Racconto vincitore del contest #iorestoacasa categoria Promesse
Il vero coraggio – di Michele Garavelli
Le dita ossute degli alberi mosse dal vento sembrano lanciare incantesimi. Le sagome degli arbusti, come orride creature, compaiono e svaniscono, illuminate dalla fioca luce lunare. Il sentiero, di giorno battuto dal sole, pare sprofondare nelle tenebre. Mentre Sara avanza, ben stretta nel suo cappotto, percepisce tutto fin troppo bene.
I fruscii del sottobosco la avvolgono. Ciononostante, le sue gambe continuano a muoversi, e il suo sguardo a scrutare attentamente l’oscurità. È notte fonda, fa un freddo tremendo e la situazione è pericolosa, ma deve farcela: deve portare a termine la sua prova d’iniziazione.
I capelli lisci le cascano in avanti, sulle spalle, ma lei non sembra badarci. Anche se ha paura è più determinata che mai. Adesso le sembra strano pensare che fino a un paio di giorni prima non lo era per niente. Anzi, se ne stava bene alla larga da ciò che poteva causare problemi. Soprattutto da Coretti e dal suo gruppo. Certo, sono “i più cool di tutto l’Istituto Comprensivo 14” (termine spesso abbreviato in “figli di papà”), ma girano certe voci sul loro conto… La loro trovata più grossa è stata fregare il cellulare a Jack, il secchione della 3D, durante l’ora di Educazione Fisica; anche se nessuno può giurare di averli visto commettere il furto.
Ciononostante, quando l’altra mattina Coretti (detto anche Bei Capelli Ed) si era avvicinato al banco di Sara, e, col suo solito fare da poco di buono, l’aveva apertamente invitata a “unirsi al gruppo”, lei si era posta un’unica, elementare domanda. Perché? Mettendo caso che le voci in circolazione fossero veritiere, a cosa sarebbe servito loro il suo aiuto? Ci aveva riflettuto su per una notte intera, poi aveva deciso: avrebbe corso il rischio. In fondo, erano sempre stati pochi, quelli disposti a diventare suoi amici…
Così, appena saputo della scelta, Coretti aveva svelato la sfida, la prova per essere ammessa. Si trattava di cinque passaggi consecutivi, nemmeno troppo complessi.
- Uscire di casa e avventurarsi nel bosco, quella sera stessa.
- Raggiungere il vecchio cimitero abbandonato.
- Girare a destra e proseguire fino all’antico cipresso.
- Raccogliere la piccola scatola che avrebbe trovato per terra e seguire le istruzioni contenute all’interno, per filo e per segno.
- Tornare indietro, possibilmente senza dare troppo nell’occhio.
Così Sara nel tardo pomeriggio si era fatta la doccia, trenta minuti prima rispetto al normale, e alle otto e mezzo era già pronta per uscire. Sua madre l’aveva bloccata prima che arrivasse alla porta, domandandole spiegazioni per quell’uscita fuori programma. La scusa era già bella e impacchettata. Barb l’aveva invitata a dormire a casa sua perché aveva bisogno di una mano con gli esercizi di chimica, e lei non aveva proprio saputo rifiutare. La madre, per tutta risposta, l’aveva guardata storta, socchiudendo l’occhio destro. Ma alla fine aveva acconsentito. Tuttavia, Sara aveva avuto l’impressione che il sospettoso occhio materno seguisse i suoi passi, mentre scendeva le scale…
L’apparizione del cancello del cimitero, uno scheletro metallico sopraffatto dai rampicanti, la fa sussultare. Riesce a malapena a non far cadere la torcia, evitando così di rimanere nell’oscurità più totale. Le mura del camposanto sono massicce e imponenti, come per evitare in tutti i modi l’accesso di estranei, ma Sara non se ne preoccupa: distoglie lo sguardo. Svolta a destra e imbocca il viottolo laterale. Quasi senza farlo apposta, accelera il passo. Un brivido le percorre la schiena. Senza voltarsi indietro, giunge in prossimità del vecchio cipresso.
Secondo la tradizione, in quel tronco abbattuto a metà e lasciato a morire, sono racchiuse le anime dei defunti suicidi. L’atroce agonia che era seguita al taglio, che aveva fatto perdere alla pianta sacra aghi, corteccia e linfa vitale, era stata tuttavia compensata da una presunta maledizione: da più di vent’anni si vocifera infatti che chiunque sia tanto imbecille da avvicinarsi all’arboreo cadavere farà, prima o poi, una fine di eguale crudezza…
Scemenze. Tutte scemenze. Sara le ha sempre considerate così, semplici cazzate. Anche Coretti & Co. devono pensarla allo stesso modo, se l’hanno mandata proprio lì. Senza perdere altro tempo, punta la torcia ai piedi del cipresso. E, come previsto, ci trova una piccola scatola. È di cartone, grande poco più di un pugno e chiusa da un fiocco rosso. Sara si china. Spostando qualche foglia secca, portata lì dal vento, afferra la scatola. Non sapendo come aprirla senza restare al buio, si caccia la torcia in bocca. Le sue mani corrono svelte. Sulla fronte compaiono le prime gocce di sudore.
Per notare il piccolo accendino che le scivola sul palmo ci impiega qualche secondo. Il suo corpo pare ghiacciarsi. Il sangue cessa di fluire. Il cuore di battere. E, mentre le dita le iniziano a tremare, nota un secondo oggetto. Un piccolo registratore portatile, adagiato su un sostegno di polistirolo. Lasciando per terra la scatola, Sara preme il tasto PLAY. La voce sibillina di Coretti le arriva alle orecchie più chiara che mai.
«Non te l’aspettavi, vero? Ecco: questa è la tua prova. Niente domande: il perché della scelta non è affar tuo. Ma… pensaci un attimo. Non hai paura di ciò che ti circonda? Non vorresti accendere la notte a giorno? E allora fallo, dai fuoco a tutto! Solo così potrai unirti a noi, solo così potrai stare con delle persone che si preoccupano davvero per te. In fondo, non è questo ciò che desideri?»
La caduta riduce il registratore a un ammasso di circuiti. Sara ormai non si accorge più di nulla. Con il pollice destro, innesca l’accendino. La fiamma emerge in un istante dalle tenebre. Decisa. Abbagliante. Distruttiva. La ragazza ne rimane ipnotizzata.
Ma quando tutto pare perduto, quando il dado sembra già tratto, accade l’incredibile. Quella di Sara non è codardia. Al contrario. È puro coraggio. Si ricorda di chi è veramente. Una ragazza timida, certo. Ma che ragiona da sé. Che non si fa mettere i piedi in testa da nessuno. E che, nonostante le proprie difficoltà, è più che capace di trovare un altro modo per farsi degli amici. Il suo è un profondo ripudio.
Senza pensarci oltre, ficca l’accendino in tasca. Tira su la cerniera. Togliendosi la torcia di bocca, con l’altra mano estrae dalla tasca il cellulare. Preme i numeri in successione. Questa volta, Coretti non la passerà liscia. L’apparecchio inizia a squillare.
«113, come posso aiutarla?»
Nessuna risposta.
«113, mi sentite? Qual è l’emergenza?!»
Per quanto possa gridare, nessuno sentirà mai la centralinista. Il sentiero ai piedi del cipresso morente è di nuovo deserto. A terra giacciono solo una torcia rotta, un telefonino con lo schermo infranto, il rottame di un registratore e una scatola, scaraventata a terra e accartocciata, il fiocco rosso inzuppato in una pozza di sangue appena versato.