Recensione di Stefano Bonazzi – 26/02/2022
Quanto è spaventoso scoprire cosa abbiamo nella testa?
Nefando di Mónica Ojeda – Polidoro
Ci sono modi diversi di raccontare l’oscurità. Ci sono troppe oscurità diverse per poterle raccontare tutte. Mónica Ojeda ci aveva già provato con il suo romanzo precedente, quel Mandibula che tanto ha fatto parlare l’anno scorso per quel suo modo tutto personale di sconvolgere il lettore, partendo dall’horror fino a cannibalizzare tutti i generi.
Oggi ci riprova, la scrittrice ecuadoriana, a tornare in quel luogo ombroso che è culla e rifugio di ogni ossessione, un pozzo che non attinge più dall’horror classico ma, se possibile, da una vertigine ancor più profonda. Il livello successivo, appunto, quel deep web accessibile solo alle menti più skillate, un non-luogo in cui reale e immaginario si ibridano in una nuova concezione di intrattenimento.
Nefando, un videogioco online sconosciuto ai più, eliminato dalla rete a causa del suo contenuto capace di scandalizzare e generare malate dipendenze, Nefando, causa e fulcro di una serrata sequenza di testimonianze tra le menti di chi l’ha progettato e chi, invece, ha rischiato di restarvi intrappolato per sempre.
Ci troviamo a Barcellona, in un appartamento condiviso tra Kiki Ortega, una messicana studentessa di lettere; Il Cuco Martínez, un hacker amante della letteratura fantascientifica e distopica; Iván Herrera, un ombroso poeta; i fratelli Terán, Irene, Emilio e Cecilia, personalità diverse, destinate a fondersi un’unica ideologia alla base del gioco.
Il primo capitolo è spiazzante. Una terza persona onnisciente ci sbatte senza preamboli nella mente di Kiki, alter ego dell’autrice, che si interroga, in flusso di coscienza vorticoso, sul modo migliore per raccontare la vicenda che ha in testa. Una storia nella storia: tre ragazzi, Diego, Eduardo (le mosche), Nella (il ragno) e una formazione sessuale destinata, come ogni storia di formazione sessuale, a mutare in altro.
Kiki sta parlando a se stessa e a noi, vuole capire quanto possa essere difficile scrivere un romanzo sulla sessualità di tre adolescenti, quanto possa essere crudele.
“Voleva scrivere come se zero fosse più di un’assenza. Voleva dire mordersi la coscienza a ripetizione; affondarci i denti come quando mastichi una gomma. Voleva scrivere come se zero fosse un punto da cui partire. Il circo era un uroboro che si rimordeva la coda. Scrivere da zero era però impossibile. Un romanzo poteva essere un uroboro.”
Ce lo fa capire fin da subito, Kiki-Mónica, che entrare in Nefando sarà qualcosa di diverso. Un’esperienza nuova, un viaggio straniante, impegnativo, a tratti rivoltante, a tratti, tremendamente affascinante. Come un’opera d’arte moderna concettuale, la compenetrazione tra i generi diventa il fulcro di un romanzo in cui le vite dei protagonisti si fanno portavoce di riflessioni che trascendono la pagina. In Nefando si parla di lingue, culture, costrutti sociali, poesia. Nefando è un boudoir del possibile in cui ogni riflessione può partire da coordinate impensabili. Un metaverso allucinato in cui le figure religiose del supplizio possono essere paragonate alle pratiche del BDSM e la mitologia azteca può rappresentare il simbolo di una dualità repressa. Pagine dense di significati e stratificazioni che spingono alla rilettura, alla sottolineatura, a un voler tornare indietro per leggere e rileggere passaggi di una morbosa, ipnotica, spigolosità.
I capitoli sono suddivisi dal punto di vista dei protagonisti e la loro alternanza potrebbe inizialmente spaesare perché la voce narrante è in continua evoluzione. La prima persona si alterna alla terza, il punto di vista passa da interno a esterno, la struttura psicotica della vicenda richiede una dedizione simile a quella imposta ai player-voyeur che prenderanno parte al gioco ma la soddisfazione e la curiosità spingono il lettore a procedere in quest’universo fluido dove, mai come in questo caso, il concetto di metanarrazione è finalizzato a una riflessione attiva e partecipativa.
Vogliamo sapere come procederà la storia ideata da Kiki, restiamo ammaliati dalle riflessioni pseudo filosofiche che spingono il Cuco a paragonare la vita a un linguaggio di programmazione, siamo obbligati ad addentrarci nell’infanzia dei fratelli Terán e capire come sia possibile sopravvivere all’interno di un’umanità tanto mostruosa quanto reale.
Sappiamo fin dalle prime pagine che non sarà un viaggio semplice, che sarà necessaria pazienza, osservazione, apertura. Accettiamo di lasciarci ferire da una prosa che non si concede censure, che ci sbatte in faccia quell’oscurità che l’autrice stessa definisce “perturbante” perché, proprio come quei videogiocatori alienati e ossessionati, vogliamo capire il significato celato nel codice sorgente di Nefando. Anche a costo di uscirne diversi.
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