Un racconto di Ilaria Parlanti

Uno.

Due.

Tre.

I secondi del sollievo.

Ma già l’attendo.

Eccola, arriva.

La staffilata prende l’intera lunghezza della gamba, da un punto infinitesimale del gluteo sinistro fino alle prime dita del piede. ha una sua traiettoria, sempre la stessa, come un dardo che taglia la gamba a metà. Uno spacco con ciò che c’è stato prima e ciò che invece, malauguratamente, c’è adesso. Un sussulto mi pervade, uno spasmo che trascina con sé i cuscini, imbracature del mio paracadute. Uno sotto la curva lombare. Uno sotto il ginocchio. Uno a sollevare la caviglia. E adesso, ancora e ancora, lo schema si è spostato, ma io non posso muovermi.

Aspettate. Arriva.

Impiega sempre qualche frazione di secondo in più, forse perché il bagliore che la accende, quella prima fiamma timida, ha bisogno di benzina prima di appiccare l’incendio.

Ed ecco il fuoco, il dolore si tinge di scarlatto.

Una vampata che arde sicura – temeraria oserei dire – distrugge tutta l’erba neonata che ostinatamente pianto nel mio corpo, scivola dentro l’epidermide, brucia tutto: i muscoli, i tendini, i nervi.

Non rimarrà niente, se non cenere.

Ma dalla cenere siamo venuti e torneremo, così c’è scritto sulla porta del cimitero del paese.

Allora è vero ciò che penso da otto mesi: sono morta e questo è l’inferno. Ho meritato una punizione esemplare. Ho molte colpe, ma una – la più grande – è che non ho ceduto. Il mio cuore ha continuato a battere forsennato ventitré anni fa, quando non avrei dovuto vedere l’alba nemmeno del terzo giorno di questa esistenza così strana e crudele. Io sono sopravvissuta. Ma anche deceduta. E adesso sono qui, inchiodata a questo letto dalle catene di un dolore che chiamano cronico. La vita non sarà più la stessa. Mi scivola una lacrima dal dotto ottico dell’occhio destro. Vedi come mi sono divisa in due emisferi  perfetti? Il sinistro diventa incandescente e brucia. Il destro, per pietà, piange.

Un rantolo mi esce dalle labbra semichiuse. È la rabbia che non riesco più a controllare. Prende forma così, in un suono che di umano ha poco, se non l’irruenza.

Tasto il letto alla ricerca smodata di qualcosa. Alla fine lo trovo: il cellulare. Accendo lo schermo, le dita ormai digitano da sole la password. e poi accedo alla rubrica, sebbene sia sera, sebbene faccia buio, anche in questa estate in cui ho ucciso il canto dei grilli con urla di dolore. Non è l’ora di chiamare qualcuno, soprattutto lui. Ma io lo facccio lo stesso, perché non ho più il pudore delle convenzioni. Il dolore mi ha mangiato anche quello.

Squilla. Attendo e intanto maledico la mia gamba, la schiena, qualsiasi cosa faccia parte del mio corpo. Fisso il telefono, “Andrea, chirurgo” che mi guarda minaccioso, come a dirmi: “cosa vuoi che ti dica?”.

Poi, quando ormai le speranze mi stanno per abbandonare, sento la sua voce, tranquilla, paterna, con una nota di divertimento impressa nel tono.

«Pronto.»

«Ho dolore.» Non dico altro, perché ogni parola è superflua quando soffri.

«Che tipo di dolore è?»

Ancora. Gli stessi aggettivi. Urente, tagliente – avvilente, vorrei dire – ma questo a lui non interessa.

«Parestesie?»

«Formicolii.»

Ci ho messo del tempo a capire cosa fosse una parestesia. Forse perché a ventitré anni non si dovrebbe avere un certo tipo di vocabolario. Io, invece, anticonvenzionale come sono, me lo sono addirittura cucito sulla punta della lingua. Così lo so elencare velocemente, a bruciapelo, quando me lo chiedono i camici bianchi.

Ridotta sensibilità al calore, al freddo, alla punta degli spilli, formicolii. In generale, parestesie. E so che non me le invento, perché i risultati dell’elettromiografia parlano chiaro. Lampante, ha detto il neurologo: i nervi sono compressi alla radice. E non di una gamba, bensì di entrambe, in un tango appassionato che ballano insieme.

“Cazzate” ha detto Andrea nel suo studio, tempo fa. “Cazzate” mi sono detta io, nell’intimità delle mie notti da ossessionata pazza febbricitante ipocondriaca. Ipocondriaca no, che cazzo! Come dice la terapeuta? La mia ansia deriva da una situazione reale, quindi è una risposta reattiva. Il pericolo è reale. Il rischio è reale.

Per me vuol dire solo che perderò la gamba.

«Non ci può essere compressione. Abbiamo tolto tutto, il pezzo d’osso che sporgeva lo abbiamo limato, abbiamo tagliato il ligamento giallo, le lamine vertebrali le abbiamo seghettate, adesso i nervi hanno il posto che si meritano» dice Andrea, sicuro.

Il posto che si meritano, penso. Non accosterei mai il concetto di “merito” alla mia colonna vertebrale. Ma tant’è, non sono io che decido.

«È passato un mese» continua lui, credendo che io lo ascolti davvero. Lo so quanto è passato. Lo so dalla nuova cicatrice che pulsa alla base della schiena, ci sono ancora i punti neri che si devono staccare. La carne è tenuta insieme da quel filo spesso e io penso che questa cicatrice sarà la più brutta di tutte. Perché è quella che ho voluto meno e insieme di più. E quando le cose si vogliono e non si vogliono allo stesso tempo cadono nel limbo. Il limbo è fatto di grigio, non sei né bianco, né nero. Il filo dei punti è nero, la pelle è bianca. La cicatrice rimarrà una chiazza grigia, non come le altre che risplendono della luce del bisturi. Questa nuova è fatta con il laser, dai robot. E allora è grigia, un pezzo di metallo. Un metallo che fa ruggine. Un metallo che imputridisce e fa infezione. E l’infezione mi è arrivata al cuore.

«Andrea, perché allora ho ancora il dolore?» gli chiedo, con un fil di voce. Perché adesso sono costituita di fili recisi.

«Non posso fare una diagnosi al telefono.»

«Ma certo» dico a lui, ma più a me stessa. Perché non studiano quindici anni per dare risposte, loro. No.

Per un attimo ci abbraccia il silenzio.

«Ho un’idea» esordisce, mellifluo. «Ma non ti piacerà» continua, riprendendo una serietà che mal si addice al suo carattere, ma lo riporta nel suo ruolo primordiale di medico impietoso.

Rimango muta, un fruscio nella comunicazione mi porta ad allontanare il telefono dal timpano.

«Si chiama “memoria del dolore”.»

«Memoria del dolore?» lo interrogo, come una bambina al primo giorno di scuola.

«Sì. I centri neuronali che controllano l’esacerbazione, il proseguirsi e la cessazione del dolore, che sia di tipo nocicettivo o neuropatico, sono gli stessi che si attivano durante emozioni negative particolarmente intense.»

«Cosa stai cercando di dirmi? Che sono pazza?» gli urlo.

«Quand’è l’ultima volta che hai pianto?»

«Io non piango mai.»

La mia è una bugia bianca, ma la verità non è poi così distante. Piango solo dall’occhio destro, perché tutta la parte del mio corpo che sta a destra è debole e fallace. Il braccio, che non alzo più. La gamba, che si muove a scatti. Il ginocchio, che ruota all’interno durante il passo. Il piede, che perde l’arco naturale per appoggiarsi a terra. Non c’è niente di giusto nella mia destra. Tutto è artificiale. E la natura ha dovuto adattarsi, cambiando rotta. Non glielo dico ad Andrea che mi hanno ridotto così i suoi colleghi francesi. Perché lo so che se la prenderebbe. La lezione che ho imparato dagli ospedali è che è obbligatorio essere grati a chi ti salva la pelle.

La lezione che ho imparato, invece, dalla rabbia di infante è che prima te la salvano e poi non ti dicono come usarla. Cos’è, una muta di serpente? Prima o poi mi spellerò, viva, e tornerò quella di prima? O è forse il guscio di una lumaca, senza il quale sarei alla luce di mille pericoli?

«Pensaci. I bambini come te, con più di venti operazioni alle spalle, hanno delle attenuanti anche se fossero assassini.»

«Ventiquattro, prego» preciso, perché la matematica è importante. Lo insegna la scuola.

«Prendi i farmaci. Dormi. E rifletti» mi dice, prima di attaccare.

Di queste tre prescrizioni ne ho recepite solo due, perché il mio cervello filtra ciò che vuole sentire. I farmaci, con cui ho ormai un rapporto di dipendenza. Ho sempre paura che finiscano, tengo pile e pile di ricette e scatole impilate nel mio comodino, dove prima riponevo i libri in lettura. Non leggo più niente che non sia un bugiardino di qualche veleno. È dolce lo scivolare nell’inconsistenza degli antidolorifici. Adoro il Toradol. Venti gocce – lo so, non giudicatemi, è una dose elevata per il mio peso, si dava al nonno quando stava per morire di tumore – e il sonno arriva leggero. Questa è l’altra prescrizione che metto sempre in pratica. Dormi. Il sonno è come la morte.

Lì, il dolore non mi trova.

«Mamma, è l’ora!» urlo, per farmi sentire dalla cucina. Sono otto mesi che non metto più piede in cucina, o per meglio dire, in qualsiasi altra parte della casa che non sia la mia camera e il bagno che dista a pochi passi. Sono otto mesi che consumo i miei pasti a letto. Sono diventata scheletrica, perché i muscoli si sono atrofizzati. Si contano le coste della mia gabbia toracica, anche quelle che non si sono formate durante la gravidanza. Al loro posto, una rientranza, un foro sotto al seno destro. Che corpo è questo, mancante di pezzi! Mi ripeto spesso, senza mai darmi una risposta. È la patologia, mi direbbe Andrea. È la malattia, mi dico io. La patologia è qualcosa di statico, di immutabile nel tempo. La malattia, invece, corre veloce e io non riesco a starle dietro. Ha vinto molte volte, nel suo essere degenerativa.

Ma adesso arriva mia madre con la Terra promessa: la tazzina bianca da caffè sbeccata nelle mani, il contenuto dolciastro all’interno. Già pregusto quella prelibatezza che danzerà sulle mie papille.

Eppure, c’è qualcosa di strano, un odore che non mi apre le porte dell’abitudine.

«Il Toradol è finito. Questo è un generico» si scusa mia madre, porgendomi la tazzina. Mi guarda, ma non mi guarda, mia madre. Lo sguardo è fisso su di me, tuttavia mi trapassa e va oltre. Va oltre a vedere il futuro di una disabilità che distruggerà tutto. E in quel futuro vede sprazzi di passato. Un test di gravidanza positivo. Gioia. Tempo di annunci. Abbracci. Illusione. Ingenuità.

Mi porto al naso quello schifo, pensando a come posso protestare senza sembrare capricciosa.

Poi succede. Tutto insieme, all’improvviso. L’odore è di fragola. Io non mangio le fragole.

«Tutti i bambini mangiano le fragole» mi disse il padre di una mia amica.

«Io sono allergica. Mi si gonfia la lingua e divento tutta rossa, a pois» gli risposi.

Non è vero che sono allergica alle fragole. È una delle tante bugie che dico per proteggermi da domande inopportune. È più facile, così. Non mangio le fragole, non le ho mai mangiate. Da quel maledetto giorno. È bastato un odore per farmi sprofondare di nuovo nell’abisso. Funziona in questo modo la memoria umana. Le cellule neuronali sono come ramificazioni di uno stesso albero e raccolgono gli stimoli che provengono da tutti e cinque i sensi. Scattano come trappole per topi e tu non puoi fare niente per frenare il meccanismo. Quando un impulso è inviato – una sinapsi – la catena ha preso avvio e tu scendi, sempre più veloce, dai più piccoli rami che sfiorano il cielo alla terra scura, alle radici di quel tronco che è la vita umana.

I ricordi vivono sottoterra, come i morti. Tu pensi che non vi arrivi la luce, ma i fotoni sono più furbi e trovano gli spiragli più disparati.

È un’illuminazione. Sono qui, al varco che ho visto tante volte nei miei incubi. Eppure stavolta è diverso. Sono sveglia. Sono io.

Ho otto anni e l’agitazione mi invade il corpo e la mente. Non riesco a tenere fermi i piedi, che fanno capolino dal lenzuolo giallo troppo corto. Ho freddo, tremo. Forse è la paura, mi dico. Da quando le porte rosse delle sale operatorie si sono aperte al mio passaggio e richiuse dietro le ruote posteriori della barella, non ho più la mano della mamma che mi dà conforto. Non ho più i suoi occhi scuri che mi dicono “ce la fai, stai tranquilla”. Non ho più i suoi capelli ricci e neri che mi solleticano le guance quando si china a darmi un bacio sulla fronte.

“Non piangere” mi ha detto. È quello che faccio da allora. Tremo dal terrore, ma non piango, aspetto che il barelliere mi porti nella stanza che hanno organizzato per il mio intervento. Sento le ruote che scivolano veloci sul linoleum grigio, una brezza glaciale mi investe le mani, il viso, mentre il corridoio passa davanti al mio sguardo e scappa via. Mi hanno già posto le domande di rito, tutte in francese. La mamma mi ha insegnato a rispondere, anche se a volte non ricordo l’esatta pronuncia. Allora i camici verdi fanno finta di non capire, mi prendono il polso e leggono il cartellino di plastica che mi hanno attaccato quando sono entrata in questi sacri recinti. Sì, perché questo, in fondo, è come una stalla. Noi siamo le piccole mucche che portano al macello, tutte marchiate con un numero di serie.

Tanti mi dicono che non dovrei avere più paura, visto che ripeto questa operazione due o tre o quattro volte l’anno, sempre nello stesso modo, sempre nei soliti posti. Vi sfido a non aver paura. Qui si prega alla luce delle lampade scialitiche e non delle candele. Si prega di chiudere gli occhi il prima possibile e di riaprirli dopo ore, immemori del passato. Ma è un gioco a dadi. C’è chi li chiude e li riapre. Chi, invece, li serra per sempre.

L’anestesia mi ha sempre gelato il sangue. Con una dose troppo bassa ti svegli mentre sei squartato su un tavolo operatorio, con un tubo in gola che ti permette di respirare. E se te ne danno troppa… be’… per fortuna non mi è capitato. Mi direte: ti devi fidare proprio tanto di questi francesi, per farti fare queste cose così assurde.

Eccoci, siamo davanti alle porte. Sono arrivata, questo è il mio capolinea. Cerco di scacciare ogni pensiero, ma un conato di vomito mi sale in bocca e sputo succhi gastrici – sono a digiuno dalla mezzanotte di ieri sera – sulla veste blu operatoria. Non hanno un secchio o qualcosa del genere. Se ti scappa, ti vomiti addosso.

Il barelliere mi guarda per un po’, io con la bocca e i denti sporchi dal giallo della saliva. Non è uno spettacolo inusuale, scrolla le spalle e poi frena la lettiga sul lato del muro macchiato di umidità. So cosa vuol dire quel gesto: non sono ancora pronti.

Infatti, il barelliere mi dice qualcosa che io non capisco, ma lo interpreto con “non ti muovere” – come se potessi scappare da qui! – e poi apre con il gomito la porta della sala operatoria.

Un tanfo di fragola mi invade le narici, il disinfettante di quei posti mi ha sempre disgustato. Vomito un’altra volta, poi do un colpo di tosse. Chiudo gli occhi e penso all’Italia, ai nonni, agli zii, a mio fratello. Penso che se questo fosse il mio ultimo parto della mente, vorrei dire loro che voglio bene a tutti.

Riapro gli occhi. Li tengo fissi sul soffitto per un po’, poi ho il coraggio di farli vagare per il corridoio. Un sacco di suoni mi arrivano alle orecchie dalle altre stanze: trapani, frullini, voci, musica. Sembra il cantiere di mio padre.

Solo allora mi accorgo che al muro opposto sosta un’altra barella. C’è un corpo sopra, coperto dalla testa ai piedi da un lenzuolo bianco. Ingenuamente mi chiedo come faccia a respirare, poi mi rendo conto. Non ha più bisogno di aria. Sarà un maschio o una femmina? Quanti anni avrà?

Assomiglia adì un sudario, – non mi viene il nome della Sacra Sindone – ne ho visti diversi nei pellegrinaggi che facciamo in famiglia. Tutti chiedono la mia guarigione, e forse l’hanno chiesta anche per lui. O lei.

So che dovrei voltare lo sguardo, ma non ci riesco. Osservo tutte le pieghe che il tessuto prende intorno al corpo.

Fino a che, in un lampo che non mi spiego, quello stesso corpo scatta su a sedere e il lenzuolo scivola via.

Apro la bocca per urlare, ma non mi esce niente. Sgrano gli occhi, sento il cuore che pulsa all’impazzata nelle arterie, mi volto su un fianco per vedere meglio.

È un maschio, pallido come il lenzuolo stesso. Ha il capo rasato e gli occhi infossati, è magro più di me. All’improvviso mi viene il nome: Théo! L’ho visto ieri che si aggirava in reparto. Non ci ho scambiato nemmeno una parola, ma poco importa.

Lo guardo e anche lui volta il viso nella mia direzione. Mi sorride, come a dirmi “non avere paura”.

«Chi sei?» gli chiedo, a bruciapelo.

«L’agnello del mondo» mi risponde e la cosa che più mi stupisce è che effettivamente lo comprendo. Parliamo la stessa lingua: quella dei malati.

Per un attimo mi interrogo se non sia Gesù Cristo che morì e fu sepolto e il terzo giorno è resuscitato secondo le scritture. C’è davvero Cristo tra di noi? E si manifesta a me, che prego solo quando me lo dice la mamma?

«Che cosa hai fatto?» gli chiedo, ancor più incuriosita.

«Sarcoma. Quarto stadio» mi dice, tranquillo. Lo so cos’è un sarcoma perché il mio chirurgo li opera.

«Arriviamo al punto, non ho molto tempo e nemmeno tu. Stanno per venire a prenderti» continua, frettoloso. Lo ascolto, stranamente senza paura. Lui è uno che ha sofferto, proprio come me.

«La malattia non si sceglie e nemmeno chi vive e chi muore. Non hai colpe» mi dice, serio.

«Lo so che non ho colpe!» ribatto, offesa.

«Non è vero che lo sai. Farai di tutto per rovinarti la vita. Ti sentirai sempre in debito con me, che sono morto» mi spiega, paziente.

«Io non…» lo interrompo, ma lui mi fa un gesto con la mano per zittirmi.

«Ti chiedo solo questo, a nome di tutti gli altri. La malattia è fatta di percentuali. Siamo come numeri primi, ognuno è diverso dall’altro e non divisibile se non per se stesso e per uno. Tu sei uno, ma rappresenti l’intero: tutti noi. Vivi. Vivi anche per noi che siamo morti. Vivi una vita che sia degna di questo nome e quando arriverà il giorno del trapasso, noi ti accoglieremo a braccia aperte e ti ringrazieremo per il tuo lavoro: aver vissuto insieme a te un’adolescenza, un’età adulta e una vecchiaia. Che questo sia il tuo destino. Amen.»

Parla così, ma non ricordo altro. Solo un puzzo di fragola che invade tutto.

Ho ventitré anni. Gocce di sudore mi imperlano la fronte.

Uno.

Prendo un respiro profondo dal naso e tutto il male del mondo mi riempie i polmoni.

Due.

Espiro dalla bocca l’aria e, insieme  essa, allontano tutto il male del mondo.

Tre.

L’attendo.

Eccola, arriva.

E, invece, silenzio.

Due lacrime mi sgorgano dai dotti ottici.

Questa volta da entrambi gli occhi.

 

Ilaria Parlanti

Ilaria Parlanti (1997) è una scrittrice, sceneggiatrice, poetessa, attrice e attivista per i diritti di disabilità toscana. Trascorre l’infanzia e la prima adolescenza divisa tra il suo paese natale e Parigi, a causa della sindrome di Jarcho Levin curabile soltanto nella capitale francese. Ed è soprattutto nei corridoi degli ospedali che si appassiona in tenera età alla letteratura, prima come avida lettrice di romanzi e grandi classici, poi anche di componimenti poetici. Dai dodici anni partecipa regolarmente a concorsi letterari nazioni ed internazionali, venendo menzionata in oltre 300 segnalazioni. Nel 2017 viene selezionata tra i 150 autori che partecipano all’Enciclopedia della Poesia contemporanea ad opera della Fondazione Mario Luzi. Nel 2019 partecipa come coautrice ed attrice al cortometraggio “Come un uragano senza identità” della regista toscana Roberta Mucci. Scrive soggetto e sceneggiatura anche di un altro cortometraggio, dal titolo “Circling paths”, una produzione di FilmIn’Tuscany, premiato in festival internazionali, da Los Angeles all’Ucraina. Nel maggio 2020 scrive il monologo “Invisibili” (recitato da Ivo Romagnoli) contro la violenza sulle donne durante la quarantena. In pochi giorni varie riviste parlano del monologo che raggiunge più di 300.000 visualizzazioni su Youtube.

Nel 2021 esordisce con “La verità delle cose negate”, Arsenio edizioni. Il romanzo, che tratta il tema della disabilità, riceve numerose critiche positive sui social e dalla stampa. Attualmente sta scrivendo la sceneggiatura tratta dal libro insieme all’aforista Michele Cioffi e all’attore e doppiatore Michele D’Anca.

Nel 2022 partecipa come giurata al premio nazionale di poesia “Il fiore”.

Nel 2023 partecipa al CasaSanremo writers, la rassegna culturale del festival di Sanremo, scelta da Michele Cioffi, dove vince una menzione speciale con il romanzo.

Pubblica la raccolta di poesie Parigi è stata uccisa, edita da Dialoghi.

Scrive il suo primo lungometraggio, L’Arcano, per la produzione Cinema Set di Antonio Chiaramonte, le cui riprese inizieranno nella seconda parte del 2023.

Entra a far parte come collaboratrice della neonata rivista culturale Q-Cultura, dove si occupa di interviste.

Scrive di libri, di cultura e di disabilità sui social, dove ha un pubblico di oltre 5000 followers.

Diventa allieva della Bottega di Narrazione, durante la quale nasce questo racconto, Lacrime, con la supervisione di Giorgia Tribuiani ed Elisabetta Foresti.

 

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