Giulia Viola PacilliLa Madonna

Un racconto di Giulia Viola Pacilli

 

Non è che i miei figli sappiano molto di me, ma questa è una delle storie preferite di Natan ed Elle, soprattutto durante le camminate in montagna.

Finisco di allacciargli gli scarponcini con il doppio nodo, gli alzo bene i calzettoni fino al polpaccio, sistemo la bandana bianca ad Elle e stringo lo zainetto sulle spalle a Natan. Poi partiamo, in silenzio, lungo i sentieri delle Valli di Dolo.

Sento i loro sussurri alle mie spalle. Li immagino farsi i segni con le mani, scandirsi con il labiale: Chiediglielo tu. Sorrido e continuo a camminare, curioso di sapere chi tra i due si farà coraggio.

Tocca quasi sempre a Elle.

«Papà?»

«Non sarai già stanca» le rispondo io.

«No no» precisa subito lei e accelera il passo fino a raggiungermi. «È che… Ci racconti la storia della Madonna?» chiede.

Io sospiro; lascio che per qualche secondo si senta solo il grattare delle suole contro la ghiaia.

Mi schiarisco la voce e comincio la storia sempre nello stesso modo: «Ci svegliammo che il danno era già bello che fatto».

A quel punto anche Natan ci raggiunge. Camminiamo in riga, tutti e tre assieme, con il passo che segue il ritmo del racconto.

«Quella mattina le urla delle suore furono peggio di un secchio d’acqua gelata. Ci ritrovammo tutti e tre seduti sul nostro letto con gli occhi sbarrati. Panzo si precipitò giù dal letto a castello…»

«Panzo è quello della marmellata di prugne?» chiede Natan con il fiato corto.

«Sì» gli rispondo, «di quando i fasci…»

«Però quella è un’altra storia» ci incalza Elle, «Panzo si precipitò giù dal castelletto e?»

«E» riprendo, «andò dritto a ficcare la testa sotto la cassapanca, che quasi ci rimaneva incastrato. E iniziò a gridare Ca…» li guardo. «Non lo direte alla mamma, vero?»

Loro fanno no veloci con le teste. Io abbasso la voce. «Panzo iniziò a gridare Cazzo, cazzo, cazzo!»

Scoppiano a ridere.

«E io e Pollo dal castelletto lo sentivamo che imprecava con la voce tutta ovattata dal legno. Allora gli abbiamo chiesto: “Non c’è più?”  mentre ancora ci strofinavamo gli occhi.»

«Chi? Chi non c’era più, papà?» mi interrompe Elle, che pure lo sa benissimo.

Inspiro forte l’odore di muschio che proviene dal bosco.

«Non c’era più… la Madonna.»

E di nuovo scoppiano a ridere, non importa che siamo in salita.

«Eravamo riusciti per due settimane a tenere Madonna nella nostra camera. Ci eravamo offerti a turno con le suore di pulire la mensa, per riuscire a rubare qualche crosta di formaggio da farle mangiare.»

«Ma come c’era arrivata in orfanotrofio?» mi chiede Natan che fatica a starci dietro.

«L’avevamo portata noi. A trovarla eravamo stati io e Pollo. L’avevamo incontrata una mattina, mentre stavamo fuori a distribuire i volantini del catechismo. A un certo punto a Pollo ne era scappato uno e il vento l’aveva fatto volare fin dall’altra parte della strada.» Qui mi fermo per fare con il fiato il suono del vento mentre con la mano imito il volantino che svolazza nell’aria.

«Non facemmo nemmeno in tempo ad attraversare che da dietro il muretto spuntò una gattina tutta nera. Diede un’annusatina al volantino» e qui tiro su con il naso un paio di volte, «ci salì sopra, si accovacciò… e fece pipì.»

Natan ed Elle ridono e anche io sogghigno con loro.

«Non c’erano dubbi: quella gattina era una di noi. Così me la sono messa sotto al cappotto, qui» e allargo il bavero del pile per fargli vedere, «e l’ho portata con noi all’orfanotrofio.»

«E le suore?» mi chiede Elle che non vede l’ora di risentire quanto suo padre sia stato disobbediente.

«Eh, le suore non dovevano saperlo, ce le avrebbero date di santa ragione, altrimenti. Abbiamo recuperato dagli scarti del mercato una cassa di arance vuota, Panzo l’ha imbottita tutta con la sua sciarpa e poi abbiamo nascosto Madonna e la culla all’interno della conca della cassapanca che c’era nel nostro stanzone.»

«Ma perché l’avete chiamata così poi?» chiede Natan.

«Be’, per non farci beccare! All’ingresso dell’orfanotrofio c’era questa statua bianca di una Madonna e noi dovevamo occuparci di tenerla pulirla. Quindi se dicevamo cose come La Madonna è sistemata?, Hai pulito la Madonna?Ti occupi tu della Madonna? non sembrava strano alle suore. Pensavamo non ci avrebbero mai scoperti. E invece…»

A questo punto cerco con gli occhi una qualche roccia su cui mollare lo zaino per un paio di minuti e fare pausa. Sfilo dalla tasca laterale la borraccia e faccio bere un paio di sorsi ai bambini. Stiro la schiena e intanto spezzo un quadratino di cioccolato per ciascuno. Loro lo mandano giù in fretta, vogliono conoscere il resto della storia e sanno che in montagna le storie si possono raccontare solo mentre si cammina. È un trucco che funziona sempre.

«Non siete stanchi?» chiedo, e loro fanno di no con la testa mentre ancora masticano il cioccolato. Allora mi carico lo zaino sulle spalle e ripartiamo.

Si guardano sgranando gli occhi e di nuovo tocca a Elle farsi avanti. «E poi?»

«E poi cosa?»

«E poi cos’è successo?»

«Eh, quella mattina Madonna, si vede perché le era presa voglia di latte caldo o magari si era solo stufata di quel buio, non so, zampettò via di castelletto in castelletto e uscì passando da un buco tra le travi di legno che recintavano la camera. Figuratevi, noi eravamo stati troppo presi a controllare che la porta fosse sempre ben chiusa, per poterci curare anche del buco».

«E le suore?» domanda Natan.

«Eh» sorrido, «le suore non erano mai state così sciamannate in vita loro: avevano tutte le gonne  all’aria e i veli a metà testa, cercavano di prenderla con le scope… Nessuna di loro si era mai occupata con tanto impegno di una Madonna!»

«Ma non le hanno fatto male» dice Elle.

«No. Io, Pollo e Panzo eravamo lì a guardare la scena e pensavamo Sicuro ora ce la fanno fuori! E non sapevamo che fare, perché ormai le volevamo bene, alla Madonna: faceva i suoi bisogni solo sui volantini del catechismo e teneva i topi alla larga dai nostri calzini. Ma all’improvviso suor Antonia riuscì a prenderla.»

I bambini ascoltano e cercano di trattenere il fiatone.

«La sollevò sopra di sé, e Madonna…»

Si mettono già le mani davanti alla bocca.

«Le pisciò in testa!»

E scoppiano a ridere, “Le pisciò in testa”, ripetono, e per il resto della salita si rincorrono: Elle fa finta di essere Madonna, miagola e soffia a Natan che la insegue facendosi il segno della croce.

Io li guardo e penso a quanto sia facile, ora, riderci su.

 

Arriviamo al rifugio che è ora di pranzo e mentre loro si slacciano gli scarponcini e cercano gli altri bambini, io guardo giù, tra le valli verdi in cui Pollo e Panzo sono diventati Pollo e Panzo. Ripercorro i sentieri fatti insieme con la canna del fucile che ci sbatteva sulla schiena a ritmo di passo; i ponti che abbiamo fatto saltare; lo spiazzo riparato su cui ci stendevamo con i fili d’erba che ci solleticavano le braccia. Facevamo finta di stare al mare: “Ma si sta una favola con le palle a mollo nell’acqua”, ci dicevamo, “Altro che la guerra, stiamo in mare fino a farci venire la pelle rugosa come i vecchi!”

Ma Pollo e Panzo non hanno mai scoperto che significa avere la pelle da vecchi. Sono sepolti insieme a Porto Comacchio e probabilmente passano ancora tutto il giorno a parlare di topa.

I bambini mi vengono a tirare per la maglia: hanno fame e vogliono entrare al rifugio per vedere le foto dei cervi e delle marmotte. Ci sediamo al solito tavolo vicino al camino che ora è spento. Dario arriva e ci si appoggia con il gomito: ha la faccia abbronzata con il segno degli occhiali da sole e la fronte solcata dalle rughe. Lui da queste valli non se n’è mai più andato.

«Tre polente conce?» ci chiede.

Annuisco, lui batte una mano sul tavolo e se ne va in cucina. I bambini rubano il pane dal cestino di vimini, tolgono la mollica e se la girano tra i palmi fino a farne una palla. Per me possono farci quello che gli pare, basta che poi se la mangiano.

È una delle cose a cui penso più spesso, di quegli anni: quella merda di fagioli in lattina americani, viscidi e pastosi.

A quello penso, per lo più. E al fascio che ha sparato a Pollo e Panzo, ovviamente. Non tanto al momento in cui li ha ammazzati, ma a quando finalmente me lo sono trovato davanti agli occhi io. Al bel servizio shampoo che gli ho fatto dopo averlo legato su come un cotechino.

 

Mi alzo da tavola e vado al bancone. Dario esce dalla cucina.

«Ciao Secchio» gli dico, «me lo fai un bicchiere di vino?»

Prende una brocca e mi serve. «Ecco a te, Madonna.»

Sorrido e tiro giù in un sorso mezzo bicchiere. Lui me lo riempie di nuovo fino all’orlo. «Bevi va’, che se arriva un fascio gli pisci in testa come ai vecchi tempi.»

 

Leggi anche – Ragazza senza prefazione, di Luca Tosi