di Eva Luna Mascolino
Considerato il primo romanzo in senso moderno e un capolavoro della letteratura mondiale, El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha è una storia-parodia dei romanzi cavallereschi, e al tempo stesso riflessione critica sulle norme morali, estetiche, sociali, religiose, politiche e culturali dell’epoca, che si apre con un incipit rimasto celebre nei secoli:
En un lugar de la Mancha, de cuyo nombre no quiero acordarme, no ha mucho tiempo que vivía un hidalgo de los de lanza en astillero, adarga antigua, rocín flaco y galgo corredor.
Dal tono di questa prima frase si intuisce facilmente il rapporto satirico con l’epica e il tentativo di creare un personaggio collocato a metà strada tra una dimensione realistica e una immaginifica dell’esistenza. Secondo quanto scrive Miguel de Cervantes Saavedra, infatti, l’hidalgo in questione (cioè un uomo appartenente alla piccola nobiltà locale) vive nel cuore della Spagna in un periodo di poco precedente a quello della narrazione. Affascinato dalla letteratura cavalleresca, per non dire quasi traviato, vive con la lancia a portata di mano, convinto che potrebbe servirgli da un momento all’altro per chissà quale avventura picaresca, eppure è in possesso di un vecchio cavallo di scarso pregio e possiede un cane da caccia che poco si sposa con l’immagine canonica del valente cavaliere impegnato in campo aperto.
Il primo a cimentarsi nell’impresa di tradurre i due volumi in italiano fu Lorenzo Franciosini tra il 1622 e il 1625, le cui note a margine vennero introdotte nel testo originale senza che si riuscisse a comprendere quali parole appartenessero all’autore e quali al tradurre:
In una Terra della Mancia, del cui nome non me ne voglio ricordare, non è troppo, che si ritrovava un Cittadino, di quelli, che per ostentazione d’una certa grandezza, tengono lancie, e targhe antiche nella rastrelleria; un cane d’aggiungere, e un ronzino magro da passeggiare.
Nel 1785, Giambattista Pasquali tentò di separare due voci per riproporre una diversa edizione del testo, mentre nel 1818 usciva poi la nuova traduzione di Bartolomeo Gamba:
Viveva, non ha molto, in una terra della Mancia, che non voglio ricordare come si chiami, un idalgo di quelli che tengono lance nella rastrelliera, targhe antiche, magro ronzino e cane da caccia.
Ben più fedele all’opera spagnola, l’incipit sembra preferire una lingua vicina ancora oggi alla nostra e mantiene il sintagma «che non voglio ricordare come si chiami» speculare all’originale. Un caso analogo si è verificato nel 1974 con la traduzione di Ferdinando Carlesi per Arnoldo Mondadori Editore, che recita:
In un borgo della Mancia, di cui non voglio ricordarmi il nome, non molto tempo fa viveva un gentiluomo di quelli con lancia nella rastrelliera, scudo antico, ronzino magro e can da séguito.
Qui, tuttavia, il «luogo» è diventato un «borgo», sostantivo che secondo Treccani indicherebbe «un aggregato di case nel suburbio o nello spazio tra una più antica cerchia di mura e una nuova difesa (muro o fossato); un centro rurale fortificato anche solo da un fossato. Dal 12° sec., […] in Italia rimase a indicare nel villaggio fortificato il gruppo delle abitazioni del popolo, contrapposto al castrum o castellum, dimora del signore, e distinto dai paesi aperti del contado», con una sfumatura dunque impropria rispetto al testo cervantesco. L’«hidalgo», invece, è stato addomesticato e reso con un generico (e poco connotato geostoricamente) «gentiluomo», sebbene più immediato per un pubblico non necessariamente esperto della piramide sociale della Spagna seicentesca. Come se non bastasse, il borgo riappare nella traduzione di Letizia Falzone per Garzanti del 2002:
“In un borgo della Mancha” il cui nome non mi viene a mente, non molto tempo fa viveva un cavaliere di quelli con lancia nella rastrelliera, un vecchio scudo, un ronzino magro e un levriero corridore.
Da notare, stavolta, la distanza tutt’altro che ravvicinata tra il precedente «di cui non voglio ricordarmi il nome» (Carlesi) e il nuovo «il cui nome non mi viene a mente», che modifica in maniera radicale l’approccio del narratore rispetto alla storia riportata. Un’ulteriore variazione sul tema era apparsa nell’edizione Einaudi affidata a Vittorio Bodini nel 1957, in cui si leggeva:
In un paese della Mancia, di cui non voglio fare il nome, viveva or non è molto uno di quei cavalieri che tengono la lancia nella restrelliera, un vecchio scudo, un ossuto ronzino e il levriero da caccia.
Qui, quantomeno, rimaneva esplicita la volontà della voce narrante a tacere il nome del luogo (ora diventato un non meglio definito paese, ovvero per Treccani, «regione, largo tratto di territorio, per lo più coltivato e abitato, individuato in base a particolari caratteri fisici, meteorologici, economici, antropici»), sebbene l’intenzione di non interpellare la memoria rimanga ben differente tanto dall’impossibilità di ricordare un nome quanto dalla scelta di non condividerlo con chi legge.
Fin dalle prime due righe, come si è visto, il romanzo presenta numerose allusioni sottintese e sapienti riferimenti alla realtà e alla letteratura del tempo. Per rendere in traduzione una voce tanto scanzonata e al tempo stesso elegante, senza che se ne perdano né il piglio né la ricchezza e la profondità creativa, risulta allora fondamentale prestare attenzione ai termini da scegliere e alla loro etimologia, senza né appiattire né tradire lo stile dell’autore.