Per come la vedo io, intervistare uno che nel 1999 ha esordito con Marsilio vincendo il “premio Kihlgren opera prima” per andare poi a seminare scritti – e che scritti – in Fandango, Minimum Fax, Sironi e compagnia sonante è come avvicinarsi a un drago alato, a un mostro sacro dinanzi al quale il rispetto e l’ammirazione sono moneta minima. Poi con Argentina si parla, si chiacchiera, si bevono un paio di birre e si capisce tutto quello che la reverenza impediva: Argentina è uno scrittore di quelli veri, fatti e finiti, che scriverebbe e scriverebbe stando lontano a miglia da Social e connessioni per far parlare le pagine, la penna o la schermata del suo pc.
Argentina, nel 1999 esci con Marsilio con un’opera intitolata “Il cadetto”: come accade?
Accade dopo 14 anni di rifiuti e pesci in faccia. Mandavo roba alle case editrici e a volte il materiale mi tornava indietro, a volte mi arrivavano lettere di rifiuto prestampate, altre volte niente, solo un silenzio del cazzo che mi faceva sbattere la porta dopo l’ennesima controllatina alla buca delle lettere. Poi Raffaele Crovi mi dice che il romanzo Il cadetto è buono e lo pubblica per Camunia, ma due mesi dopo vende Camunia alla Giunti. Mi porta alla Giunti, ma non se ne fa nulla e allora mi consiglia di mandare il dattiloscritto al Saggiatore e a Cesare De Michelis della Marsilio. E a quel punto arriva la proposta editoriale.
Cosa credi sia cambiato da quegli anni agli odierni nell’editoria?
Un po’ tutto. Negli anni ’90 erano in pochi a pubblicare e gli aspiranti autori erano presi per sfinimento. Oggi una chance non la si nega a nessuno. Oggi si sprecano aggettivi come straordinario, epocale, migliore per libri mediocri e si portano avanti autori che non sono passati attraverso la gogna del sano rifiuto. È cambiato tutto.
Di cosa scrive oggi Argentina? È cambiato in cosa, rispetto a vent’anni fa?
No, scrivo sempre la solita zuppa rimestata e rinvigorita da iniezioni di fave e cicorie. Uno scrive di ciò che sa e io scrivo delle mie paranoie e di quanta merda si deve ingoiare a nascere in un punto X della Terra piuttosto che in un punto Y. Scrivo dell’ingiustizia e di come siamo allevati come polli da batteria per prenderla in saccoccia una volta al giorno tutti i giorni domeniche comprese.
A quale tuo romanzo vuoi più bene? Quale hai voluto difendere?
Mai difeso un mio romanzo. Lo ritengo un atto di debolezza dell’autore. Così come mio padre non mi difendeva mai. I miei libri sono storie che mi sono strappato di dosso e me ne fotto se piacciono o non piacciono se funzionano o non funzionano se incontrano il favore o lo sfavore di pubblico e addetti ai lavori. E questo non per snobismo, perché vorrei che i miei romanzi li leggessero anche gli indigeni di Papua Nuova Guinea, no… è per stanchezza. Ci vogliono energie a esaltare e sponsorizzare le proprie opere e io preferisco usare quelle energie per scrivere. Quanto al romanzo amato tendo a ripetermi: quello a cui lavoro. Preferisco il grezzume al prodotto finito.
Chi legge Argentina?
Lettori elastici, gente abituata a maneggiare con cura i libri. Io apprezzo molto chi mi legge perché so che lo fa pur andando a volte controcorrente. Sono persone che apprezzano l’onestà letteraria e non amano le vie brevi verso la vittoria.
Studiato nelle università in Italia e Francia: da fuori, come la vedi?
Fa un immenso piacere perché vuol dire che, pur restando fedeli alla tribù, si può aprire una breccia nel mondo coronato della cultura istituzionale. E poi le letture sono sempre molteplici perciò è bello poter andare dal venditore di palloni sckattati ai luminari della letteratura.
Se avessi venti pagine bianche, una Raffo stappata e via Calabria – la via prediletta di tanti tuoi romanzi – come le riempiresti?
Venti pagine corpo dodici a interlinea singola sono un bel po’ di roba… Hemingway ci tirerebbe fuori un racconto bello serio. Ho sempre riempito le pagine senza calcoli, senza scalette o programmi. Mi sono seduto e sono partito lasciando agli altri le divisioni, le addizioni e le moltiplicazioni. Cosa mi ha portato tutto questo? Poco, poca roba rispetto a quello che sarebbe potuto essere, ne sono consapevole. Ma che ci volete fare? Ognuno se la gioca come meglio gli viene e la scrittura non è omologazione. Le scuole di scrittura, gli editing massicci, le sponsorizzazioni vanno bene al momento, ma garantito che roba del genere non porta uno scritto a durare. Non dura un cazzo perché costruito su basi artificiali e artificiose. Voi provate a costruire un bel palazzo su un mucchio di truciolato! Scoffolerà, prima o poi verrà giù e questo accadrà più prima che poi. Solo il rigore e la pazienza generano cose buone o meno buone ma destinate a restare. Bisogna tenersi fuori dalle conventicole, dai cenacoli, dai dispensatori di incenso… Ogni applauso è un risucchio di anima e lo scrittore deve riservare l’anima per la pagina. Nessuna coscienza se non nella scrittura, questo recitano gli efori della vera letteratura. Del resto sono le sconfitte che rendono uno scrittore più forte, non i complimenti. Le sconfitte mettono in discussione tutto e tu cominci a pensare di non valere un cazzo e poi dentro parte un moto di ribellione che ti farebbe mandare in pezzi tutta la Sormani, fuoco ai musei vaticani perdio! E allora risali la corrente, un passo alla volta schivando piranha e anaconda. Per metter giù parole come Cristo comanda devi essere finito nei cessi pubblici a sbocchinare vecchi con la gonorrea o, in alternativa (meglio l’alternativa), devi setacciare il magnaccia che ti porti dentro, ruzzolare dalla montagna e rialzarti e come un novello Sisifo riprendere la pietra e ricominciare daccapo. Venti pagine e una Raffo? Preferirei venti Raffo e una pagina perché se vai dritto allo scopo non hai bisogno di pugnette, non conosci le tue vendite e te ne fotti delle rese, degli articoli intimidatori e delle critiche a cazzo moscio. Sei oltre le critiche e oltre i dissidi umani. Vai per la tua strada sebbene sia lastricata di sputi sperma ed altre leccornie e se lei ti sorride grifagna e assassina aggancia quel sorriso e tienitelo stretto perché se scrivi non hai molte occasioni di incontrare gli angeli. Viceversa se esibisci la tua scrittura avrai molte occasioni di scopare e godere della tua effimera fama. Ma a che sarà servito? Hai perso giorni di scrittura e non sei stato dietro ai tuoi personaggi e loro lo hanno sentito e si sono indeboliti e manca poco che ti mandino affanculo. Prima la narrativa era un’arte elitaria, di nicchia, per appassionati… Si basava sul principio dell’emozione e se è pur vero che le storie di Dostoevskij a volte possono risultare noiose è altrettanto vero che quel fottuto moscovita scriveva in lacrime e lo stesso Poe si alzava dalla sedia in condizioni disumane, come se un demone malvagio si fosse impossessato di mente e corpo e poche chiacchiere su assenzio e oppio… non ce n’è bisogno. Togli l’emozione e sei fottuto. In giro troppi libri ricalcati da altri libri ricalcati su altre pagine e via dicendo. Sogno un mondo con una pubblicazione annuale di otto libri. Otto libri l’anno e quando li hai letti torni indietro a leggere Buzzati, Silone, Simonetta, Serao, Bianciardi, Bufalino, Sciascia, leggiti la storia di Eliogabalo che morì soffocato nella merda o Berto, Ungaretti, Rigoni Stern (l’ultimo grande), Brancati, Lucio Mastronardi che prima si lanciò nel vuoto da un balcone e poi la fece finita nel Ticino, Gigi Pirandello… cazzo sto dicendo? Venti raffo e venti pagine… venti di guerra…
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