Davide Morganti

Con un libro appena pubblicato – “Il cadavere di Nino Sciarra non è ancora stato trovato” (Wojtek edizioni, 2019) – capace di tessere un apparato di prosa critica volta al recupero di autori smarriti e di corpi in disfacimento che fa riflettere i lettori su ciò che si è stati e su ciò che si potrebbe diventare, con una serie di opere nate su carta e divenute pellicola (penso a Caina e al festival del cinema di Parigi) e soprattutto, biografie e galloni a parte, con una capacità di esercizio della parola e del periodo che lo rende un caposcuola per neofiti ed aspiranti, a fare due chiacchiere con Davide Morganti ci si emoziona quasi.

La Screazione nei Disertori: possiamo partire da lì? Cosa ricordi di quei tempi?

Ricordo la telefonata di Diego De Silva che mi disse, siediti ti devo dire una cosa, lui aveva letto Screazione e a mia insaputa lo aveva proposto a Repetti e alla compianta Giovanna De Angelis ed era piaciuto, non mi aspettavo certo che la traduzione dei primi ventisei versetti di Genesi in napoletano antico potesse interessare a qualcuno.

Con Il cadavere e con la ripresa di tutti gli autori citati hai fatto un doppio regalo alla letteratura, tra scrittura e recupero. Da dove è nata l’idea?

Ho sempre avuto, sin da piccolo, passione per le letterature marginali, o almeno per l’Italia marginale, nel tempo ho cominciato ad accumulare tanti libri di scrittori di cui ignoravo l’esistenza ma che compravo per quello che leggevo nelle bandelle, a un certo punto pensai di farne un manuale alternativo per le scuole ma Ciro Marino, tra gli editori di Wojtek, mi chiese qualcosa in forma narrativa. Mi consultati con Antonio Russo de Vivo che mi consigliò di fare del cadavere il motore della storia. Sono stato contento di dar voce a chi ne ha avuta poca o nulla, ci sono autori grandi come Angelo Fiore, Carlo Coccioli, Giuseppe Occhiato, Nino Palumbo, Nedda Falzolgher e Giovanni Amedeo, napoletano, autore di un unico romanzo, “Il nipote”, per me splendido. Ho cercato di scrivere anche un libro che fosse allo stesso tempo una confessione mistica e un atto polemico verso parte della letteratura italiana che ha meno qualità della plastica che si trova nella pancia di un pesce. 

Che differenza trovi tra la scrittura teatrale e quella romanzata?

Quella teatrale prevede dialoghi da cui deve uscire ogni cosa, la romanzata ti permette massima libertà come fosse un cartone animato.

Cosa predilige il Morganti lettore?

I russi, i cèchi (Fuks, Weil, Friedl), gli scandinavi (Hamsun, Strindberg, Södeberg) e i grandi della cosiddetta letteratura reazionaria francese, da Celine a Montherlant fino a Caraco e al primo Houllebecq. Tutto sommato leggo di tutto, l’importante è che sia scritto bene. E poi ho una grande passione per la teologia ma, a dire il vero, i teologi non è che siano dei maestri di stile.  

Quanto la tua attività giornalistica influisce sulla componente creativa?

Mi ha insegnato a togliere il superfluo. 

Atto di abbandono alla meccanica di Newton è stato – conferma di più voci – il racconto del 2018. Ci puoi dire qualcosa sulla sua genesi?

Non lo so, a dire il vero, o almeno adesso non me lo ricordo, posso dire solo che poco più di un anno fa una donna anziana, dove abitavo prima, si è buttata giù dal palazzo, me la ricordo sin da quando ero piccolo come una signora elegante, garbata, sempre discreta. Mentre lo scrivevo mi venivano in mente alcuni personaggi morti in maniera così tragica, mi sono rimasti impressi quelli di Kocsis, il grande calciatore ungherese, suicida nel 1979, e di un alcolizzato che precipitò dal ponte della metropolitana di fronte casa mia, non ho mai dimenticato il suo cadavere che riuscii a intravedere tra i piedi della folla. Ero un bambino. 

Venti righe, un tavolo, una sedia e un portatile acceso: di cosa parleresti?

Di come sia difficile rispondere alle domande! 

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