Emanuela Cocco, “Tu che eri ogni ragazza” (Wojtek)

recensione di Tiziana Cazzato

tu-che-eri-ogni-ragazza-copertinaQuando la vita distribuisce le carte non specifica all’uomo quali sono le partite che dovrà giocare e quelle in cui non sarà convocato, perché nel mazzo c’è sempre un imprevisto. E all’uomo non è dato conoscere prima in quale campo dovrà dare prova di sé e del suo valore.

 

La grande scoperta

Lo scoprono, nel peggiore dei modi, due genitori, convinti che loro sarebbero stati risparmiati da un dolore senza volto che interessava, invece, il resto del mondo. Avrebbe potuto non accadere, e loro sarebbero potuti restare fra i pochi a dire mai. Invece la scoperta, quell’indescrivibile dolore arriva. Entra nella loro quotidianità, indossando gli abiti di un uomo. Un uomo che uccide la loro unica figlia e il cui volto si fissa nelle pupille di un Padre, perso nel suo desiderio di giustizia, in una vita senza ancore, spoglia di certezze e di risposte.

Non ha un nome quel Padre, immagine di ogni genitore orfano di figlio, eufemismo errato per una condizione che resta senza nome. Un Padre alla deriva di un silenzio che deve e vuole provare a rompere, per recuperare un dialogo interrotto o forse mai iniziato con una ragazza che ha bisogno di conoscere e incontrare. In un diario che non troverà, perché sua figlia non amava scrivere; nei messaggi custoditi nel telefonino che gli rivelano i volti di quella che non è stata solo sua figlia, ma anche la ragazza talmente sexy da rubare il fidanzato all’amica, la giovane donna che aveva incontrato l’amore. Persino un amore gentile. Una figlia che è stata quindi ogni ragazza.

E in quella solitudine, in un flusso di coscienza lento come il passo della consapevolezza che va acquisendo, si racconta alla figlia che non c’è più. Si confessa nella sua debolezza e in quella che gli appare come una miseria, una vergogna di cui chiederle perdono. Esce di casa, prende una stanza in un hotel nei pressi della stazione Termini e sceglie, forse ancora una volta inconsapevolmente, di indossare le vesti di un Gesù moderno, fermo vicino ai binari ad attendere persone a cui donare poche monete, simbolo di una possibilità. La possibilità di cambiare l’esistenza di chi tende la mano a quegli spiccioli, ma forse di cambiare la sua, scoprendo magari di poter indirizzare le vite altrui verso quello che lui reputa il meglio. Forse, però, soprattutto dare una possibilità, attraverso gli altri, a una ragazza privata violentemente e troppo presto della sua vita.

 

Una ragazzina travestita da donna

Maria Concetta, invece, sceglie la sua partita: in un campo di prova virtuale che, spera, le permetta di trovare il suo posto nella realtà e soprattutto un posto fra gli altri. Il titolo di campionessa di un gioco online, Red Jungle, potrebbe far voltare gli occhi verso di lei e riuscire a non essere vista più come un Obelix con le trecce. Un atteggiamento oscillante fra l’apatia e gli scatti di rabbia, quello di una quindicenne- rifiutata dalla madre tossica- che non ha mai incontrato qualcuno che le insegnasse la bellezza, persuasa che il mondo sia pronto lì, a risolverla, pieno di disprezzo.

Una fuga prima da se stessa, nascosta dietro lo pseudonimo di una vincitrice, Jungla, che cancella il suo vero nome, ma non la sua personalità e ancor meno le sue sofferenze.

Una fuga, la sua, poi, da un mondo piccolo per il suo metro ottanta d’altezza, verso la capitale, dove spera di perdersi nella moltitudine, di essere non vista o forse finalmente apprezzata anche solo per quelle bellissime scarpe che porta ai piedi.

Una solitudine di silenzi però che non si rompono, che non incontrano orecchie pronte ad ascoltarla, che non incontrano mani pronte a stringere la sua. Nemmeno quella di una giovane educatrice precaria, Duca, sola anche lei in una ricerca che non ha ragioni, dovuta a quel senso di colpa per l’assenza di empatia verso un’adolescente che non sapeva chiedere aiuto nel modo ritenuto giusto.

 

Parole per vedere

Un romanzo (sette brevi capitoli divisi in parti), quello di Emanuela Cocco, che si compone nell’alternanza equilibrata di due storie in apparenza parallele,  di due versi che sembrano non incrociarsi come nella ballata solitaria di chi si ritrova all’angolo del ring, preso alle corde, aspettando che l’avversario cada da sé, perché non crede di riuscire mai a stenderlo. Consapevole di non avere la forza, preparato a subire un KO oppure pronto a continuare a saltellare sul tappeto, schivando i colpi.

E la voce dell’autrice si nasconde dentro quella del Padre, mentre i suoi occhi raccontano dall’esterno – per evidenziare forse il vuoto che la circonda – l’esistenza di un’adolescente grande e forte solo nel suo corpo.  Una scrittura graffiante, potente, in perfetta sintonia con le voci dei suoi personaggi, con il colore sporco delle vicende che narra, intrise di solitudine e tormento. Una scrittura che spoglia e scava, con la precisione di un chirurgo, un’umanità e una società malate, marcie, ignobili.

Una scrittura che, fra una strofa e l’altra, dà corpo all’unico vero dialogo del romanzo: un uomo e una donna senza volto, senza realtà, contraddistinti solo da una lettera, si inseriscono con un duello narrativo a due voci, per raccontare ai lettori storie macabre e invitarli a scegliere quale lo sia di più, per quale bisogna votare pietà.

Pochi  tratti somatici delineano i personaggi, per far parlare soprattutto i gesti, per far sentire la solitudine e l’isolamento di due persone che potrebbero essere ognuno di noi. Gli elementi essenziali, per farci scorgere e percepire la loro sofferenza, diventano immagini visive e gli occhi del lettore vanno oltre quelle parole.

 

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