo, un pensiero del molteplice, una poetica della relazione che ci mantenga vivǝ sul crocicchio a cui siamo approdatǝ (giacché siamo pur sempre al solito incrocio di strade e in questo bordo dobbiamo rimetterci in cammino, benché non sappiamo per dove, né da dove).
Secondo questǝ autorǝ, una poetica del genere implicherebbe “un’etica dell’accettazione, del riconoscimento, dell’accoglienza dell’altro” inteso come alterità assoluta non riappropriabile. (Senza assoggettamento, direbbe forse Lévinas. Un mantenimento caparbio della differenza che non si traduca ogni volta dialetticamente in un riassorbimento dell’altro. Una impossibile vicinanza nel distacco delle solitudini, con tutto il tragico, intollerabile paradosso che ne consegue).
Ciò dovrebbe rassicurarci ulteriormente sulla possibile validità dell’impresa che qui si sta mettendo in campo. Del resto, potremmo attingere risorse dalla fitobiologia e portare il discorso verso un ambito del tutto diverso (ma a ben vedere non poi così lontano, come stanno mettendo in luce le divulgazioni di Stefano Mancuso e le ricerche di altrǝ autorǝ che oggi lavorano sul confine tra più campi del sapere e delle scienze).
Prendiamo a esempio le piante, allora. Giunte al crocicchio, le piante non ne fanno problema, decisione né scelta, ma lo assumono come normale risorsa fisiologica. Salvo casi di stress, infatti, sono benissimo in grado di sviluppare più rami allo stesso tempo. Mantengono cioè entrambi i lati della biforcazione, il che ci dimostra forse che l’aut aut del metodo diairetico non è l’unica soluzione possibile, perlomeno se si allarga il campo oltre i limiti e gli orizzonti dell’antropico, ovvero se si lasciano da parte per un attimo proprio quelle categorie tradizionali di cui oggi si inizia a dire che sono troppo anguste per riuscire a interpretare il mondo in modo esaustivo (anche il nostro, guardato con tutta l’inevitabile umanità di cui siamo intrisi). Insomma, a voler ben guardare, tertium datur, con buona pace di Aristotele e dell’intero impianto logico occidentale.
Potremmo provare allora a costruirci sottotraccia una mappa fluida e alternativa, una rete micorrizica, un rizoma sinaptico. Banalmente, “un mondo per viverci bene, per sopravviverci, per non soffocare”, come scriveva Derrida in Fini dell’uomo. E non certo nel senso di chiuderci dentro a scavare patologicamente cunicoli da abitare, ossessionatǝ da una fantomatica minaccia esterna, sospintǝ da un reiterato assillo di perfezione (“Ho assestato la tana e pare riuscita bene”. Con questa dichiarazione del protagonista si apre il famoso racconto di Kafka, con una soddisfazione per le opere che lì per lì quasi non lascia intravvedere l’alienazione di cui si sostiene). E neppure nel senso di buttare via tutto e ricominciare da capo, giacché sarebbe un’utopia inutile oltre che ingenua. Al contrario, dovremmo agire attraverso l’unica azione possibile: restare proprio qui dove siamo, abitare l’unico mondo che abbiamo a disposizione, la crepa che già da tempo si è formata e ci ha accolto/respinto in vari modo e misura. Che senso ha questo gesto? Come lo dobbiamo abitare? Come lo possiamo, abitare? Giustamente ricorda spesso Sini nelle sue conferenze: “Non si tratta di correggere l’errore, ma di frequentarlo nel modo giusto”.
Come muoverci allora? Come riscrivere la mappa?
Servirebbero connessioni, relazioni, scambi. Prima ancora, forse, ci sarebbe bisogno di nuove coordinate, confini (dentro cui fermarsi o da travalicare), punti fermi e segni di riferimento mobili. Sarebbe utile capire dove si trovano quelli attuali e se possono essere lasciati lì, o se invece sarà meglio spostarli, sostituirli, spiazzarli per abitarli meglio. A questo punto mi pare inevitabile l’esigenza di rinegoziare le regole del gioco per capirsi, per stabilire un terreno comune, per poter frequentare lo stesso terreno e in esso essere interconnessǝ in relazione fluida e sistemica. Il che mi suggerisce di tornare senza indugi alla proposta con cui si chiudeva il primo testo: affidarci ad alcune parole-radice e farci guidare nell’impresa. Ma possiamo davvero? E a che prezzo? E a che condizioni?
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Abitare la crepa. Un’occasione.
Soprattutto, anche ammesso che le condizioni per accordarsi si diano, resta il dubbio se si possa poi abitare un non-luogo. Perché quello in cui siamo al momento è evidentemente un non-territorio, un posto dove le coordinate sono non soltanto saltate una volta per tutte per via di cause esterne (presunte catastrofi operate dalle cose sulle cose), ma, molto più radicalmente, continuano a franare senza tregua per decisione deliberata, a rimescolarsi in scuotimenti ravvicinati fino a confondersi e a perdere lo status di identità riconoscibili. Come abitare la crepa (possibilmente) senza impazzire? Non è un’aporia troppo ostile perché si riesca a farsene una ragione? E con quale progetto, con quale ingenuità azzardarsi addirittura a costruire un discorso coerente su un simile territorio?
Anche per questi motivi, forse inevitabilmente il discorso gira a vuoto intorno alle sue premesse, agisce dal confine della pratica filosofica e si rifugia in altri linguaggi (non ultimi quelli dell’arte, della musica e della letteratura, una volta di più per ragioni anche biografiche e soggettive, quindi rigorosamente illecite). Da lì cerca i puntelli di cui ha bisogno, ripercorrendo alla cieca (in una pratica rabdomantica, epidermica, corporea) l’assurda mappa di un sistema di cicatrici e poi giustapponendo elementi senza omogeneizzarne le possibili contraddizioni, poiché non è l’omologhia platonica né una presunta concordanza finale, che qui ci interessano, quanto piuttosto l’emergenza di voci irriducibili e aperture inedite. Il gesto complessivo si potrebbe anche leggere come “un allenamento a spiazzarsi per saggiare nuove soluzioni ed essere pronti al caos del mondo”, per citare il Bencivenga di Filosofia in gioco. Siamo ben dopo la crepa, si diceva. Dal privilegio negativo di questa prospettiva doppiamente capovolta (uno sguardo divergente su un mondo messo sottosopra dal capitalismo post-contemporaneo, che ricorda per certi aspetti die verkehrte Welt di cui parlava già Marx), viviamo senza saperlo il reiterarsi di un gioco molto serio (la filosofia è la cosa più seria in assoluto, ma tanto seria, poi, alla fin fine, non lo è nemmeno, sempre parafrasando Adorno). Sarà meglio non lasciar cadere l’occasione di questa salutare, catastrofica, aurorale pratica di reazione alla crisi.
Leggi anche – Ai confini della filosofia, di Valentina di Cataldo