Il tappeto rosso di una realtà che non ci appartiene

Liquefatto, di Hilary Tiscione – Alessandro Polidoro Editore

Recensione di Stefano Bonazzi – 10/06/2021

 

Liquefatto_copertinaTutto è arido e cedevole attorno a Maddalena.

Lo capiamo dalle prime righe.

C’è una pellicola malsana e appiccicosa sulla superficie delle sue giornate. Una placenta sintetica che le impedisce di percepire e apprezzare, qualcosa che la tiene distante o forse, solo, la protegge. È come se nuotasse all’interno di un sogno ovattato, Maddalena. A poco serve il sesso occasionale, quasi appare come un’incombenza da sbrigare per passare alla prossima botta, perché solo la droga, la scossa della tirata, con l’alterazione delle percezioni e l’ebrezza che ne segue, sembra riportatala a una realtà sopportabile.

Serve un cambiamento a Maddalena.

Qualcosa che scardini tutto.

Due biglietti andata e ritorno per Los Angeles, un regalo di Romano, il fidanzato che l’ha messa incinta, per sbaglio, perché non si è ritratto in tempo durante l’ultima scopata (scopata, è giusto precisarlo, non amore, l’amore è altrove, lontano da queste pagine, una parola che non appare nemmeno una volta nel testo). E allora è necessario accettare quel regalo, accoglierlo come una boccata d’ossigeno. Partire subito, assieme a Lia. L’amica compagna di confessioni, l’unica di cui potersi fidare.

Partire. Scappare. All’istante. Prima che quello schizzo in mezzo alle sue gambe assuma una consistenza, una forma, un carico di responsabilità. Prima che quel feto imprevisto e improvviso le cambi la vita.

Hotel Crivi’s, al 46 di Corso di Porta Vigentina, il punto di partenza. Tito sarà la loro guida. Un Bianconiglio alto un metro e novantasette che indossa una camicia bianca attillata come una benda, lacci di jeans che pendono dalle ginocchia, stivali di cuoio chiaro.

Racconta che a Los Angeles la vita è dura, il traffico intenso – si passano ore intere chiusi in macchina ad aspettare – dice. Precisa che non è ancora un attore per il resto del mondo, ma lui sa di esserlo.

Un amico, uno sconosciuto.

Partire. Scappare. Verso la terra delle opportunità, degli eccessi, dove l’orizzonte si perde nella calura e le notti sono pulviscoli di ceneri incandescenti.

C’è un substrato di nero che pervade tutta la prosa della Tiscione e senso di continuo stordimento che si acuisce con il procedere della lettura. Ripenso al romanzo e nella testa mi scorrono immagini di Climax, Irréversible, Enter the Void, rivedo molto dell’immaginario di Gaspar Noé, ma anche di Terry Gilliam: un ammaliante senso di ebbrezza dettato da una prosa libera ma estremamente consapevole.

La trama si dipana da una messa a fuoco iniziale con un incipit dai connotati riconoscibili per poi imbarcarsi verso quel lento, inesorabile, scollamento da un piano definito a una concezione sempre più distante, stroboscopica, una psichedelia vorace che alcuni definirebbero “consapevolezza aumentata”, altri solo “autolesionismo”.

Eppure non c’è volontà di giudizio in quest’opera. Nessun dito puntato, nessun dogma da impartire, semmai un senso pervasivo di nichilismo e disperazione sociale nei confronti di una città, una nazione, uno stile di vita in cui “i malati posseggono i giorni, mentre quelli sani solo li immaginano”.

È il corpo a parlare nel romanzo della Tiscione: carne, muscoli, sudore, umori, pulsioni che si fanno protagonisti di un delirio On the Road dalla prima tappa a Santa Monica verso le iconiche insegne al neon dell’Hotel Cortez, fino a quell’ultimo nerissimo sipario sulle strade di West Hollywood, dove l’asfalto si scioglie e diventa lava primordiale pronta a riscattare il proprio tributo.

 

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