di Eva Luna Mascolino

 

«Inutile ribadire quale e quanto grande sia il potere narrativo e comunicativo di un buon incipit: anticipa, ma non rivela; accenna, ma non spiega; coinvolge, ma non brucia le tappe; è incisivo, eppure risveglia il desiderio di un seguito altrettanto potente, se non di più. È facilmente riconducibile all’opera da cui è tratto, peraltro, e resiste alla sfida del tempo con una tranquillità a dir poco serafica, in compagnia di personaggi del calibro di Ismaele, Gregor Samsa o la signora Dalloway». A scrivere questa riflessione è stato Carlo Dossi, che riprendiamo in questa sede perché, se davvero vogliamo parlare dell’incipit di un’opera come Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, forse ribadire quale e quanto grande sia il suo potere può tornarci utile.

 

notre-dame-de-paris-copertinaIl romanzo storico, pubblicato nel 1831, quando lo scrittore aveva solo 29 anni, e ambientato nell’anno 1482, superò infatti il vaglio della censura e sancì il primo vero successo del suo autore, restando impresso nella memoria collettiva già dalle sue prime righe: «Il y a aujourd’hui trois cent quarante-huit ans six mois et dix-neuf jours que les Parisiens s’éveillèrent au bruit de toutes les cloches sonnant à grande volée dans la triple enceinte de la Cité, de l’Université et de la Ville».

 

Interessanti ed emblematiche sono tre traduzioni attualmente in commercio, pubblicate più o meno di recente da tre diverse case editrici: Garzanti nel 1996, RCS Libri nel 2000 e La Biblioteca di Repubblica nel 2003. Procedendo in ordine cronologico dalla più lontana alla più vicina a noi, ci imbattiamo per prima nella traduzione di Sergio Panattoni, che si apre così: «Trecentoquarantotto anni, sei mesi e diciannove giorni or sono, i Parigini si svegliarono al frastuono di tutte le campane che suonavano a distesa nella triplice cinta della Città Vecchia, dell’Università e della Città Nuova». La forma «Parigini» in maiuscolo è un calco dal francese, che in italiano resta di solito meno preferita della forma in minuscolo. Molto calzante è invece la traduzione di «enceinte» come «cinta», dato che fa riferimento alle numerose mura concentriche della città, da quella della Cité (corrispondente alla Città Vecchia) a quella della Ville, da intendersi appunto come Città Nuova.

 

Quattro anni dopo, a questa variante si è affiancata una riedizione di quella curata nei primi anni Settanta da Luigi Galeazzo Tenconi, che invece recita: «Trecentoquarantott’anni, sei mesi e diciannove giorni or sono i parigini si svegliarono allo squillo di tutte le campane, che suonavano a distesa nella triplice cerchia della Città Vecchia, dell’Università e della Città». La forma «or sono» è stata quindi mantenuta (sebbene a discolpa di Tenconi vada sottolineato che la sua versione risaliva al 1970), mentre il «frastuono» delle campane è qui uno «squillo», certamente più idiomatico eppure meno vicino al «bruit» (lett. rumore) dell’originale in termini di effetto su chi legge e, in particolare, su chi quella fatidica mattina deve essere stato svegliato dalle campane. Le cinta, inoltre, sono state sostituite da tre «cerchie», che visivamente ne restituiscono bene la forma, ma che forse a livello concettuale e urbanistico non risultano molto chiare per un pubblico medio.

 

victor-hugo-fotoInfine, ecco la traduzione a opera di Fabio Scotto: «Sono già oggi trascorsi trecentoquarantotto anni sei mesi e diciannove giorni da che i parigini si svegliarono al frastuono di tutte le campane che suonavano a distesa nella tripla cerchia della Cité, dell’Université e dell’intera città». Qui è stato l’attacco è stato svecchiato con maestria e nel solco della fedeltà («sono già trascorsi etc»), il «frastuono» è tornato saggiamente al suo posto e le tre aree di Parigi hanno mantenuto il loro toponimo originale, come d’altronde è più sensato, dato che chiunque visiti la città chiamerà Cité il quartiere della Cité o Université l’area dell’Université. Chi legge ha dunque un’idea più precisa dei luoghi in cui le campane suonano nel giorno dell’Epifania, permettendo alla scelta di mantenere il sostantivo «cerchia» anziché «cinta» di risultare comunque comprensibile fin da subito.

 

I tre approcci appaiono pertanto sovrapponibili in alcune decisioni e molto meno affini rispetto ad altre trovate, dimostrando ancora una volta quanto cesellino e complesso sia il ragionamento perfino sui singoli termini da adottare per rendere mirabile l’incipit di un grande romanzo anche per chi lo scopre e se lo gusta in traduzione.

 

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