Karl il postino, un racconto di Dave Given
Non ho mai creduto alla storiella di essere nato sfortunato, nonostante mia mamma me l’abbia ripetuto in modo asfissiante. Non sopporto i luoghi comuni, ma adesso che non può più dirmelo mi mancano quelle parole estenuanti, ripetitive, noiose, amorevoli. Quando sono in vasca poi, quella frase perde qualsiasi significato. Il mio corpo ha con l’acqua un rapporto privilegiato. Mi distendo sulla pelle della piscina, braccia e gambe si muovono con una grazia che mi è impossibile avere sulla terraferma.
Ritmi e automatismi prendono possesso dei miei gesti, allungo il destro, poi spingo. Il sinistro e giù di nuovo. Potente, tenace.
Paul, il mio allenatore, è della mia stessa opinione. Fortuna e sfortuna nel nuoto non c’entrano. Devo solo migliorare per ottenere il mio posto nella storia. Aumentare il tempo in apnea e non pensare troppo mentre sono in vasca.
«Karl, se riesci a fare queste due cose, sarai il primo della tua gente ad avere una medaglia olimpica in questa specialità» ha detto ieri.
Chiaro, chiarissimo. Giusto, giustissimo. Solo che pensare di non pensare è così paradossale. E poi a chi si riferisce quando parla della mia gente? Bah, mica l’ho capito. Intanto continuo. I piedi vanno da soli, a quelli riesco a non badare.
Mi sforzo di prendere quanta meno aria possibile, ma meno ne prendo, più fatica faccio. Un cane che si morde la coda. Aspetta… i proverbi sono luoghi comuni?
Quando inizio a sentire la fatica, alcune immagini arrivano in automatico: la torta di mele che hanno fatto Jackie e Isa per il mio compleanno. Mio nonno che mi racconta che ha percorso a nuoto lo stretto di Gibilterra. La televisione di mio zio Earl, con mio padre che tifava gli Utah Jazz, per il solo gusto di contrariarlo. L’infortunio al polso che mi ha fatto saltare le scorse olimpiadi.
«Devi lavorare sodo più degli altri, Karl, tu non sei uguale a loro.»
«Ma perché, mamma?»
«Sei un bravo ragazzo, Karl. Sei un bravo ragazzo.»
A volte l’amore e la paura ci convincono di cose stupide.
Fondo vasca, virata a capriola. Sono stato lungo. Perdo qualche decimo. Spingo di più per recuperare. Vorrei prendere aria, ma prima faccio altre quattro bracciate. Posso resistere.
Paul prende i tempi. Suda troppo per essere fermo accanto al trampolino a premere un tasto sul cronometro. Speriamo che i suoi riflessi siano ancora buoni. Beve troppo ultimamente e dice cose stupide.
«Hai mai pensato di fare basket o pugilato?»
«No, Paul.»
«Il football, allora!?»
«A quanti scotch sei?»
«Ma davvero ti chiami Karl per via di Malone?»
«Mio padre amava tifare per gli sfavoriti. Poi la televisione era di mio zio, quindi Jordan era già preso.»
Malone è il motivo per il quale ho iniziato a nuotare. Pur essendo uno dei migliori realizzatori di sempre, aveva come avversari Jordan, Pippen e Rodman… per questo non ha mai vinto il titolo. Ciò è stato sufficiente a farmi capire che il basket è un gioco troppo aleatorio, non basta il singolo per vincere e io avevo bisogno di contare solo su me stesso.
«Ultima vasca Karl, dai tutto!» urla Paul.
Il mio sguardo cambia, le mascelle si induriscono. L’unico pensiero che ha accesso alla mia mente è l’ovazione del pubblico quando salgo sul gradino più alto. Il brivido dell’orgoglio, il rispetto dei secondi. Poi sento l’inno e il successivo sgomento quando mi inginocchio. Irriverente? No, GIUSTO!
Distendo il corpo sulla superficie, aumento la frequenza di tutti i movimenti. L’acqua sembra aprirsi davanti a me, mi sostiene. Limpida. Maestosa. Equa.
Compio il massimo sforzo, arrivo esausto. Tocco il bordo, poi mi alzo e prendo aria. Non so come sia andata, ma vedere Paul saltellare, una via di mezzo tra un ragazzino e un canguro, mi fa capire che ho fatto un altro tempo stellare. Mi tolgo gli occhialini e li faccio roteare attorno all’indice. Nemmeno l’esultanza è lasciata al caso. Di colpo sento un acuto dolore al polso… tremo per un secondo, ma passa subito.
Dopo la doccia, Paul mi aspetta accanto alla macchina.
«In effetti non saresti mai potuto essere una stella della NBA!» mi dice.
«Lo so.»
«Come ti viene in mente di comprarti una Prius ibrida?»
«I soldi dello sponsor mi servono per il mutuo.»
«Certo, ma tanto un giorno Jackie ti lascerà, succede sempre così dopo i quaranta.»
«Dai sali, ti do un passaggio.»
«Secondo te perché ti sto aspettando vicino a sto scaldabagno?»
«Cabaret, Paul, avresti dovuto fare cabaret.»
Paul spegne la sigaretta e sale in macchina. A volte credo fumi anche a bordo vasca.
«Passiamo prima al centro commerciale. Devo prendere dei nuovi occhialini» gli dico.
«Ok, capo!»
Il ticchettio della gamba di Paul scandisce ogni mezzo secondo. In altri tempi gli avrei detto di smetterla, ma nell’ultimo periodo so quanto stia soffrendo, per cui soprassiedo.
Il parcheggio è vuoto, lascio la macchina vicino all’ingresso.
«Che fai vieni con me?»
«No, aspetto qui. Al massimo vado a prendermi un caffè alla tavola calda.»
«Ok, faccio subito.»
Ordino alle porte scorrevoli di aprirsi, oggi mi sento come Mosè. Una ragazzotta occhialuta mi indica il reparto basket. Sorrido e vado nella direzione opposta.
Arrivo al reparto dedicato al nuoto. Chiudo gli occhi e vedo la mia immagine sui cartelloni. L’emozione è forte, sento i brividi. Quasi piango. Non so quanto tempo resto in contemplazione, forse troppo. A riportarmi fuori dal sogno è la voce stridente di un uomo.
«Documenti!»
Mamma dice che si chiede sempre per favore! dico tra me e me, e sorrido.
«Non li ho con me, sono in macchina, agente.»
«Quale macchina?»
«La Prius ibrida.»
Non so perché tutti ce l’abbiano con quell’auto, fatto sta che dopo “ibrida” fa un balzo verso di me e mi afferra lo stramaledetto polso. Istintivamente sgancio il braccio dalla presa e gli do una spinta leggera. Forse non troppo, perché lui cade con il sedere per terra. Chiedo scusa e provo ad aiutarlo a rialzarsi, ma lui va di manganello dritto contro la coscia. Resto fermo e alzo le mani. Mi ammanetta. Sto zitto e non faccio resistenza. Mantengo i muscoli rilassati assecondando ogni strattone. Tanto appena fuori Paul gli farà capire che sono in regola.
Parte del mio stato zen lo perdo nel vedere la commessa di prima, sbiancata e sghignazzante, osservare la scena da dietro la cassa. L’altra parte invece la perdo quando vedo che accanto alla macchina c’è solo un altro agente ad aspettarmi.
Dove cazzo è andato! Mi guardo intorno spaesato.
«Socio, sta macchina emana puzza di marijuana!»
«Agente sono un nuotatore, andrò alle olimpiadi» provo a difendermi.
«Certo! Noi stupidi che pensavamo fossi un postino» ridono di gusto.
Faccio un lungo respiro. Provo a convincermi che non possono volermi male, avranno senz’altro simpatia per noi che siamo bravi a basket e abbiamo il ritmo nel sangue. Ma evidentemente non è così: uno dei due mi atterra da dietro e mi immobilizza.
Penso a mia madre, mi sembra quasi di vedere i suoi occhioni verdi e il candore della sua pelle. Poi capisco che è solo un’altra prova da superare, che anche dagli imprevisti si può prendere qualcosa di buono.
Probabilmente gli agenti sono stati mandati da Dio in persona.Il ginocchio del Creatore, o di chi per lui, sta mettendo alla prova la mia apnea. Me la cavo alla grande. Se Paul fosse qui saltellerebbe di gioia. La medaglia d’oro con queste capacità è assicurata. La sento già attorno al collo.
Poggio la guancia sull’asfalto, riesco a guardare il cielo.