Recensione di Stefano Bonazzi – 20/10/2020

Quel punto fra mare e cielo in cui ogni colore svanisce

Vincenzo fa parte di un gruppo di scrittori dallo stile ben chiaro che a me piace definire “dello sporco”. Di questa scuola potrei citarne alcuni nomi, più o meno noti, da Luigi Romolo Carrino a Giuseppe Merico, per poi includervi Matteo Garrone, se anche in ambito cinematografico vogliamo spaziare. Si tratta di penne a cui piace intingere il loro inchiostro nel sangue, nello sperma, nel lerciume più torbido dell’animo umano. Le loro storie sono semplici, dure, minimali. Reportage schietti di vite ai margini, spesso in luoghi dove la legge non arriva, dove il sole non concede una tregua e la polvere si accumula e rapprende, formando una patina vischiosa sulle cose, sugli organi, sui pensieri.

Maregrigio_copertinaConfesso che Vincenzo mi aveva già convinto con la sua opera precedente, “La santa piccola”, quel pugno allo stomaco che oggi scopro aver più di un punto in comune con questo nuovo Maregrigio (Officina Milena, 2020). Sempre di vite ai confini trattava, sempre temi spigolosi: Mario, Lino e Assia, diciassette anni, carne giovane, pulsioni, violenza. Temi che ritornano, nei libri dell’autore, come un mantra da cui è incapace di staccarsi, perché Vincenzo ha le idee chiare, ormai lo abbiamo capito. Abbiamo capito il tono, lo stile, il ritmo. Abbiamo capito che la sua prosa non è per tutti, che le sue storie sono grovigli di filo spinato, ruggine e sangue rappreso, che ci vuole uno stomaco forte, una scorza ancora più spessa e la comprensione speciale di chi, tra quel groviglio di aculei, almeno una volta nella vita ha dovuto passarci, districarsi, uscirne. Salvarsi.

Ma il lieto fine non è scontato. Bisogna guadagnarselo, sputare sangue, sudare fino a prosciugarsi le membra e forse, nemmeno dopo tutto quel martirio, il martirio dei santi e delle madonne con gli occhi bassi e i palmi aperti, appunto, forse nemmeno dopo tutta quella fatica a certe anime è concesso il riposo.

È forse questo che ci vuole dire Vincenzo? Perchè qui, in questo mare grigio, di speranza ce n’è davvero poca.

Non c’è speranza per Marisa, donna intrisa di sensi di colpa e frustrata a tal punto da concedere il suo corpo stanco alla prepotenza di Pasquale Scano, un ragazzino scomodo dai modi e le pulsioni di un boss già formato.

Non c’è speranza per i fratelli Diego e Stefano, due scapestrati che si imbattono in una scoperta terribile, non ne fanno parola e, proprio come i non detti peggiori, questo segreto inizierà a stuzzicarli, corroderli e mettere in luce gli aspetti più torbidi di quel rito di passaggio che ci piace chiamare adolescenza e che forse, invece, è solo nero, mascherato d’innocenza.

Non c’è speranza per Teresa, che non è nemmeno maggiorenne è già ha imparato che non tutti i padri significano famiglia e ogni cosa può avere un prezzo, essere maneggiata, trattata e umiliata, persino il suo corpo.

Non c’è speranza per Ezio, che vorrebbe solo poter essere se stesso in una città dove i “ricchioni” non sono altro che quello: una parola che solo a pronunciarla ci si riempie la bocca di saliva, una saliva che va subito sputata, cacciata fuori e pestata, prima che quel male assurdo rischi di infettare tutto.

E poi c’è lei, l’ultima, che ha quel nome prezioso. Speranza, appunto, quella che non parla perché non può, gliel’hanno impedito ma che, anche se potesse, forse, non avrebbe più nulla da dire. Speranza. L’hanno presa e gettata là sotto, in quel buco che puzza di piscio e preservativi usati, dimenticata, nel posto più scuro del mondo.

È un libro piccolo quello di Vincenzo, poco più di cento pagine, sta tutto in una mano, ma pesa, pesa più del piombo, perché ogni pagina è intrisa di frasi che sono pugnalate e colpiscono, forte, fin dentro le ossa. Il suo è uno stile diretto, privo di metafore, perché il male non ha bisogno di metafore, va scritto così, per quello che è.

Storie brevi che si intrecciano, alcune si sfiorano, altre collidono. Sono anime che fluttuano, i personaggi di Vincenzo, in un mare stanco che ha perso i suoi colori, con la superficie che ha il colore del petrolio, una patina densa e oleosa da cui a fatica si riemerge e, quando finalmente ci si riesce, non si può fare altro che respirare, e ringraziare.

 

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