Un racconto di Federica D’Alessandro
Arrivò come una tempesta che si preparava dal mattino: prima le foglie sollevate in un turbine da una raffica di vento, poi la corsa delle bottiglie di plastica ai bordi del marciapiede interrotta dalle auto in sosta. Quindi sparute gocce di pioggia che presto diventarono temporale.
Allo stesso modo giunse quella che sarebbe passata alle cronache come la “guerra dei dentifrici”.
I primi segnali giunsero da dubbi domìni web che pubblicavano articoli con titoli presuntuosi come “Tutta la verità sul fluoro”.
Serena lesse il primo articolo a letto, subito dopo le abluzioni serali, e non gli diede alcuna importanza. Il trafiletto sosteneva, in un italiano sgangherato, che fosse in atto una cospirazione per tenere all’oscuro i più della correlazione tra l’uso del fluoro nei dentifrici e un’infiammazione nota (o meglio, non nota) come malattia di Suzuki, dal nome dell’infettivologo giapponese che per primo l’aveva individuata. Che poi non era neanche una malattia, spiegava il misconosciuto divulgatore, ma piuttosto una sindrome, che portava prima all’arrossamento delle gengive, poi al loro sanguinamento, e in certi casi alla parodontite. Ma non si fermava lì: poteva raggiungere il sistema circolatorio e diventare sistemica, arrivando ad aggredire cuore, reni e, nei casi più disperati, l’apparato digerente. A quel punto, il povero malato era spacciato. Serena aveva fatto spallucce e si era ripromessa di non cliccare più su siti come leveritascomode.org.
Il giorno dopo era andata al lavoro come sempre.
Accese il computer, andò come sempre su Internet e si accorse che i banner laterali della pagina di navigazione sponsorizzavano articoli sul pericolo del fluoro. Scorse velocemente gli indirizzi dei siti in cerca di un titolo degno di fiducia. Quando ne trovò uno che sembrava scritto secondo i canoni del giornalismo di una volta, ci cliccò sopra e lesse l’occhiello.
Il fluoro nei dentifrici ci avvelena lentamente.
La scoperta di alcuni ricercatori dell’Università dell’Ohio.
Caspita, pensò Serena. Adesso la vicenda sembrava un pochino più seria. Intanto il sito non era da giornalismo a un euro ogni trenta parole. E poi, l’università dell’Ohio. Si chiese a quale livello di serietà si collocassero i ricercatori universitari in Ohio. Era un’università pubblica, quella dell’Ohio? Perché i film americani ci avevano abituati fin da bambini a dubitare della bontà delle loro università pubbliche. E se invece era un’università privata, chi finanziava le ricerche sul fluoro, nelle università private dell’Ohio? Su quale genere di industria si basava l’economia ohioese? Ma gli abitanti dell’Ohio pensavano a sé stessi come ohioesi? Serena cercò l’Ohio su Google Maps. Vide che a nord confinava con il Michigan, lo Stato di Detroit e dell’industria automobilistica. Nessuna apparente connessione con il fluoro. Subito a est degli ohaioesi c’erano i pennsylveni. Ecco, a Philadelphia, con tutto quell’amore fraterno, i sorrisi bianchi dovevano avere un certo peso. Forse la guerra al fluoro era una guerra all’amore fraterno dei vicini dell’Est?
Serena chiuse il sito senza leggere l’articolo e si mise a lavorare.
Aveva una lista piuttosto lunga di persone a cui telefonare, gente che per lo più non le avrebbe risposto, o che rispondendole le avrebbe detto di non essere interessata, o che l’avrebbe fatta parlare convinta di farle la carità “perché so che voialtri guadagnate solo se ci fate restare al telefono, facciamo così, io poso qui il telefono e lei mi dice quello che mi deve dire e riattacca quando ha fatto”. Dio, come odiava i buoni samaritani del call center! Come avrebbe voluto che questa gente si sforzasse un po’ di più per sentirsi a posto con la propria coscienza.
Dopo due ore e una trentina di telefonate le toccava un quarto d’ora lontano dalle cuffie. Alla macchinetta c’erano già due colleghi. Serena si avvicinò e chiese loro se avessero sentito parlare di quella faccenda del fluoro. Entrambi risposero di no, ma uno dei due tirò fuori il telefono dalla tasca e fece una ricerca per parola chiave.
«Ecco qua» disse «in effetti dice che dei ricercatori americani hanno individuato una correlazione tra l’uso del fluoro e un’infiammazione pericolosa.»
Il collega rimase pensoso e scorse velocemente l’articolo con gli occhi, mentre l’altro finiva il suo caffè.
«Bah, a me sembrano tutte stronzate» sentenziò alla fine.
«Ma cosa dice l’articolo?» chiese Serena.
«Ma che ne so, è molto lungo, ma comunque parla di una malattia collegata al fluoro. È da una vita che mettono il fluoro nel dentifricio, e ora improvvisamente si accorgono che ci fa male? Ma che cazzo!»
«Faccio bene io, che i denti manco me li lavo!» confessò con fiera alitosi l’altro collega, mostrando un fetido sorriso giallo. Poi buttò il bicchierino nell’indifferenziato e chiuse velocemente la bocca. Serena ebbe l’impressione che si fosse pentito della tartarica confidenza di un attimo prima.
Tornò al suo cubicolo con una sensazione di disagio. Andò su Google e cercò la composizione del dentifricio che usava da anni: tra gli ingredienti c’era il sodium fluoride. Chiuse quella pagina e si decise a comporre il numero successivo della sua lista. Fino alla fine del turno riuscì a non googlare più quella ricerca.
L’appartamento che Serena condivideva con sua madre e Alfio, il compagno di lei, alla periferia della città, era di sessantaquattro metri quadri. C’era un solo balcone, che Alfio aveva trasformato nell’angolo fumo ed erbe aromatiche. Alfio era un brav’uomo, l’aveva cresciuta letteralmente come fosse stata figlia sua e non aveva mai rimproverato alla compagna di non aver condiviso con lui i propri geni per mettere al mondo un altro marmocchio, un po’ perché di soldi Alfio ne aveva sempre avuti pochi, e un altro marmocchio sarebbe stato di troppo; un po’ perché non andava così fiero dei suoi geni da sentire il bisogno di ficcarli dentro a un altro essere umano perché se ne andassero in giro quando lui fosse schiattato. Che poi, in giro. Alfio non era praticamente mai uscito dal suo quartiere. Sua madre, o quel che ne restava, viveva due blocchi di cemento più a sud di lui, con Ludmila, la badante ucraina in nero che gli succhiava via la pensione di reversibilità del padre.
Alfio aveva allungato le mani su Ludmila una sola volta, durante una Vigilia di Natale, mentre la donna stava preparando un piatto tipico delle sue parti. Era china a infilare una teglia nel forno quando la mano di Alfio era partita a cercarne il culo prima che la testa avesse avuto il tempo di chiedergli che cosa stesse facendo. Era così che funzionava. Chissà quanti momenti spiacevoli si sarebbe risparmiata l’umanità se il pensiero avesse sempre preceduto l’azione. Ludmila non si era scomposta, aveva finito di fare quello che stava facendo, aveva chiuso lo sportellino del forno e poi si era voltata a guardare Alfio, che le aveva restituito uno sguardo in bilico tra speranza e pentimento. Ne era seguito un silenzio di occhi che aveva impietrito Alfio. C’era l’Unione Sovietica, in quel silenzio, e il suo dissolvimento. La miseria, la dittatura, le patate come unica fonte di calorie, i figli di Ludmila alla periferia di Kiev che aspettavano le rimesse della madre, la richiesta di asilo respinta e la mancanza di documenti, i giovedì pomeriggio sulle panchine del parco del quartiere con le altre badanti ucraine, la tinta per capelli color tuorlo d’uovo fatta alla meno peggio sul lavandino del bagno di servizio. Poi Ludmila aveva distolto lo sguardo ed era tornata a sfaccendare in cucina. Non avevano mai parlato di quell’episodio, e Alfio non si era mai più permesso di sfiorarla. Aveva evitato ogni occasione in cui avrebbe corso il rischio di rimanere da solo con lei, fin quando aveva sentito che la situazione si era come normalizzata, e si era rilassato. Riteneva che né la sua compagna né Serena avessero mai neanche sospettato di quel goffo tentativo del Natale di tre anni prima, ma non era così, perché Serena si era accorta di tutto dal corridoio, ma aveva scelto di non dire nulla per quieto vivere, che col passare degli anni le era sembrato un valore più prezioso della verità a ogni costo. Peraltro le era capitato di chiedersi chi potesse permettersi davvero che la verità avesse qualsiasi costo. Cosa avrebbe comportato dire a sua madre che Alfio aveva toccato il culo a Ludmila? Avrebbe magari costretto la donna a prendere coscienza di un problema di coppia, dell’insoddisfazione di lui per una vita sessuale ordinaria, o quasi nulla, o della sua voglia di novità anche a dispetto di quello che aveva con lei. Oppure sua madre avrebbe fatto spallucce, avrebbe confessato di esserne già al corrente, avrebbe detto a sua figlia “faccia pure quel che vuole, purché mi lasci tranquilla”, e Serena avrebbe dovuto accettare sull’orlo dei trent’anni che la coppia significa anche barattare qualche piccolo adulterio con la propria serenità. O magari sarebbe scoppiato un inferno, Ludmila sarebbe stata cacciata di casa e sarebbe rimasta in mezzo a una strada, senza soldi né documenti, in balìa del primo balordo che si fosse offerto di aiutarla, e sarebbe finita violentata e segregata in un casolare da una coppia di connazionali irregolari, come Serena aveva letto qualche tempo prima su Internet. Oppure sua madre avrebbe deciso di piantare quel porco pervertito di Alfio, che un minuto prima era stato solo Alfio, e si sarebbero ritrovate loro senza casa, col solo misero stipendio di Serena, a cercarsi un posto dove vivere, a mangiare alla Caritas e a fare domanda per il reddito di cittadinanza. No, la verità ha sempre un costo, e non sempre quel costo lo si può sopportare.
Serena aveva ripensato a quell’episodio e alle considerazioni sul peso della verità quando si era decisa a iniziare una ricerca un po’ più approfondita sul fluoro nei dentifrici.
Dopo le timide ricerche iniziali, il suo telefono era stato subissato di articoli che riguardavano la correlazione tra fluoro e malattia di Suzuki.
Decise di fare un tentativo e capire se altri si fossero accorti come lei di quell’argomento, così condivise su Facebook uno di quegli articoli, chiedendo ai suoi contatti cosa ne pensassero. Ci misero poco a rispondere. In molti condivisero nelle risposte altri articoli, sempre più allarmisti. Non erano i ricercatori dell’università dell’Ohio gli unici ad avere fatto quella scoperta, a quanto sembrava. Qualcosa doveva esserci sotto, sebbene tre dei suoi contatti si fossero affrettati a dirle che non c’era alcun rischio nel fluoro, che era usato anche nell’acqua del rubinetto proprio perché aveva delle proprietà benefiche, che combatteva l’osteoporosi e che in quantità ridotte era un toccasana. Ma uno di questi era un dentista, e come ci si poteva fidare proprio della categoria che più di ogni altra aveva da guadagnarci da un avvelenamento da fluoro? Quelle considerazioni, in realtà, misero in Serena un’altra pulce, e decise di approfondire l’argomento del fluoro nell’acqua potabile. Era vero. Allora forse la situazione era ancora più grave di quanto non fosse sembrata all’inizio.
*****
Le cose precipitarono all’improvviso.
Un giorno in cui Serena aveva acceso la TV mentre apparecchiava la tavola, sentì parlare al TG del sedicente gruppo No fluoro, capeggiato da una piccola associazione di consumatori fino a quel momento del tutto sconosciuta.
«Chiediamo verità e giustizia!» diceva la donna che si era presa l’onere di parlare davanti alle telecamere. Indossava occhiali da sole molto scuri e una fascia per capelli azzurra, che rendevano difficile distinguerne i connotati.
«Mettono il fluoro nei nostri dentifrici, e anche in quelli dei nostri bambini! È un avvelenamento programmatico nella totale indifferenza delle autorità. O forse…» aggiunse dopo un attimo di patos «con la loro connivenza!». L’intervista si interrompeva lì, poi la giornalista, in diretta da piazza Colonna, aggiungeva che il sit-in di protesa davanti a Palazzo Chigi sarebbe andato avanti ancora per un paio d’ore e che una delegazione dei No fluoro aveva espressamente richiesto di incontrare il premier o un suo delegato, senza che a quella richiesta fosse seguito un cenno delle istituzioni, dettaglio giudicato piuttosto allarmante se non sospetto.
Appena qualche giorno dopo Serena ricevette una e-mail sulla sua casella, avente a oggetto “No fluoro: class action”. Era una di quelle mail inoltrate a pioggia a centinaia di contatti, di quelle che normalmente il server di posta avrebbe dovuto relegare nello spam. Ma per qualche ragione, invece, era arrivata alla sua attenzione.
Serena la aprì con cautela e lesse:
“Car* consumatore/trice,
sicuramente anche tu hai adoperato, nel corso della tua vita, dentifrici al fluoro, confidando nella buona fede di quei produttori che, promettendoti un sorriso sempre più bianco e financo denti più forti, si sono beffati della tua ingenua fiducia, rischiando di provocarti danni ingenti e – talvolta – persino esiti mortali.
Oggi desideriamo dire basta a questo fenomeno indecente, che ha sicuramente visto la collusione, se non l’aperto avallo, di poteri forti che intendiamo smascherare. Se anche tu hai usato, nel corso degli ultimi dieci anni, uno o più dei marchi di dentifricio che troverai in calce, puoi aderire alla class action che il nostro studio legale sta intentando nei confronti di costoro”.
Seguiva una lista talmente vasta che difficilmente chiunque avesse avuto anche una saltuaria igiene orale nei dieci anni precedenti avrebbe potuto non sentirsi potenzialmente coinvolto.
Serena rimase a guardare la lettera e si soffermò sull’uso di quell’asterisco alla fine di “car”.
Serena odiava l’asterisco inclusivo. Quand’era accaduto che un simbolino che nella tastiera qwerty non aveva sufficiente dignità da essere riproducibile senza l’uso del tasto shift era diventato così centrale nella questione di parità di genere? E poi, che senso poteva avere usare l’asterisco per “car” quando la parola successiva era declinata al femminile con una desinenza che non consentiva di usare nuovamente l’asterisco? A quel punto non sarebbe stato più logico scrivere cari/e?
Al di là di queste considerazioni stilistiche, Serena si chiese se una class action contro i produttori di dentifricio potesse avere senso.
Andò su Facebook.
Rimase stupita dalla quantità di interventi-verità di gente comune che raccontava dei problemi avuti con il fluoro. Dov’erano state rintanate tutte quelle persone fino a ieri? Vide una sfilata di bocche sgangherate che si pretendevano vittime dell’aggressività del fluoro; una donna con un turbante in testa ipotizzare un collegamento diretto tra il tumore che l’aveva colpita e l’uso del fluoro, e giornalisti compiacenti glissare su domande che a Serena sembravano pure legittime, domande come: “Ha qualche prova al riguardo?”. Ma in realtà la prova regina prodotta da quella donna era la sua onorevole parola: aveva sempre avuto uno stile di vita corretto, il responsabile doveva essere il fluoro.
Quella sera, Serena cenò con Alfio e sua madre.
«Hai sentito quella cosa del fluoro?» chiese la madre di Serena mentre Alfio sorbiva rumorosamente la minestra di tenerumi.
«’Sti cornuti» fu il commento dell’uomo.
Serena fece finta di non aver raccolto la sintetica sentenza di Alfio e, timidamente, chiese: «E voi che ne pensate?».
«Che sono una massa di cornuti» ribadì Alfio, succhiando dal cucchiaio.
«Ma che ne so!» rispose la madre «prima ci fanno lavare i denti per una vita, e poi ci dicono che questa cosa ci uccide. Non se ne capisce più niente.» Concluse la frase con uno sbrigativo segno della croce.
Serena avrebbe voluto replicare che non era in discussione il fatto di lavare i denti in sé, quanto il prodotto con cui lavarli, ma sapeva già che la madre avrebbe liquidato la questione con un repentino cambio d’argomento, così rinunciò alla puntualizzazione che l’avrebbe solo resa pedante ai loro occhi.
«Faccio bene io che non vado da un dentista da quando mi tirò i denti del giudizio!» chiosò Alfio tutto soddisfatto e sorridente. Serena, grazie a quel sorriso, ebbe occasione di osservare più attentamente la sua dentatura. Si chiese con quanta pervicacia i denti di Alfio volessero restare attaccati alle sue gengive, e quanto tempo ci avrebbe messo, al prossimo sanguinamento gengivale, a dar la colpa al fluoro e non alla sua igiene, che non doveva essere tanto dissimile da quella dei contadini dell’epoca borbonica.
Qualche giorno dopo, la bomba esplose in Parlamento.
Un deputato fresco di elezione si era fatto portavoce della battaglia del fluoro.
Serena si sentì accapponare la pelle mentre osservava Vincenzino Lo Sardo perorare in TV la causa dei No fluoro. Vincenzino era stato un suo compagno di scuola all’Istituto Tecnico Mercalli, e lei lo ricordava come una delle più insipide teste di cazzo della scuola.
Certo, essere al contempo insipido e testa di cazzo potrebbe apparire un ossimoro, ma nel caso di Vincenzino Lo Sardo non lo era. Pur essendo pluriripetente e sprovvisto di particolari doti intellettive, era stato baciato da un’altezza considerevole, che lo aveva portato a diventare un cestista della squadra dell’istituto. In quella veste aveva riscosso un discreto successo, soprattutto tra le ragazze del terzo anno, era diventato il ragazzo di una compagna di Serena, l’aveva messa incinta e subito dopo l’aveva lasciata. Era stata Serena ad accompagnare Rita in clinica quando aveva deciso di abortire. Ora Vincenzino era un parlamentare: aveva partecipato alle primarie del suo partito e, con una manciata di voti, si era beccato un seggio in Parlamento. Ed eccolo lì, con una camicia bianca sgualcita e una giacca a quadretti, a dire in TV che il movimento No fluoro avrebbe fatto vedere a quelli di Big Toothpaste di che pasta erano fatti. Loro. Perché Big Toothpaste, presumibilmente, era fatta di pasta dentifricia, pensò Serena, immaginando che nessuno dotato di buon senso avrebbe potuto prendere sul serio la guerra ai produttori di dentifricio.
Ma si sbagliava.
In poco tempo la vicenda aveva preso proporzioni inaspettate. Diversi scienziati si erano schierati in favore dell’uso del fluoro nei dentifrici e ne avevano addirittura spiegato i benefici in piccole quantità. I detrattori si erano attaccati a quell’inciso, in piccole quantità, come un innamorato al forse sì della sua amata.
Come si poteva essere certi che l’assunzione di fluoro nei dentifrici fosse compatibile con quel “in piccole quantità”? Non era forse vero che i dentisti raccomandavano di lavare i denti dopo ogni pasto? E quanto di quel dentifricio dopo ogni pasto che Dio metteva generosamente sulle tavole degli italiani giorno dopo giorno poteva essere stato ingerito accidentalmente da innocenti padri e madri di famiglia? Per non parlare dei loro poveri bambini indifesi?
A quella e simili obiezioni aveva tentato di rispondere il professor Borietti, direttore del Dipartimento di farmacologia e tossicologia dell’Università di Siena, interrogato dai microfoni delle televisioni nazionali.
«Non c’è alcuna evidenza scientifica che il fluoro nei dentifrici possa essere ricondotto all’insorgere di una patologia» aveva sentenziato il professore. Ma neanche la sua parola era riuscita a sedare gli animi.
«Nessuna evidenza non significa nulla!» tuonavano i responsabili di No fluoro. «Quante volte la scienza ha sbagliato ed è poi dovuta tornare sui suoi passi?»
«E quante volte» rincarava un altro esponente «ha coperto con le parolone dei professoroni le scomode verità che minacciavano gli affari dei loro amici? Che poi, se una cosa non è evidente, mica significa che non esiste. Magari è solo necessario del tempo per farla venire a galla!»
Non ce ne volle molto, di tempo, perché una nota trasmissione televisiva scandalistica, dall’approccio scientifico per nulla rigoroso, decidesse di spolpare la vicenda del fluoro nel dentifricio.
Serena stava facendo zapping a letto quando, una notte, incappò nel servizio che prometteva di rivelare tutta la verità sul fluoro e la sua nocività. Era piuttosto scettica, ma decise di seguirne un pezzetto.
«Come potete vedere,» stava dicendo un uomo in camice bianco dietro a una scrivania «se lasciamo che piccole quantità di fluoro siano ripetutamente assorbite da una membrana come questa (e indicava una sottile striscia di un tessuto non identificabile poggiata su un vetrino) vedrete che alla fine la membrana ne risulterà perforata. Immaginate cosa potrebbe accadere alla mucosa orale o a quella esofagea, con quantità sicuramente superiori e per periodi di esposizione infinitamente più lunghi!»
A questo punto l’uomo in camice guardava in camera con malcelato compiacimento, mentre il giornalista riepilogava le sconcertanti risultanze dell’intervista appena ottenuta.
Serena si chiese per quale motivo quella membrana dovesse riprodurre la composizione chimica e organica della mucosa orale o esofagea, ma ammetteva anche di aver visto il servizio a metà e di non avere le necessarie competenze mediche per comprenderlo. Tuttavia si disse che, se davvero quel che aveva appena visto poteva succedere alla mucosa orale, in giro per il mondo dovevano esserci milioni di persone con ulcerazioni in bocca.
Il giorno dopo al lavoro non si parlava d’altro. Gli stessi che pochi mesi prima si erano detti del tutto ignoranti rispetto a quella vicenda, adesso pontificavano, snocciolando percentuali da plebiscito sulla quantità di società produttrici coinvolte in quello che ormai nessuno faticava più a definire uno scandalo senza precedenti. Madri e padri di famiglia si dicevano terrorizzati dalle conseguenze a lungo termine sulle bocche innocenti dei pargoli; uomini e donne dall’igiene orale precaria rivendicavano con entusiasmo la loro scelta drastica ma efficace di non piegarsi alle lobby delle igieniste dentali, che fin dagli ultimi fasti del berlusconismo avevano mostrato arrivismi poco pregevoli, e sicuramente sarebbero passate sulle mucose di ciascuno di noi pur di ottenere i riconoscimenti economici che andavano vagheggiando.
Non passava giorno senza che al TG si facesse il punto della situazione.
Gli amministratori delegati dei marchi più conosciuti apparivano sui notiziari per spiegare a un’opinione pubblica sempre meno condiscendente che il fluoro non era un problema, che sbiancava i denti, non aggrediva le mucose e combatteva l’alitosi.
Ma tra gli esperti serpeggiava divisione.
Per primo fu un oncologo dell’ospedale Santissima Trinità di Roccamorice a sostenere possibili legami tra fluoro e tumore esofageo, parlando di un proprio paziente che, pur non avendo mai fumato né mangiato troppo pesante, aveva sviluppato un tumore al primo tratto del canale digerente che non aveva spiegazioni scientificamente soddisfacenti, eccezion fatta per quel particolare che da subito lo aveva colpito: denti bianchissimi e maniacale cura per l’igiene orale.
La comunità scientifica si levò con decisione contro quel singolo medico e le sue fantasiose teorie, ma non ci volle molto perché la sua tesi rimbalzasse su tutti i giornali e gli venisse attribuito un coraggio che nessun altro pavido collega aveva dimostrato: malgrado i miliardi delle case produttrici fossero riusciti a ridurre al silenzio tutti i colleghi, il dottor Frengacci era stato abbastanza coraggioso da esporsi in prima persona perché la gente uscisse dall’oscurità in cui i potenti della terra volevano confinarla.
Qualche mese dopo, un perito del Tribunale di Grosseto fu chiamato a pronunciarsi sul possibile nesso di causalità tra un tumore orale e l’uso costante nel tempo di dentifrici al fluoro.
Il perito arrivò alla conclusione che il nesso non esisteva, spingendosi a dire che tutta la comunità scientifica compattamente ricusava la tesi quantomai fantasiosa che il fluoro potesse danneggiare la mucosa orale, figuriamoci diventare cancerogena.
Ma il germe che aveva infettato l’opinione pubblica era ormai in suppurazione, e la notizia aveva – quella sì – subito una mutazione genetica: un tribunale, si leggeva in varie testate, aveva riconosciuto la possibile sussistenza di un nesso di causalità tra fluoro e tumore.
Fu l’inizio della fine.
Nei mesi che seguirono ci fu un assordante silenzio stampa da parte di tutti i rappresentanti del dentifricio che fino ad allora si erano sbracciati in tv per proclamare l’innocenza del fluoro.
Finché una sera, durante una cena in solitaria (sua madre e Alfio erano andati, dopo tre anni, sei mesi e undici giorni, al cinema – a trascinare Alfio al cinema era stata l’ultima pellicola di Scarlett Johansson, che ad Alfio piaceva più di qualsiasi femmina avesse mai camminato sul pianeta), Serena vide la pubblicità del nuovo Pasta del Comandante “senza fluoro”. La voce fuori campo indugiò parecchio sul fatto che fosse privo di fluoro, e la scritta “SENZA FLUORO” lampeggiò ben tre volte a bordo TV. In blu elettrico.
Nei giorni successivi tutti i principali dentifrici fecero pubblicità analoghe, e la dicitura “senza fluoro” comparve su ogni confezione di dentifricio, scritta bella grande, a prova di presbite.
Vari sostenitori della prima ora festeggiavano la loro grande vittoria, gli avvocati delle class action mandarono nuove e-mail invitando i consumatori a unirsi a loro, il capo carismatico dei No fluoro fu incensato come salvatore della patria e invitato a fondare un movimento politico.
Serena aveva deciso di non cambiare marca di dentifricio. Aveva notato che un risicatissimo manipolo di case produttrici non aveva abbandonato il fluoro, ma lei aveva scelto di continuare con il suo Pasta del Comandante. Solo che al palato risultava un po’ più salato di come lo ricordava prima della svolta no-fluorica. Sì, decisamente non aveva più il buon sapore rinfrescante di un tempo.
Dopo avere sciacquato con cura i denti, passato il filo interdentale e fatto i gargarismi con il collutorio, Serena era tornata in camera e aveva preso il telefono.
In bagno aveva letto la composizione del suo nuovo dentifricio e aveva scoperto che il fluoro era stato rimpiazzato da qualcos’altro: il bromuro di sodio.
Serena digitò bromuro di sodio su Google. Il secondo completamento automatico della ricerca era cancerogeno.
Cliccandoci sopra si aprivano centoventotto mila risultati.
«Porca miseria» pensò con la bocca al sapore di sale.
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