Un racconto di Andrea Minuti

“Le mosche sono nate per essere divorate dai ragni, i ragni dalle rondini, le rondini dalle avèrle, le avèrle dalle aquile, le aquile per essere uccise dagli uomini, e gli uomini per ammazzarsi a vicenda e per essere mangiati dai vermi e poi, almeno mille su uno, dai diavoli”.

(Voltaire, Dictionnaire Philosophique)

All you can eat

«Mamma, com’è fatto l’albero della limonata?» domandò il bambino del tavolo accanto. «L’albero dei limoni, vorrai dire», rispose la madre. «No, no. L’albero della limonata. Quello con i frutti gialli a forma di bottiglia». Tutto il tavolo esplose in una fragorosa risata. Anche il bambino rideva compiaciuto. All’interno di quel ristorante così neutralmente orientale – giapponese? coreano? vietnamita? – l’ilarità si diffondeva tra le sale colorate, circondando i grandi tavoli del buffet a prezzo fisso. All You Can Eat: mangia finché puoi. Prendi tutto, paghi niente.

Il bambino continuava a ridere. Ma sarebbero presto finiti i tempi in cui le persone avrebbero accolto amichevolmente la sua ottusità. Che cos’ha la gente con i bambini? Avrebbero dovuto spiegargli che la limonata è un prodotto artificiale, ottenuto dalla spremitura di una certa quantità di limoni e completato con l’aggiunta di elementi sintetici tra i quali l’aspartame, i coloranti E 122, E 110, E 150d e una spolveratina di stabilizzatore di acidità. Allora il bambino, sorpreso e allarmato, avrebbe chiesto: «Mamma, cos’è l’aspartame?». Il tuo biglietto per l’inferno, caro.

La risata continuava e il bambino gongolava nella sua ignoranza che faceva un sacco divertire. Solo una bambina più grande, con una coroncina di plastica sui capelli castani, lo guardava inferocita mentre infilzava con la sua forchetta lucente un altro brandello di cernia o più probabilmente di pangasio sbiancato (Pangasianodon hypophthalmus). Quel bulletto tutto gote le stava rubando la scena con le sue domande da sociopatico. Avrebbe voluto vederlo arrostito su una delle piastre al centro della sala, come un maialino da latte.

Sulle pareti dell’All You Can Eat, una foto di Madonna, una veduta aerea dei Pirenei e un poster di Barack Obama con scritto a grandi lettere: Yes, We Can!

La bambina incoronata aveva smesso di guardare con astio il bamboccio della limonata e ora stava fissando la fotografia di Madonna. Si immaginava così da grande. Magra, bionda, splendente, con una corona d’oro massiccio e una corte di servi che le arrostivano maschi alpha usa e getta davanti agli occhi. Le sue pupille si stavano dilatando dalla gioia mentre senza accorgersene trangugiava un altro pezzo di un pesce crudo qualunque. Bambina cara, prima di avere il potere di realizzare i tuoi sogni dovrai attraversare il deserto. Immagina: praterie di benzodiazepine, barriere coralline di antidepressivi, foreste pluviali di lacrime, due o tre matrimoni falliti e una laurea triennale in scienze della comunicazione. Piccola, non lo sai? È il nostro sogno di liquidità. Camminiamo su un filo da equilibrista, sospesi tra la ribalta e la fossa dei leoni. E nel mentre, ci ingozziamo. E le stars? Non sono così brillanti come le stelle. Sembrano luminescenti ma sono solo delle comete malconce. E comunque non mangiano certo quello che stai mangiando tu in questo momento, giovane divoratrice di crostacei radioattivi.

Il grado di ilarità sprigionato dal tavolo accanto era tornato a livelli tollerabili. Il bambino insisteva con la storia della limonata, prendendo in mano una bottiglia e facendo dei gesti plateali per richiamare l’attenzione degli adulti. Ma nessuno lo considerava più. Aveva avuto i suoi quindici secondi di celebrità e adesso era già nel dimenticatoio insieme ai ricordi scomodi e a qualche popstar minorenne.

Arrivò un cameriere, vestito con una maglietta che sul davanti recitava l’iconica frase We Need A Hero e prese le ordinazioni a un altro tavolo. La reginetta e il principe dell’aspartame continuavano a mangiare, ma adesso erano asfaltati dai discorsi intelligenti degli adulti, tipo il caro benzina o la guerra in Ucraina. Il cameriere si fermò davanti a una coppia di anziani e al loro figlio cinquantenne. «Pronti per ordinare?», disse con un sorriso bionico. Per compiere quel gesto – sessanta volte a sera, per sei giorni a settimana, venticinque giorni su trenta – doveva avere una mandibola ipertonica. Circa millecinquecento sorrisi bionici al mese. Circa diciottomila all’anno. Una fatica indescrivibile, se pensiamo che la quantità di sorrisi non era in alcun modo proporzionale al suo stipendio. Quel cameriere emetteva radiazioni cosmiche. Era invidiabile in quella sua paresi eroica. Aveva la legge morale dentro e il cielo stellato sopra, se non fosse che al posto della volta celeste, il soffitto del ristorante presentava dei bassorilievi inquietanti che mettevano in scena un naufragio. I volti dei naufraghi si distorcevano dal dolore, mentre dei mostri marini – divinità, dragoni e piovre giganti – trascinavano quei poveretti nelle profondità abissali. Quella scena apocalittica sembrava ricordare ai mangiatori là sotto che sarebbe giunto anche per loro il tempo del giudizio. Un tempo durante il quale i calamari, i crostacei e tutte le specie ittiche presenti nei loro piatti sarebbero resuscitate per punirli della loro ingordigia.

Ma che importava! (L’appetito vien mangiando).

Il cameriere attendeva che i tre del nuovo tavolo finissero con le ordinazioni. Mentre la coppia di anziani soppesava i pro e i contro riguardo alla scelta dell’acqua – la naturale aiuta la digestione ma la frizzante stimola l’appetito – il figlio estrasse dalla tasca una decina di scatolette di medicinali e li dispose davanti ai rispettivi piatti. «Frizzante» disse la moglie. Il cameriere se ne andò, portando con sé la sua aurea mistica e tornò velocissimo con la bottiglia d’acqua. «Il buffet è sui tavoli al centro della sala. Come sapete, potete servirvi da soli e mangiare quello che volete.» Al marito luccicarono gli occhi. «Quanto volete.» Principio di tachicardia. Salivazione in aumento. Il cameriere ringraziò e se ne andò verso altri tavoli bisognosi di sorrisi bionici. Appena si voltò, il retro della maglietta recitò un definitivo We Had A Hero, mostrando l’immagine di Elvis che sorrideva sornione.

L’acqua frizzante era in tavola e il momento esigeva la dovuta commemorazione. Con una ritualità che rasentava la liturgia, il figlio invitò i genitori ad aprire i rispettivi contenitori pieni di medicinali. «Un brindisi» disse. Alzarono i bicchieri colmi di acqua frizzante e ingoiarono, una ad una, tutte le pillole magiche. Riopan (preventivo) per i bruciori di stomaco. Maalox (il migliore amico dell’uomo) per i dolori addominali. Prostaplant e Ciproxin, per la prostata perennemente infiammata. Rizaliv (6mg) per il post sbornia (con l’acqua frizzante?). Sensodine e Parodontax, contro le infezioni alle gengive. Amitriplitina (doppia dose) per dormire sonni tranquilli. Chalis, nel caso remoto e inaspettato di un’erezione notturna e di una conseguente notte geriatrica di libidine. Xanax. Perché dove c’è Xanax c’è casa.

I mostri marini osservavano dal soffitto quello strano rituale farmacologico e pregustavano il sapore di quelle carni piene di pesticidi e antibatterici. Noi mangiamo vegetali e animali nutriti a suon di antibiotici e diserbanti e, a un livello più alto, gli dei – e i mostri marini – mangiano noi, che ci auto-diserbiamo con pasticche e polverine. Il grande ciclo dell’esistenza.

I tre posarono i bicchieri vuoti sul tavolo e si avventarono voracemente sul buffet.

Quattro generazioni di esseri umani chiusi dentro un locale arredato senza buon gusto, a mangiare fino a sentirsi male. Qualcuno era già al dolce, altri masticavano ancora pezzi di calamaro e riso basmati di terza categoria. Questo era il segreto della formula All You Can Eat. Il fatto che ognuno potesse mangiare quello che voleva, nell’ordine e nel modo che più lo aggradava. «Che cosa stai mangiando? Una torta al cioccolato. E dopo che cosa mangerai? Delle chele di granchio fritte nello strutto.» Ogni cosa appare reversibile. Non ci sono scelte da compiere né problemi da affrontare con soluzioni binarie. Si può sempre tornare indietro. «Preferisci il sashimi o le costolette di maiale? E se prendessi entrambi? Risposta esatta. Ecco in omaggio degli involtini primavera.» Il tempo si ferma. Le persone non sono qui per nutrirsi, ma per gustare un briciolo di infinito, un’idea di immortalità. Il piatto che sto mangiando sa del piatto che ho mangiato prima e saprà del piatto che mangerò dopo. L’All You Can Eat aiuta la coniugazione.

Gli anziani e il giovane-anziano si stavano godendo il loro momento ecumenico di nutrizione. Tutti i farmaci ingeriti stavano agendo all’interno delle loro viscere: lavoravano per il loro benessere. Una pillola per aumentare l’appetito. Un’altra per non mangiare troppo. Una polverina per dormire a lungo. Un’altra per non dormire affatto. Il corpo supera i suoi limiti e istituisce un regime di equilibrio. Camminiamo sospesi tra la ribalta e la fossa dei leoni.

Il bancone al centro della sala sembrava un altare sacrificale o una pompa di benzina. Traiettorie infinite attraversavano i suoi lidi e infinite mani toccavano con avidità le sue prelibatezze. Il cameriere di prima guardava annoiato una televisione che sovrastava l’acquario dei pesci esotici. Sbadigliò e si guardò intorno, domandandosi se qualcuno avesse ancora bisogno del suo sorriso bionico. Tutto sembrava scorrere. Nessuno bramava la sua presenza. Erano tutti intenti a masticare. Era commestibile? No. E allora che andasse pure a farsi fottere. Estrasse un pacchetto di sigarette dalla tasca e uscì a fumare.

«Dai, ingoia!» Al centro della sala, un grande tavolo ospitava un gruppo di adolescenti che si sfidavano a colpi di grassi idrogenati e alcolici di pessima qualità. Grazie a una qualche evoluzione della psicopatologia sociale, quello che tra loro si fosse ingozzato in maniera più plateale sarebbe stato insignito del più alto grado nell’instabile piramide sottoculturale del machismo. Da qualche minuto, il bambino della limonata li stava osservando con curiosità e ammirazione. Aveva per le mani un budino al caramello, ma lo mangiava con molta calma, gustandosi i comportamenti degli adolescenti e prendendo nota inconsciamente. Non preoccuparti, caro. Tra pochi anni tornerai in questo posto con i tuoi amichetti tutti ormoni e appetito. L’unica differenza sarà che al posto di chiederti dove cresce la limonata, ti domanderai dove crescono le anfetamine. La bambina aveva scoperto sul tablet della mamma una popstar più giovane di Madonna trovando un nuovo esempio di femminilità da seguire. I due anziani si stavano lamentando di aver mangiato troppo. Il marito, senza farsi notare, buttò giù un’altra compressa di Chalis, così, per scaramanzia. Il figlio guardava l’immagine dei Pirenei, pensando a qualcosa di indecifrabile e oscuro.

La situazione attorno al tavolo degli adolescenti cominciava a farsi bollente. Un poveretto grassottello e butterato – quasi sicuramente l’anello debole del gruppo, l’incurabile gregario, l’eterno secondo – stava fermo davanti al suo piatto che conteneva un’ultima, enigmatica, coda di gamberone al vapore. Gli altri lo guardavano divertiti e lo incitavano, dandogli pacche sulla schiena e facendo allusioni esplicite che istituivano una proporzione tra la sua voracità e le dimensioni della sua mascolinità.

«Dai, finiscila. Ne manca solo una». «No» rispose quello, ruttando. «Non ce la faccio più. Mi viene da vomitare.» Brusio di delusione. Le ragazze, poco interessate alle sfide fallocentriche ma sempre pronte per gustarsi la quotidiana dose di altrui umiliazione, commentavano ad alta voce: «Ma che uomo sei? Tante storie per un gamberone». Era al centro dell’attenzione. Sudava. E il suo sudore doveva avere l’odore di un bordello cambogiano, vista la quantità di totani al curry che aveva ingurgitato. La tavolata si strinse ancora più intorno alla sua figura, precludendogli ogni possibile via di fuga. Nella vita vanno fatte delle scelte. Desistere, confermando l’opinione che tutti avevano di lui – lui compreso – che lo vedeva come un timido e perdente grassottello, oppure continuare, ingoiando l’ultimo boccone amaro che, nel profondo del suo cuore, sperava lo avrebbe elevato al rango di protagonista della serata. La prima era una scelta per la salute. La seconda una scelta per la gloria. «Dai, ce la puoi fare!» Ingoiò. Il poster di Obama osservava la scena, esprimendo tacito assenso, mentre le lettere nitide dello slogan troneggiavano sul grande salone, simili a moniti scolpiti a fuoco nella pietra: Yes, We Can!

Ce la possiamo fare. Quell’adolescente ce l’aveva fatta. Tutte le persone rinchiuse in quel ristorante avrebbero potuto farcela. Ognuno era seduto da ore a mangiare solo per dimostrare a sé stesso che ce l’aveva fatta. Il corpo supera i suoi limiti e istituisce un regime di equilibrio; è l’equilibrio dell’azione collettiva, la pratica dell’empatia sociale. Il tacito bisogno di comprensione che si risolve nello specchiarsi nelle mancanze dell’altro. Tutti quei vuoti da riempire si colmavano nella nutrizione illimitata, nell’anarchia sado-alimentare del poter esprimere la propria mancanza d’amore all’interno di un’esperienza condivisa.

Che ci facciamo qua? Ammettiamo la nostra umanità, mangiando. Quel ristorante era un tempio. L’All You Can Eat il suo rituale. Il cameriere dalla mascella ipertonica il suo sacerdote, il vescovo di quel sogno americano – giapponese? coreano? vietnamita? – che chiamiamo possibilità.

Mangia finché puoi perché tornerà la fame.

Mangia finché puoi perché arriverà la guerra.

Mangia finché puoi perché altrimenti lo farà il tuo vicino (il piatto del vicino è sempre più ricco).

Mangia finché puoi perché sei figlio dell’emergenza atomica.

Mangia finché puoi per non sprecare tutto questo cibo (pensa ai bambini africani).

Mangia finché puoi per tonificare la mandibola. Mangia finché puoi perché per venti euro tutta quella roba quando ti ricapita. Mangia finché puoi perché semplicemente puoi.

Yes We Can Eat All We Can Eat.

Il grassottello corse in bagno a vomitare mentre gli altri adolescenti se la ridevano di gusto. I due anziani scossero la testa in segno di disapprovazione. Il figlio rimaneva immobile con in mano una pillola di Xanax. Gli adulti del primo tavolo parlavano di fede, scomodando Sant’Agostino. La bambina con la corona di plastica si immaginava madre. Il bambino della limonata si era addormentato e stava sognando di abbuffarsi.

Il cameriere si avvicinò al tavolo, sfoderò il suo sorriso bionico e chiese, indicando il mio piatto: «Ha finito? Posso portare via?». «No» risposi. «Credo che prenderò ancora un po’ di pesce».

«Come preferisce. Mangi quanto vuole» disse, voltandosi.

Sul retro della sua maglietta, Elvis sorrideva: We Had A Hero.

Avevamo degli eroi, certo, ma adesso sono tutti morti.

Uccisi dalla gotta, probabilmente.

 

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Foto di <a href=”https://pixabay.com/it/users/ryanmcguire-123690/?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=742766″>Ryan McGuire</a> da <a href=”https://pixabay.com/it//?utm_source=link-attribution&utm_medium=referral&utm_campaign=image&utm_content=742766″>Pixabay</a>