Di Zuccalà ho letto molto: non tutto e non quanto avrei voluto leggere. C’è qualcosa nelle scelte dei suoi personaggi, nelle dimensioni proposte, nei contesti subiti che mi magnetizza. Ho ripescato, dall’anno 2011, un suo libro di racconti dal titolo – uno di quei titoli che uno che scrive vorrebbe aver pensato almeno una volta in vita sua – Il conto degli avanzi, pubblicato da Lupo editore, trovando in ventuno creazioni estese in quasi duecento pagine grossa parte dei motivi che mi legano a questa penna, adoperata per tracciare sul foglio figure apparentemente minime, dai passati nascosti e non utilizzati a movente, dai contesti elementari da cui fuggono in molti, al riparo da tutti quei maledetti compromessi che ingiaccano e ingessano senza soddisfare minimamente nessuno dei contendenti. Sono uomini che restano a casa evitando feste inesplorate, che ballano a piedi nudi davanti allo specchio, che si ritrovano in parcheggi nei quali le pistole potrebbero tornare presto a fumare.
Fino a qui – esclusa una lingua totale che matura nelle notti dei topi, delle navi e dei cuori che colano a picco, che ti individua nei momenti in cui la vita ti si soffia via dal naso – siamo ancora in regime di amministrazione regolare, con personaggi accostabili ai Colombia argentiani (ma gli intenditori hanno già, sono certo, recepito il complimento). Ciò che letteralmente mi ha fatto trasportare orgogliosamente questo libretto su treni e affini sta in una scelta coraggiosa portata avanti dall’autore fino all’ultima riga: non parliamo qui di noia sveviana, di inetti alla Musil, ma di uomini coscienti di essersi fermati in un tempo che corre. Non importano realmente i motivi, addossabili a donne scivolanti, a famiglie capovolte o a fallimenti del quotidiano: ciò che realmente colpisce, da parte di Zuccalà, sta in questa capacità di tenere i suoi fermi, con movimenti lenti e consapevoli, senza autoillusioni, in un’età che prova in mille modi ad aggrovigliarne le caviglie rendendoli parte del meccanismo. Da qui le rinascite sghembe, le lingue perse, il buio inforcato e tutto ciò che ne conviene. Io credo che uno scrittore così sia necessario, nodale, fondante, proprio perché capace di incanalare in una lingua apposita una fetta di realtà non altrimenti rappresentata.
Di seguito uno dei pezzi che più mi hanno coinvolto:
Sono belli, sì. Sono abbronzati. Sono deserti che tentano la carta della vicinanza, nell’impossibile, ancora una volta. Sono deserti che si tengono stretti per un istante. Deserti che mi pare di aver attraversato, chissà quando, chissà dove. Ecco, loro continuano a sorridere. Raccontami di questo. Raccontami le loro storie. E soprattutto, dimmi. Quelli siamo noi?