La forma del silenzio: un libro che va oltre le parole

La recensione di Tiziana Cazzato

 

La-forma-del-silenzio-copertinaInizia con una grande margherita disegnata su un muro bianco da un bambino. Con una margherita illuminata dalla luce obliqua del tramonto che entra dalla finestra. E sembra emani il suo profumo in tutta la stanza, quella margherita a cui un bambino di soli sei anni ha affidato il messaggio d’amore per la sua famiglia.

Perché Leo non sa in quale altro modo dirlo. Alla sorella Anna, l’unica che forse riesce davvero ad ascoltarlo e a comprenderlo. A sua madre, che confezionando fiori nel suo negozio, ha forse imparato a riconoscere il bello e a cercarlo in ogni momento della vita, senza mai scoraggiarsi o perdere il sorriso. A suo padre che, avvicinandosi sempre più a quella margherita, si sente ad ogni passo più piccolo e spoglio.

Perché Leo le parole non le pensa: Leo le parole le vede prima che si formi quel suono che lui non ha mai, sin dalla nascita, potuto percepire. Leo non ha mai ascoltato la voce della madre, non ha mai sentito il suo nome pronunciato dalla bocca di sua sorella. Leo è nato sordo. E nonostante tutto, la sua infanzia scorre in modo sereno: impara la lingua dei segni, ma soprattutto impara a scrutare gli sguardi, a decifrare i movimenti del corpo, anche quelli impercettibili, a interpretare l’intenzione di ogni più piccolo gesto.

Poi arriva il momento di andare a scuola e nei primi anni Sessanta, come stabilito dalla Conferenza Internazionale di Milano nel 1880, la Lingua dei Segni deve essere bandita dalla scuola. Lo hanno deciso i partecipanti a una conferenza che non sono né sordi, né muti. Loro che possono parlare e sentire in un mondo perfetto, possono stabilire cosa è più giusto per un bambino sordo dalla nascita.

E così, nella ricerca di qualcosa che sia il meglio per Leo, i genitori iscrivono il figlio all’istituto Tarra di Milano, una scuola per sordi che sorgeva lungo viale Zara, quando ancora la strada tagliava l’aperta campagna. E Leo resta lì dal lunedì al venerdì, quando Elsa e Vittorio, i suoi genitori, accompagnati da Anna, vanno a prenderlo per trascorrere insieme il fine settimana.

Leo non riesce a comunicare il bisogno forte di andare via da quella scuola, il desiderio di tornare a casa, di non vivere in un luogo in cui egli soffre, perché continuamente rimproverato, perché punito se usa le braccia per comunicare. I genitori lo amano e in questo amore sconfinato si nasconde la decisione di iscriverlo nel prestigioso e rinomato istituto milanese. Perché sono convinti che quella sia la scelta migliore per Leo: ciò che gli potrà dare una serenità di vita, garantirgli le opportunità non portategli in corredo al momento della nascita.

Ma in una notte di dicembre, bianca come una tela ancora da dipingere, Leo scompare. Inghiottito forse dalla neve o forse avvolto in un manto di tenebre.

E tutto sembra fermarsi in quell’istante. Il tempo, però, non arresta il suo incedere, gli anni trascorrono senza aspettarle, dopo aver nascosto Leo in un angolo ignoto di chissà quale mondo e un padre, ancora una volta troppo piccolo, forse troppo debole per il ruolo che gli era stato assegnato. E così per Anna e sua madre ogni giorno  è privo suoni: la loro quotidianità prende la forma di quel silenzio che imprigiona le parole importanti, quelle che rivelano le paure, le lacrime, una solitudine reciproca che non le fa incontrare.

Sono trascorsi diciannove anni da quella notte. Elsa continua a respirare la bellezza fra i colori e il profumo dei suoi fiori. Il passato è custodito in una scatola insieme ai ricordi che non vuole riaprire.

Anna si divide fra il suo essere insegnante di sostegno e lo studio privato di psicologa. Ha imparato la lingua dei segni, forse perché spera ancora di ritrovare Leo: allora aveva solo quattordici anni e non aveva veramente capito cosa stesse accadendo. Forse perché vuole che Leo senta che lei c’è davvero e che gli vuole un bene rimasto sì irrisolto, ma cresciuto col tempo.

Sono trascorsi diciannove anni e se lei, forse, avesse avuto qualche anno in più, avrebbe potuto cercarlo, suo fratello. Forse avrebbe anche potuto evitare che scomparisse. È un pensiero che non l’ha mai abbandonata, un pensiero che la tortura mentre dentro di sé nutre ancora la sbiadita speranza di ritrovare Leo. Non lo svela a se stessa. Non ne parla con Stella, la sua migliore amica. Ne parla ancor meno con la madre.

E quando, dopo così lunghi anni, la scomparsa di Leo ha preso ormai la forma di un silenzio da non infrangere, arriva nello studio Michele, un compagno di scuola del bambino. Inizia un racconto fatto di gesti, di suoni forzati che riaprono una ferita e ravvivano la speranza nel cuore di Anna. Il racconto di quella famosa notte del 1964 prende un’altra forma, rompe il silenzio e rivela che non è stata la neve ad avvolgere quel bambino di nove anni, non è stato nemmeno il buio ad averlo inghiottito.

Anna può ripartire da quella notte di inverno per trovare le risposte rimaste sospese, per cercare di comprendere, per provare a portare avanti una ricerca che non è mai cessata.

Incontrerà persone, ascolterà i racconti e, come suo fratello, scruterà gli sguardi, decifrerà i movimenti del corpo, interpreterà l’intenzione di ogni più piccolo gesto. Fino a quella verità verso cui ha camminato in tutti quegli anni.

Una trama avvincente, portata avanti con un linguaggio ricercato, attento, puntuale anche in quelle descrizioni che diventano immagini, con una scrittura che diventa in Stefano Corbetta indagine sensibile delle relazioni, soprattutto quelle familiari, di quello che la vita ci porta a diventare senza che ne siamo davvero consapevoli. E la capacità dello scrittore di rispettare la vita dei suoi personaggi, di mettersi in loro ascolto, di nascondersi dietro il velo della storia, per far parlare la vita, i luoghi, i fatti. Il grande talento, ancora una volta, di saper ascoltare e raccontare persino i silenzi. Quelli che a volte ci rendono sordi agli altri, ai loro bisogni. Quelli che a volte ci portano soprattutto a non dire, a nasconderci, a non rivelarci per la paura di ferire o di essere feriti. Quei silenzi dietro cui si nasconde un amore troppo grande che ci porta a sbagliare, che ci rende certi di fare la scelta migliore per le persone che amiamo, inconsapevoli e sordi a ciò che renderebbe loro davvero felici.

La forma del silenzio (Ponte alle Grazie, 2020) nelle sue molteplici vesti, persino in quelle di un’istituzione che ha impiegato troppi anni a scoprire la strada dell’integrazione e dell’inclusività di chi è diverso, che non ha saputo adeguare il passo con quello di chi ha iniziato la vita con una difficoltà in più. Il silenzio di un’istituzione, di una società che deve ancora fare tanta strada per riuscire ad accogliere e a far sentire tutti davvero accolti.  E non solo.

 

Leggi anche – Rivista numero 0