Intervista a Giorgia Tribuiani

A cura di Graziano Gala

 

Dopo l’ottimo esordio con Guasti Giorgia Tribuiani si prepara ad un nuovo testo e ad una nuova storia: il 25 marzo per Fazi uscirà Blu.

 

Giorgia_Tribuiani_Blu_copertinaRaccontare di un personaggio significa prestargli il corpo e la penna: come è stato convivere con Ginevra?

La prima parola che mi viene in mente è: “intenso”. Ginevra racchiudeva – e racchiude – in sé le mie paure, le mie ossessioni, le mie fragilità e i miei traumi, il mio desiderio di essere pura e perfetta (anche io, quando ero bambina, dicevo di chiamarmi Rosa quando ero “buona” e Giorgia quando facevo la “cattiva”), ma anche tutto il mio amore disperato per la bellezza e per la vita, la mia passione per l’arte.

Dare voce a Ginevra è stato come avere di fronte uno specchio, tanto che in certi momenti, quando attingevo a delle scene autobiografiche e le trasfiguravo per inserirle nel romanzo, mi trovavo a vivere una strana identificazione: a volte, dopo una sessione di scrittura, mi trascinavo addosso per qualche ora le sensazioni e le emozioni che avevo fatto vivere a lei, senza riuscire del tutto a distinguerle dalle mie.

Ricordo che durante la stesura di Blu mi imbattei nel bellissimo documentario Jim&Andy, dedicato al “dietro le quinte” di Man on the moon: lì Jim Carrey raccontava di come, interpretando Andy Kaufman, fosse “diventato” lui, avesse reso inscindibili le emozioni del personaggio e quelle a cui lui attingeva per interpretarlo. Alla fine del documentario avevo le lacrime agli occhi, pensavo: è proprio questo.

 

Cosa cambia nella scrittrice Tribuiani da Guasti a Blu? L’esperienza, la storia dello scorso testo è servita per accostarsi al nuovo?

Sì, posso affermare con una certa dose di sicurezza che non avrei potuto scrivere Blu senza essere passata per Guasti.

Se nel mio primo romanzo mi approcciavo al tema dell’inadeguatezza e della fragilità umana, nel secondo sono andata in cerca delle loro origini; se in Guasti parlavo dell’arte come di qualcosa in grado di trasformare il dolore in bellezza, con Blu ho cercato di raccontare la violenza di questo processo creativo, la passione (intesa proprio nel suo senso etimologico) necessaria per operare la trasformazione; se la “vecchia” domanda era “può, l’uomo stesso, diventare un’opera d’arte?”, qui l’interrogativo è un po’ mutato: “in che modo – e a quali condizioni e con quale linguaggio – l’ossessione può diventare un’opera d’arte?”

Perché alla fine è sempre di ossessioni che si tratta. Nel primo libro le avevo messe in campo. Nel secondo ho continuato a cercare; a scavare.

 

Mi è sempre piaciuto il modo in cui tratti la gestione del dolore, la sua incubazione e il suo esplodere: questi personaggi che tocchi costano fatica, fanno male, o ti consentono di tirare fuori, di espellere, per così dire?

Per quanto riguarda la mia scrittura credo siano vere entrambe le cose, e che questo “tirare fuori” – questo trasformare un’ossessione in qualcosa di diverso, dandole quindi una forma, un linguaggio e una collocazione – non sarebbe possibile se non attraverso un processo faticoso, a volte anche doloroso.

Penso che per lavorare su un personaggio, per raccontare il suo dramma e renderlo tridimensionale, sia necessario “riempirlo” con le proprie esperienze e le proprie ferite, non troppo diversamente (per riprendere il discorso di prima) da come fa un attore che “riempie” il personaggio che interpreta: quando piange, l’attore non piange per la vicenda del personaggio che interpreta, ma lo fa per sé stesso, per quello che di sé proietta nell’altro. Allo stesso modo, pur non facendo narrativa autobiografica, quando metto in scena i miei personaggi sono io ad andare sul palco della narrazione. Posso amplificare quello che ho provato, deformarlo, plasmarlo, trasfigurarlo, ma le mie esperienze devono essere lì come – passami il termine – “materia prima”.

Tornare però a determinate esperienze, toccare le proprie fragilità, lavorare sulle proprie ossessioni ed evocarle perché vengano fuori, sì, questo talvolta non può non fare male.

 

Ci racconti qualche aneddoto legato al nuovo romanzo?

C’è un piccolo aneddoto sulla genesi del nome “Blu”, che si affacciò durante una festa di compleanno. Conoscevo soltanto il festeggiato, con cui lavoravo, e me ne stavo seduta a uno dei tavolini su un lato della sala, osservando le persone che si servivano al buffet dall’altro lato e i bambini che correvano e ballavano nello spazio al centro. A un certo punto una signora seduta al tavolo accanto al mio indicò la figlia che faceva piroette, disse: “Ormai la chiamiamo tutti Blu”. “Blu?”, chiese l’uomo che sedeva con lei. “Sì, Blu. Rideva sempre quando suo fratello diceva la parola blu, quando nominava il colore blu, e allora, per gioco, abbiamo iniziato a chiamarla con quel” – e lì si interruppe, si protese tutta verso la bambina: “Blu! Ehi, Blu, così cadi! Ti sporchi! Vieni subito qui! Blu!”

Vidi la bambina avvicinarsi trascinando i piedi, a testa bassa. Pensai che era stato un peccato chiamarla Blu, perché quel nome – che adesso veniva usato anche per sgridarla, per richiamarla – aveva già smesso di farla ridere; di farla divertire ogni volta. Pensai a come la realtà non può evitare di corrompere i nomi delle cose, gli ideali, la purezza. Pensai che (anche io dicevo di chiamarmi Rosa, appunto) avrei dovuto scriverne.

 

La tua scrittura si concentra molto sulla incomunicabilità, sulla difficoltà di condividere con l’altro le proprie emozioni: credi che in qualche modo sia questo il grosso problema di questo tempo, in cui ognuno è apparentemente alla portata di tutti ma contemporaneamente isolato?

Il tema dell’incomunicabilità mi è particolarmente caro, ma più nella sua accezione “esistenziale”: se non posso essere l’altro (e quindi avere le esperienze dell’altro, condividere i ricordi dell’altro, sentire quello che sente l’altro esattamente come lo sente l’altro) non posso davvero capirlo, ci sarà sempre un gap di comunicazione.

Uno dei miei libri preferiti in assoluto, Solaris di Stanisław Lem, parla proprio di questo: del fatto che oggi potrei compiere nei confronti di un altro un’azione per me bellissima, animata dalle migliori intenzioni, e provocargli – perché il nostro vissuto e la nostra sensibilità sono necessariamente differenti – una grande sofferenza.

Quanto al tempo in cui viviamo, io non sono certa che l’isolamento sia aumentato: ovviamente posso parlare solo per me, per la mia esperienza, ma se penso a quando ho iniziato a scrivere ricordo una sedicenne estremamente grata di poter mandare i propri raccontini alle persone gentili che li ricevevano via email e li leggevano, o ad altri ragazzini con i miei stessi interessi. Tuttora, in questo periodo storico piuttosto complesso a causa della pandemia, credo che avere gli amici e i conoscenti almeno a portata di clic sia stata una salvezza.

 

C’è già qualche nuova storia che ti circola in testa?

Sto lavorando a un nuovo romanzo. Anche se è un po’ presto per parlarne – più per scaramanzia che altro, lo ammetto! – posso anticiparti che stavolta non girerà intorno al tema dell’arte, ma (ed è curioso aver parlato di questo proprio un attimo fa) a quello dell’incomunicabilità.

Se in Guasti avevo parlato di un’incomunicabilità – passami il termine improprio – “colpevole”, conseguenza di un disinteresse nei confronti altrui o comunque di tentativi piuttosto pallidi di superare i vuoti di comunicazione, con il mio terzo romanzo vorrei raccontare la sofferenza di chi, pur essendo pronto a tutto per stabilire un contatto, è destinato a scontrarsi con l’immenso scoglio di cui parlavamo poco fa: l’impossibilità fisiologica di comprendere perfettamente l’altro, non potendo essere l’altro.

 

Chi è Giorgia Tribuiani

Giorgia Tribuiani è nata nel 1985 ad Alba Adriatica e vive a Pescara.
Dopo la laurea in Editoria e giornalismo e il master in Marketing e comunicazione, ha collaborato con testate giornalistiche e agenzie di stampa locali e nazionali (Ansa) e curato la comunicazione online per le multinazionali Honda, Ducati e Polar. Attualmente lavora come docente di scrittura creativa presso la Bottega di Narrazione e il Penelope Story Lab. Ha esordito nel 2018 con il romanzo “Guasti”, edito da Voland.

 

Leggi anche – Chiedilo all’autore, Alessandro Gazoia