Un Natale in compagnia
di Elisa Mantovani
Gianni aspetta: ha visto cadere il portafoglio mentre l’uomo cercava di infilarlo nella tasca dei pantaloni.
Se ne sta davanti al negozio da dove è appena uscito carico di doni, uno di quei negozi che per entrarci devi presentare l’estratto conto alla commessa.
L’uomo è ancora davanti alla vetrina, guarda un ciondolo grande come un uovo che manda riflessi accecanti poi, finalmente, se ne va. Nessuno lo ha visto, il portafoglio. Sono tutti impegnati a rincorrere quell’atavica, insana idea inculcata nelle loro menti fin da quando erano nel grembo materno: Natale = regali inutili, cene e pranzi come se non ci fosse un domani e tanta, tantissima ipocrisia.
Gianni si avvicina all’oggetto dei suoi desideri, circondando con le scarpe. Deve essere pieno di soldi, se lo sente. Guarda il gioiello in vetrina e il prezzo di quell’uovo opalescente è come un pugno in faccia: trecento euro. Trecento euro per portare al collo quella pietra che darebbe lavoro garantito a un fisioterapista.
Un bambino lo urta e, malgrado sua madre cerchi di trattenerlo afferrandolo per un braccio, sembra un piccolo Attila. La giovane donna guarda Gianni con l’espressione di chi è sull’orlo di una crisi di nervi, poi lo oltrepassa, confondendosi nella bolgia. Bolgia: è proprio il termine giusto. Andare in centro il giorno che precede il Natale è come ritrovarsi nel bel mezzo degli inferi, per giunta senza Virgilio a darti sostegno.
Non si è reso conto di avere spostato un piede: adesso il portafoglio lo potrebbero vedere tutti. Si piega ma perde leggermente l’equilibrio, appoggiandosi alla vetrina. Non fa in tempo ad afferrarlo che una ragazza gli si avvicina: sembra agitata e Gianni inizia a sudare freddo.
«Si sente male?» gli chiede e, malgrado sia ancora in quell’assurda posizione, Gianni tira un sospiro di sollievo. E’ una bella ragazza, mora, con le guance arrossate dal freddo.
Gianni si abbassa velocemente, prende il portafogli infilandolo nella tasca del giubbotto. Lei gli sorride, piccoli sbuffi bianchi le escono dalle labbra socchiuse; non ha visto il portafoglio, dato che aveva continuato a tenerci sopra le scarpe e, malgrado sia un po’ arrugginito, è stato rapido nel farlo sparire dentro la tasca: non si è accorta di nulla.
«Un piccolo capogiro. Tutta questa confusione in effetti mi stordisce» le dice e sente un calore improvviso, partire dallo stomaco e irradiarsi fino al volto. Lei sorride ancora, lo guarda: non se ne va.
Che gentile, pensa fra sé, gentile e bellissima tra l’altro: erano secoli che qualcuno non gli prestava attenzione e adesso… Questa ragazza sconosciuta non solo si è preoccupata vedendolo piegato a terra e leggermente infermo sulle gambe (troppe ore sul divano, pensa) ma continua a sorridergli come un angelo.
«Sei stata davvero molto gentile. Posso offrirti qualcosa? Non so, un caffè… Forse qualcosa di caldo farebbe bene a entrambi» le propone e si passa una mano sulla fronte: meglio fingere di non essere completamente in forma; in fondo non gli costa nulla recitare la parte della vittima: lo è, lo è sempre stato.
«Non deve disturbarsi»: non deve, mi da del lei, pensa affannosamente Gianni e la cosa lo mette a disagio «… Comunque sì: una bella cioccolata calda farà bene anche a me, grazie!» continua la ragazza con entusiasmo, tanto da farlo trasecolare per l’emozione improvvisa.
C’è un bar, proprio vicino al negozio, una sorta di piccola isola in quel mare di corpi. Pensa, mentre si incamminano, che in tasca ha solo tre euro. Poi un flash: il portafoglio che ha rubato! Al tatto sembra gonfio di soldi, una sensazione che gli riempie il cuore di gioia.
La ragazza si chiama Elena. Un bel nome se non fosse che anche sua zia si chiamava così: un donnone che sembrava un’idrovora, pronta a risucchiare con quella sua bocca perennemente aperta tutte le energie del mondo. Scaccia subito quell’immagine.
Gianni si dirige verso l’unico tavolino libero. Arriva subito il barista, mentre Elena si toglie la lunga sciarpa. Gianni la guarda, come se stesse ammirando per la prima volta l’aurora boreale: a bocca aperta.
Lei se ne accorge, sorride e gli chiede: «Cosa c’è?». Ha una voce soave e lui arrossisce ancora di più, limitandosi a ricambiare il sorriso.
Ordinano due cioccolate in tazza con panna. Non ne prendeva una da tempo immemore, e sentire quell’aroma voluttuoso avvolgergli il viso lo catapulta per alcuni secondi nella cucina di casa sua, quando c’era ancora sua mamma e gliela preparava: un ricordo che gli provoca una leggera fitta di malinconia.
Adesso che è al calduccio con Elena di fronte potrebbe rilassarsi, invece sente la vescica premergli nell’addome come se stesse per esplodere. Lei inizia a parlare e la parlantina di certo non le manca: è una studentessa di psicologia, è venuta a trovare i parenti per Natale come fa ogni anno, abita a Padova da due anni ma le manca sempre tanto la sua città e blablabla…Gianni fatica a seguirla: è concentrato sulla vescica, cerca di convincerla a starsene buona, a smetterla di lanciargli fitte preoccupanti, ottenendo l’effetto contrario.
Si guarda intorno, mentre Elena parla del suo cane e, finalmente, intercetta il bagno: è in fondo alla sala, semi nascosto da un attaccapanni carico di giubbotti.
Gli sta raccontando che adora la neve, che le piacerebbe tanto nevicasse in quei giorni, quando Gianni si alza.
«Scusami, devo andare alla toilette.» le dice senza tanti preamboli: la situazione è da allarme rosso. La lascia mentre soffia sulla cioccolata che, malgrado sia arrivata già da diversi minuti, continua a essere incandescente.
Il bagno fa schifo, ma non importa. Se ne sta a godersi la liberazione, sentendosi leggero come non mai. Sarà finalmente un bel Natale, un Natale stupendo, pensa. Elena: un miracolo, come in quei film melensi che in questo periodo ammorbano la televisione. Magari quando andrà a casa se ne guarderà uno di quei film e, magari, con Elena accanto.
Quell’idea gli provoca un pizzicorino in tutto il corpo, simile a quello che ha provato prima col portafoglio, ma stavolta più profondo, eccitante. Si lava le mani nel piccolo lavandino incrostato da millenni di saponi scadenti, e fissa lo specchio.
Pensa che malgrado abbia quarant’anni sia ancora appetibile però Elena è giovane, troppo forse. No: basta con le negatività, sussurra alla sua immagine e continua a guardarsi. Non ha un capello bianco, pochissime rughe e denti perfetti. L’unica cosa a stonare è il doppio mento, un regalo di suo padre: era magro come un chiodo ma col doppio mento, e debiti ovunque i suoi enormi piedi si fossero posati. Ecco cosa ha ereditato Gianni da lui: piedi enormi, doppio mento e debiti a non finire.
«Grazie papà!» dice mestamente rivolto alla sua immagine.
Elena: ora c’è lei, deve pensare solo a lei.
Torna nella sala. La gente ora preme sul bancone. Non riesce a vederla, è stata fagocitata dalla folla che piantona nel bar; un branco di ragazzini rumorosi occupa gran parte dello spazio che lo divide dal loro tavolino.
A fatica lo raggiunge e si accorge di sudare. Incredibile come tutti quei corpi producano calore, meglio di una stufa a tutto gas.
Il tavolino è vuoto: Elena non c’è.
Non c’è la lunga sciarpa, che aveva appoggiato alla sedia di fianco, con sopra il giubbino color ocra. C’è solo il suo, di giubbino, appoggiato sulla sedia: non l’aveva lasciato così, l’aveva appoggiato allo schienale e, di tanto in tanto, toccava la tasca dove sonnecchiava il portafoglio.
Il portafoglio!
Inizia a tastare, a infilare le mani nelle tasche con la testa che sembra esplodergli tra le urla dei ragazzini, la voce di zia Elena che improvvisamente si materializza nella sua testa a dirgli che è un perdente come suo padre.
Non c’è: il portafoglio non c’è più!
Svanito, come Elena… che magari si chiamerà Daniela, o Laura o Stronza. Stronza le sta meglio.
Guarda per terra, sulle sedie vuote, chiede in giro se qualcuno abbia trovato un portafoglio. Il barista sembra innervosirsi, un po’ per la confusione che lo circonda, un po’ perché di scene come quelle che sta facendo Gianni chissà quante volte ne avrà viste.
I ragazzini ridacchiano, penseranno al solito mentecatto che vuole fare il furbo. Anche il barista la pensa così, Gianni lo sa, lo vede da come continua a fissarlo.
«Mi ha rubato il portafoglio: la ragazza, quella che era seduta con me!» urla.
«Cosa è successo?» una voce stentorea svetta sulle altre. Gianni si gira, guarda da dove proviene: da uno dei due poliziotti che se stanno a bersi un caffè in fondo alla sala, vicino all’attaccapanni.
In un secondo gli sono accanto.
«Chi glielo ha rubato?» gli chiedono quasi all’unisono.
Sta per rispondere quando un’altra voce spezza il brusio di fondo.
«Quando eri in bagno qualcuno ha urtato il tuo giubbotto ed è caduto questo!» Elena: Gianni se la ritrova davanti, in mano ha il portafoglio che aveva rubato lui.
«L’ho riconosciuto subito!» alza la voce e lo fissa con occhi incandescenti. Gianni non capisce, confuso dalla sua espressione e dal silenzio che è piombato nel bar: tutti lo stanno guardando.
«È di mio padre: gliel’ho regalato lo scorso Natale!» continua lei fissandolo come se volesse incenerirlo; lo apre e glielo sbatte sotto il naso: incastonata nella tasca laterale c’è una foto che ritrae un uomo (l’uomo che era davanti alla vetrina) abbracciato a una bellissima ragazza: Elena.
Gianni è pietrificato, non sente tutti gli improperi che escono adesso da quelle labbra che sperava di baciare. Sente solo un «e volevi pure farmi passare per ladra!»
«La smetta signorina e lei venga con noi.» I poliziotti lo trascinano fuori mentre s’infila il giubbotto, seguiti da Elena che continua a inveire contro di lui.
«Mi sa che questo Natale lo passerà con noi» gli dice uno dei due.
Gianni non risponde. Solo un pensiero sfreccia nella sua mente come una cometa:
Almeno quest’anno lo passerò in compagnia, già: in compagnia.
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