Intervista a Roberto Batisti
Quali sono i tuoi maestri (non solo letterari: cinema, musica, arte figurativa, ecc.)?
Il mio percorso è particolare in questo senso: non sono mai passato davvero per un rapporto viscerale, edipico con un autore contemporaneo. Sulla poesia del Novecento ho avuto una formazione sostanzialmente scolastica, quindi assai lacunosa dopo Montale; sui contemporanei mi sono aggiornato leggendoli, ma a partire da quelli cronologicamente più vicini e poi casomai risalendo ai loro maestri. Né sono cresciuto, come a molti càpita, sotto l’ala di qualche poeta più anziano e autorevole. Ne risulta che mentre cominciavo a scrivere le generazioni che meno m’influenzavano erano proprio quelle dei ‘padri’ e dei ‘nonni’: nel frattempo il mio stile s’andava già formando da sé, secondo un doppio binario da un lato iper-erudito (per influsso dei miei studi filologici e glottologici), dall’altro di una creatività quasi naïf. Faccio un esempio: dodici anni fa due diverse persone osservarono che la mia scrittura ricordava per certi versi quella di Ripellino, che all’epoca non conoscevo. Lo lessi, mi piacque molto, riconobbi le affinità – ma nella misura in cui scrivevo “come lui”, scrivevo già come lui, per evoluzione convergente. Sicuramente reputo oggi Ripellino un maestro, ma non un mio maestro in senso stretto. È un discorso che potrei estendere a vari altri autori. Altre influenze importanti sono state casomai autori di primo ‘900 o addirittura fine ‘800, e soprattutto di altre tradizioni linguistiche, da Laforgue a Benn.
In àmbito cinematografico, musicale o figurativo, invece, non essendo io attivo in proprio come artista, troverei improprio parlare di maestri, nel senso di persone da cui direttamente o indirettamente avrei imparato il mestiere. Potrei parlare degli artisti che ammiro, ma il mio parere varrebbe come quello di chiunque altro e non sarebbe, credo, particolarmente interessante. D’altronde, questa domanda mi porta a riflettere sull’impatto di altre forme d’arte sulla mia scrittura, e mi rendo conto che è stato, finora, abbastanza ridotto. La mia è una scrittura che nasce anzitutto dalla suggestione, intellettuale e sensuale, della parola in sé. Casomai, in alcune delle mie poesie incluse in Hula Apocalisse (e anche in altre, inedite), rilevavo l’influsso, a livello di sguardo e struttura, dei cartoon o di certi videogiochi intensamente praticati nell’infanzia e preadolescenza, prima dunque che potessero subentrare influssi di natura affatto diversa, letteraria ed erudita.
Quali poeti della tua generazione senti affini (per temi e/o scelte formali)?
La definizione delle generazioni letterarie è sempre spinosa. Provo a considerare autori che abbiano al massimo dieci anni in più o in meno di me. In ordine sparso, senza esaustività, e premesso che nessuno di loro scrive davvero in maniera simile a me, ma ciascuno ha forse qualche singolo aspetto in cui mi ritrovo: Marco Malvestio (1991) e Francesco Brancati (1987), miei compagni nella bizzarra impresa di Hula Apocalisse, per l’uso non ingenuo dell’erudizione e il coraggio dell’iperbato, dell’oscurità, della difficoltà formale; Luciano Mazziotta (1984) per quello che ho chiamato “classicismo del disagio”, la capacità di formalizzare le angosce più torbide; Francesco Maria Tipaldi (1986) per il neo-surrealismo grottesco e la forma breve, incisiva; Giulia Martini (1993) per i giochi metalinguistici che si fanno carne e sangue; Bernardo Pacini (1987) per l’abile eclettismo che incorpora materiali ‘alti’ e ‘bassi’, seri e leggeri, senza esacerbarne l’attrito. Il lavoro intelligente e brillante con l’immaginario pop e quotidiano di autori come Francesca Genti (1975) e Alfonso Maria Petrosino (1981) ha influenzato la mia scrittura in una fase più solare e ludica. Quando sono emersi autori del 1990 come Manuel Micaletto prima o Simone Burratti poi, ho avvertito una forte simpatia per le loro visioni del mondo e il lavoro intransigente sul testo, se non affinità stilistiche specifiche. Mi fermo sulla soglia di quella che ormai si può considerare una generazione nuova, con Gabriele Galloni (1995), che ha tutt’altro lignaggio stilistico dal mio ma pure esemplifica a suo modo quella combinazione di tratti che trovo auspicabile e in cui mi riconosco: cura puntigliosa della forma, incisività memorabile e scanzonata, immaginario pienamente sviluppato di ossessioni personali.
Risalendo un po’ più indietro, ai nati negli anni ’70, che sono pur sempre la prima generazione di contemporanei che ho cominciato a seguire ‘in diretta’, ho trovato fin da subito certe affinità nella poesia di autori come Federico Italiano (1976), di nuovo per la capacità di usare l’erudizione storico-letteraria in modo toccante, o Alberto Pellegatta (1979), per l’eleganza understated e la potenza dissimulata; ma anche il primo Simone Cattaneo (1974-2009) per il lirismo hard-boiled e la felice estraneità alla tradizione poetica italiana.
D’altra parte, ho avuto affinità e complicità ancora più strette con autori della mia generazione attualmente più marginali rispetto al campo letterario, ma importanti nel mio percorso. Come ricordavo qualche anno fa su “Critica impura”, parte del mio apprendistato si è svolta ingaglioffandosi negli ambienti irregolari e stimolanti della poesia ‘brada’ del sottobosco di Internet: lì ho incrociato per la prima volta coetanei ora rinomati, come il poeta-performer Alessandro Burbank (1988) o Davide Castiglione (1985), bravo poeta e bravissimo critico; ma anche tanti incredibili personaggi, alcuni mai conosciuti, altri diventati buoni amici, dei quali con l’amico Vittorio Tovoli (1985 anche lui) a suo tempo cercammo persino di realizzare un’antologia autoprodotta. Mi piace citare un altro amico carissimo, Marco Bin (1984), che è un ottimo e vero poeta (purtroppo ancora ipopubblicato), stilisticamente molto diverso da me, ma con un orecchio molto sensibile: i suoi consigli e letture sono stati spesso fondamentali per migliorare un mio verso.
Cosa cambieresti del panorama poetico di oggi?
Non sono così prescrittivista da dire come vorrei che scrivessero gli altri: apprezzo la varietà e l’imprevedibilità dei percorsi individuali, già ora i dogmi di scuola e di consorteria fanno troppi danni per volerne suggerire di miei. A livello editoriale, cambierei senz’altro la scarsa attenzione per la poesia di qualità dimostrata da certi grandi editori, e la scarsa professionalità di tanti medio-piccoli. Soprattutto, però, cambierei – nel senso, ovviamente, di allargarlo – lo spazio dedicato nella scuola e sui media alla poesia degli ultimi decenni, che è purtroppo largamente misconosciuta a persone anche molto istruite che non siano fra gli addetti ai lavori. Una maggiore conoscenza delle esperienze recenti e contemporanee avrebbe di per sé ricadute positive su tutto il panorama: dal gusto dei lettori, alla qualità delle proposte.
Quale pensi sia il ruolo di internet nella poesia contemporanea?
Il ruolo di Internet è molto positivo per quanto riguarda la diffusione dei testi e delle poetiche; oggi è molto più semplice (ri)scoprire autori ‘di nicchia’ o fuori moda. Un simile discorso vale per la critica: scrivendo su una rivista letteraria online come “La Balena Bianca”, ad esempio, i miei articoli arrivano a molte più persone di quelle che mi leggerebbero su una rivista cartacea. I social, su cui sembra ormai essersi spostato in buona parte quel dibattito letterario inizialmente incentrato sui litblog, sicuramente consentono contatti più immediati fra autori, lettori, critici, e a loro volta aiutano a diffondere testi e iniziative, ma incoraggiano anche un certo modo di porsi e di discutere non particolarmente costruttivo. D’altronde, anche in questo campo il nuovo medium schiude nuove possibilità alla sperimentazione: il trollaggio può diventare a sua volta un’arte, e lo stesso shitposting sta ormai venendo riconosciuto come genere letterario a sé. Penso a una pagina di satira trascendente come Nuova Poesia Troll; a un lavoro come quello di Giulia Felderer, che a buon diritto ha potuto proporre un reading dei suoi status su Facebook in un contesto di poesia sperimentale. Anche una notevolissima operazione eteronimica multimediale come quella di Ophelia Borghesan (Angela Grasso + Luca Rizzatello) nasce su Internet e non sarebbe concepibile senza.
In un senso più lato, la poesia italiana ha spesso recepito gli sviluppi tecnologici a livello superficiale, contenutistico, come ho spesso sostenuto e come osservano recentemente, fra gli altri, Paolo Giovannetti ne La poesia italiana degli anni Duemila (Carocci, 2017) o Alberto Pellegatta e Massimo Dagnino nell’introduzione alla loro antologia di poeti under 35 (Planetaria, Taut Editori, 2020). Al tempo stesso le scritture automatiche affidate agli algoritmi dei motori di ricerca sono da considerarsi uno strumento, che può essere usato bene o male, più che un risultato in sé. Più rare ma più interessanti le scritture che riflettono a livello strutturale e cognitivo i sottili mutamenti antropologici introdotti dalla simbiosi uomo-computer e dalla familiarità con Internet e videogiochi: da Lidia Riviello ai citati Micaletto e Burratti.
Chi è Roberto Batisti
Roberto Batisti (1985) è studioso di lingua greca (attualmente assegnista di ricerca all’Università di Bologna) e insegnante di materie letterarie, attivo da diversi anni anche come critico militante. Scrive di poesia contemporanea e altri temi culturali su “La Balena Bianca” e varie altre riviste cartacee e online. Ha collaborato all’organizzazione dei festival “Pressioni” (Bologna, 2017, sull’editoria di poesia) e “Convergenze” (Padova, 2018, su tendenze e stili della poesia italiana recente). Come poeta, ha pubblicato la silloge “Affeninsel” nel volume collettivo Hula Apocalisse (Prufrock spa, 2018); una nuova raccolta è in preparazione.