lame

LAME  – di Carmelo Modica

                       Ellep. 

Non riesci più a starci dentro. Come un vestito smesso, butteresti via la tua pelle. La faccia tagliata dal vento. Il freddo striscia come una vipera sulle strade, intorno alle piazze, lungo le arterie della città e porta con sé le ultime foglie accartocciate d’autunno, un vago odore d’inverno. Per questo hai deciso di andare a vedere un film porno. 

È un pomeriggio buio, dentro il tuo impermeabile comprato da Prada alla Galleria di Corso Vittorio.

Il cinema è un edificio incastonato nella moderna edilizia di Via Gassendi e se non fosse per le due anfore longilinee che  affiancano il tetto a spioventi e le esili fanciulle smerigliate sulle vetrate ai lati dell’ingresso non diresti  che quello è liberty. 

Entri. Ti fa strada fino alla cassa un neon pallido che ti ricorda quello del solarium che frequenti ogni sabato.

Una signora di cinquant’anni o giù di lì, la giacchetta di lana che una volta era stata di angora, lo sguardo sdrucito e le braccia avvolte attorno a un rosario che non capisci se cerca di nascondere o cosa. Le labbra mute si muovono meccanicamente attraverso la preghiera. 

“Salve.”

“Sala 1, 2 o 3?”  E poi di nuovo muta lungo spire mistiche. 

Dai un’occhiata veloce ai cartelloni sparsi lungo le pareti, i titoli piuttosto improbabili o troppo lunghi per leggerli. 

“… sala 1, 2 o 3…” ripeti chiedendoti su cosa debba basare la tua scelta.

La signora ti squadra inclinando la testa. Forse si chiede quale film possa fare per te. Osservi le sue mani e vedi che si è fermata sulla terza o quarta decina. Non vuoi trattenerla più di tanto, ti senti un po’ in colpa per aver interrotto il suo slancio pio. Ti ricomponi un attimo. 

Scegli la sala 2 perché il titolo è il peggiore di tutti e la tipa ritratta sul cartellone ha attributi che farebbero risuscitare pure tuo nonno.

La banconota da 20 euro scompare nella sua mano sinistra mentre l’altra scoroncia  ancora fra le dita il percorso verso la redenzione. Le mancano ancora poche decine, forse due o una soltanto, non riesci a capirlo. Ti porge il resto mentre forse contempla il mistero doloroso. O glorioso? Ti chiedi a quale mistero è legato quel giorno. E considerando la giornata scura come la pece pensi che non deve essere sicuramente un bel mistero.

La tenda di velluto ti cade alle spalle e il buio ti inghiotte                          nel suo umor vitreo. 

Ti lanciano sguardi: sono militari, vecchi, quarantenni fighettini con l’aria da manager che smanettano sotto la lampo dei pantaloni.

Ti tieni un po’ in disparte, come quando in spiaggia entri in acqua lentamente per familiarizzare con la temperatura. Lo schermo proietta acrobazie, prestazioni da guinness. Il doppiaggio troppo poco rispondente alle reali battute che avverti diverse in bocca agli attori. Il film è già iniziato e ti chiedi se ti sei perso qualcosa. Ti si avvicina un uomo. Ha l’aria distinta ma lo sguardo ti segnala sicuramente tutt’altro che la sua condizione sociale. Al buio, rotto solo dai fasci irrequieti di luce proveniente dallo schermo, non distingui se il suo abito sia blu o grigio.

Bella cravatta, pensi. Senza dubbio Regimental.

Latnemiger.

Ti fa un cenno che non capisci se sia un invito a prendere posto o a imboscarti con lui nei bagni. Propendi per la seconda. Ti chiedi cosa ci stai a fare lì. 

Fai per ignorarlo, attraversi il corridoio dietro le ultime file di posti e vai a sederti su quella centrale. Qualche pensionato che non sa come ammazzare i propri pomeriggi incede lungo la promenade della sala. Per errore, una cosa non voluta, guardi quello che sta passando alla tua destra. Allora pensi che guardare dopotutto sia normale in posti del genere. Forse è diretto proprio verso quello con l’abito grigio o blu e la cravatta Regimental. Invece il vecchio entra nella tua stessa fila e ti si siede accanto. Davanti a te uno stige di posti vuoti. 

Il film è un puzzle a incastri multipli. I suoni sono inintelligibili, amplificano l’ardore finto e frusto del sesso e arrivano dalle pareti scure come graffi sul velluto porpora delle tende. Volgi lo sguardo dall’altra parte, l’unica cosa che pulsa di vita propria è il lattiginoso segnale exit circoscritto da una lastra di vetro verde spezzato in un angolo e dalla piccola voragine tagliente filtra una lucina che non avresti pensato potesse essere gialla. L’uscita, però, non si vede ma sai che eventualmente ti basta spingere con tutto il peso del tuo corpo sul maniglione antipanico e sei fuori. L’idea di scappare ti fa MALE e ti auguri che non sia il caso proprio oggi.

Ti giri dall’altra parte e vedi che il tipo Regimental sta lavorando al servizio di un imberbe militare. 

Vomiti in silenzio. Lasci la sala pensando a chi dovrà ripulire e pensi che non vorresti essere al suo posto. Non per il tuo rifiuto gastrico. Quello è solo la minima spesa.

Esci dal cinema con tante ombre addosso. Il sapore acido in bocca, i sensi divelti da un frustrante senso di inadeguatezza. Cos’è questa sensazione che ti avvolge tutto? 

La pelle 

ellep

vuole strapparsi, si divincola nella sua pellicola inquinata. Senti che non sei più dentro.

Sei stanco. Cammini strascicando il passo. Attraversi Via Gassendi, una cicatrice di strada dove le luminarie nascondono il cielo. E ti senti soffocare. Devi assolutamente andare a casa. La circonvallazione è un tripudio di gas di scarico, rumori, tanfi che provengono da un altro mondo. Soffochi persino dentro te stesso. Non riesci a uscirne. Vorresti spaccare un muro e farti breccia attraverso… Attraverso cosa, cazzo? 

Prendi il filobus. Per un attimo pensi se non sia meglio fare il giro di tutta la città. E ti gira la testa. Rinunci all’idea. L’aria è stantia, un odore di mele e caffè vi galleggia come naufragato. Dura poco. Appena riparte, avverti vapori di ascelle. Temi di vomitare pure lì, col rischio di scatenare le ire dei passeggeri e del conducente che mastica un chewing gum da stamattina nascosto dietro un paio di occhiali scuri. Ti dici che-cazzo-li tieni-a-fare, il sole è bell’e tramontato. 

A piazzale Lotto ti fai breccia tra le bancarelle dei senegalesi, poi superi l’edicola e ti fai inghiottire dalle fauci della metropolitana. Una voce pastosa annuncia che nelle banchine d’attesa è vietato fumare. Prima in italiano poi in inglese. Ti chiedi chi abbia mai prestato la voce a questa cosa, poi pensi che sarà tutto un meccanismo elettronico. Il binario vibra e da una venuzza arriva un treno rosso, i fanali ti vengono addosso, indietreggi e ti premuri persino di non superare la linea gialla. Il che poi non ti importa più di tanto. Un fragore siderurgico. Entri. Riparte come il rutto di un ubriaco.

Con difficoltà, per via della peristalsi del vagone, prendi posto accanto a una donna dai capelli di rame e col cappotto color pino silvestre. Emana un forte odore di candeggina, le mani rosse, anelli di dubbia fattura alle dita e asfissiati dai nodi gonfi dell’artrosi. Una fermata dopo sale una coppia di zingari: lui con una chitarrina che sembra di quelle che vendono rimpinzate di Sperlari, lei col peso di un neonato avvolto alle spalle e un bicchiere della coca cola di mcdonald’s regredito ormai a pasta di cellulosa. Appena entrano la voce lamentosa e monocorde dell’uomo annuncia un risaputo canto di Lazzaro. Poi la chitarra lancia malinconiche note di latta, come gocce d’acqua appese a un fil di ferro. Una tristissima bella ciao incespica sulle parole traverse di una lingua che assomiglia all’italiano. La zingara, poi, percorre il vagone con lo sguardo supplichevole e la mano protesa a una fragile questua. Al solito, vengono ignorati. Sfuggi allo sguardo grave e sporco della zingara fissando una pubblicità sulla parete del vagone, sopra un finestrino sul quale vietato sporgersi risulta sbiadito:

 

padanian funeral’s

servizio funebre completo in padania e tutta europa

reperibilità 24 ore anche festivo

direttamente a casa vostra

numero verde: 8004747333

In calce, in lettere da esame oftalmetrico, supponi ci sia il nome del titolare e forse l’indirizzo della sede padana. Ti chiedi se facciano pure servizio a Trapani o Siracusa, in fondo anche il sud appartiene all’Europa, no? Mentre gli zingari cambiano vagone, mentre ancora dubiti sull’effettiva serietà dell’annuncio, con una naturalezza poco cauta allarghi le gambe sfiorando quelle della tua vicina e con una carezza scaramantica ti tocchi le pudende. La signora con l’artrosi alle mani se ne accorge. Non gradisce il tuo tocco all’attributo apotropaico. Lo sguardo obliquo e gli occhi di fuoco esclama:

“Un altro maniaco!”

ocainam.

“No, signora. Non fraintenda, io… Le sembro mica un maniaco?”

“Dicono tutti così, bello mio. Ma a me non la dai a bere, porco!”

Ocrop.

“Guardi che io… beh, stavo… vede quella pubblicità lì?”

La signora col cappotto color pino silvestre fa una faccia sulla quale leggi tutti gli improperi possibili sul tuo conto.

“Era per quello”, fai.

La signora comprime lo sguardo a leggere. E inizia a ridere e a farneticare come Linda Blair nell’Esorcista.

“Per carità, non mi faccia ridere”.

La signora si stringe le guance con tutte e due le mani in una morsa ferina nel visibile sforzo di riportare la muscolatura a un assetto serio. Pensi al film The Mask. Ti stupisce che non voglia ridere. Tu daresti la tua mano destra per ridere in quel modo e per giunta per una scemenza. La signora, invasa da un attacco di ilarità che tenta in tutti i modi di abortire, si alza, si stringe sulle ginocchia e urla:

“Non posso ridere, accidenti!”

La gente vi guarda come se aveste profanato una tomba. La signora si calma. Si alza. Scende con te a Buonarroti. Adesso la sua faccia è tornata triste e con un’ ombra che ha tutta l’aria di nascondere un dolore fisico. Noti la sua camminata di legno. Capisci che c’è qualcosa che non va.

“Scusi se l’ho disturbata.” dici con l’intenzione di carpire il segreto di quella ostentata reticenza a voler ridere.

“Non è colpa sua, giovanotto. Soffro di enuresi da riso. Praticamente mi basta poco per pisciarmi addosso.”

La signora si riporta sul suo binario di serietà coatta. Ti saluta con un cenno della mano che sembra un addio-per-sempre e si avvia sulla scala mobile. La osservi mentre riprende la sua camminata normale e non sai cosa pensare all’idea di quante volte abbia camminato sui trampoli per sfuggire a quella condanna. Fai la faccia triste. È solo buona educazione. Non te ne frega niente, dopotutto.

Quattro passi a piedi e arrivi nel tuo bel palazzo liberty di Piazza Piemonte. Saluti il portiere che ti lancia un sorriso pulito. Certo, pensi, si aspetta la gratifica di Natale. Un paio di palle. Ricambi. L’ascensore è all’ottavo piano. Ma tu non hai la pazienza di aspettare.

Cavalchi i gradini a due a due. Ti scivola la pashmina acquistata in Corso Vercelli, puro cashmere, color panna, con le frange frou frou. Te ne freghi. Cerchi le chiavi nella foga della corsa. Si incastrano sul fodero dell’impermeabile. Dai uno strattone. Risali la china con una volontà nuova. Non puoi affondare così a trentacinque anni. Ti serve una scarica di adrenalina. Dovresti avere ancora della roba. Giusto una riga, dai.

Giri la chiave in un unico colpo. Non senti la doppia mandata della porta blindata. Ti chiudi la porta alle spalle. Non ti togli neanche l’impermeabile comprato da Prada in Galleria. Per un attimo il tuo impianto home theatre della Sinudyne, comprato col tuo primo stipendio della banca, non fa che occupare tutto il tuo campo visivo e non puoi fare a meno di pensare che a) devi cambiare casa b) che quella marca ti suona sempre come il nome di un decongestionante nasale. E per dare il colpo di grazia al tuo senso di frustrazione che ha già toccato il fondo da tempo, lanci uno sguardo all’albero di Natale addobbato solo con  tre, quattro, cinque palline in tutto? e al carico di palle rosse e blu di varia grandezza disposte su una cesta di vimini verde  a esclusivo uso e consumo di quelli che vengono a trovarti, perché  tu li inviti a scegliere una palla e ti piace osservare quale e come viene raccolta e dal colore e dalla dimensione ti fai un quadro psicologico tutto personale del tuo ospite che poi non può fare a meno di mostrare entusiasmo per quella cosa. Sì, perché così hai la sensazione di non averlo addobbato da solo. Ti chiedi come diavolo ti sia venuta in mente un’idea del genere. E ricordi che risale a quando eri arrivato qui, a quando l’idea di startene da solo non ti faceva per niente paura. Altri tempi, quelli. Poi di anno in anno hai iniziato l’allestimento con una pallina in più, due al massimo. Durante le feste, se nessuno (chiunque, cazzo, chiunque) viene a casa tua, ne cogli una tu dalla cesta. L’anno scorso avevi completato l’albero il giorno dell’Epifania e poi imballato di nuovo nella sua scatola polverosa, attorno a metri e metri di nastro adesivo, con la promessa arrabbiata che lo avresti per sempre abbandonato in cantina. Quest’anno, accidenti a me, hai ceduto ancora a queste stupide romanticherie.

Ti lasci indietro questi pensieri, nel salotto+angolo cottura del tuo bilocale di 50 metri quadri, con un sospiro che è un rantolo ma a cui tu attribuisci il significato di un vivace vaffanculo. E pensi che questo adesso non può farti MALE. E corri in camera da letto. Smanetti dentro il cassetto del comodino. Un portapillole d’argento con la tua iniziale in cristalli Swaroski. Dentro la polvere delle stelle. La versi sul dorso della custodia di un cd. Svuoti la Mont Blanc comprata per il tuo compleanno. Ne tiri fuori il refill e la molla. Un paio di tenaci tiri per narice e si aprono finalmente le porte. Un breve intenso percuotere nel sangue. La testa ti ride dentro. Lecchi la plastica della custodia del cd. Guns ‘n roses.

Snug ‘n sesor

Un tribute. Due pistole in croce su un morbido cuscino di petali rosa.

Adesso tutto assume un senso nuovo, diverso. Ti senti vagare come una mina 

anim.

Un ritmo veloce ti corre nelle vene. E ti fa MALE. Adesso sì che è Natale; tante lucine in testa che al ritmo di una lenta cascata non fanno che scampanare i tuoi pensieri. Ti senti rigonfio, avverti rifluire una nuova ondata di vita. Riacquisti qualcosa che pensi di aver perduto lungo questi anni e a cui non riesci a dare un nome. E ti fa MALE perché non puoi leggerlo al contrario. Il ticchettio dell’orologio nel salotto+angolo cottura ti passa attraverso, si insinua dentro, lo sferragliare del tram una risonanza che fa vibrare le pareti e pensi che tutto questo sia solo il rumore del silenzio. Sul comodino, la sveglia al quarzo pulsa l’ora in una tachicardia imprecisa. Le 18,27. Che cazzo di ora è quella? Rischi di implodere. Devi uscire, pensi. Troppo avvolto dalla tua stessa anima

amina.

Scendi il dedalo di scale, una spirale che ti fa girare la testa, più scendi più senti un vigore nuovo. Ritrovi la sciarpa che hai acquistato in Corso Vercelli. Pensi non sia il caso che poi il portiere stia a indagare sul possessore. Quindi la raccogli e te le avvolgi al collo senza nessuna cura.

Il vento, fuori, fa il decoupage con le tue orecchie, il naso; gli occhi producono nuova linfa e vedi di più. Rivoli di vento ti penetrano dentro. Tutto ti avvolge in un’intermittenza sleale. Ti assorbe ogni voce, ogni luce di luminaria, un jingle bells arriva strisciando chissà da dove sulle note di un subdolo ronzio. Il fruscio dei pacchi sui cappotti di una folla che si premura dei propri cari acquistando regali. Hai voluto risparmiarti questo stress, pensi. Ma non pensi che, lì, non hai nessun caro per cui stressarti. 

Un travestito ti lancia un’occhiata che ti passa da parte a parte. Pensi di chiedergli quando puoi andare a ritirare le radiografie. Pensi che vorresti piangere. Ma sei pieno fino alle sinapsi. E non ci riesci. E la cosa ti fa stare MALE. E non sai dove andare. 

Forse per questo tenti di sfuggirmi…

Ti svegli MALE. Gli occhi lenti lenti, accartocciati dentro le prugne delle tue palpebre. L’umore anchilosato e sbattuto come uno scopino da toilette. Ma questo non è più una novità da tempo. Per un attimo ti concentri per quello che riesci su questa parola. Tempo.

Opmet.

Perde ormai la sua fisionomia affilata e si aggroviglia attorno a un nucleo che gira in un moto perpetuo. Ti tocchi il pacco. Vai a pisciare. Appoggi la testa al contenitore dello sciacquone. Una pisciata sana che ti fa venire i brividi. Decidi che non ti va di sciacquarti. Tanto fra qualche minuto farai la doccia. Nel salotto+angolo cottura il vapore del caffè è una sferzata. Aspetti seduto, la testa reclinata sulla parete. Ricordi vagamente quello che hai fatto ieri sera. Sai solo che hai camminato per  una Milano diaccia, investita dal silenzio della notte. Ricordi solo il versaccio degli ubriachi, gli sguardi lascivi delle prostitute. Qualche pazzo che si è divertito ad attraversare la città a bordo di Bmw o Mercedes lanciate a razzo per i viali. Ricordi la faccia tumefatta del pusher che ti ha rifornito di roba, le sue mani cotte dal freddo. Il suo fare circospetto dentro un cappotto col bavero rialzato e la pince che si apriva con una V al contrario dalla nuca in giù (ti è sempre piaciuto quel modello).

Bevi il tuo caffè amaro che ti fa venire da vomitare. Avverti un fastidio ai muscoli delle gambe e pensi che dovresti tornare in palestra uno di questi giorni. Ma ti viene proprio MALE. Meglio non pensarci adesso.

Sono le 7,00. Pensi che ti sei svegliato prima oggi. Se quello può chiamarsi risveglio. Hai ancora un’ora e poi ti aspetta la banca in una via del centro. Il voltastomaco adesso ti fa venire un conato che ti spacca l’espressione del viso. Dai un’occhiata da uno spiraglio delle persiane. Anche oggi il cielo ha il colore del latte condensato della Nestlé. Finalmente hai un attimo di lucidità perché capisci che deve cambiare qualcosa.

O dio, pensi. Ti stupisci. E ti fa MALE. Pensi che se sposti solo l’accento a quell’afflato mistico viene fuori odio 

oido.

Ti chiedi perché hai avuto sempre ‘sto vezzo di leggere le cose al contrario. Pensi che hai voglia di pregare.

Vuoi sentire, vuoi credere che qualcuno ti aiuterà. Oid.

Pensi alla banca. Acnab. Neanche a dirlo che ti muore la parola nel palato e ti stringe alla gola.

Decidi che per oggi te ne sbatti. Decidi di darti per malato, ma aspetti a chiamare. Perdi qualche minuto. Una doccia veloce. Stai per prendere un Levi’s stone washed e una camicia. Ci ripensi e fai la faccia seria. E se poi ti prende il senso di colpa e vuoi tornare in ufficio? Vuoi… è una parola grossa. Ti imponi di resistere; nel dubbio, però, raccogli il pantalone dell’abito sull’appendino della Foppapedretti. La camicia va bene anche quella di ieri. I gemelli al polso comprati prima dei saldi da Boggi. Ti eri infuriato quella volta: se avessi aspettato solo un giorno li avresti comprati al 50% di sconto. Ti dici che ogni tanto sarebbe opportuno risparmiare. Decidi di sbattertene. Non diventi mica un disperato se spendi qualcosina in più. Tu non hai il problema di campare. E per un attimo pensi se non fosse stato meglio. Sul comodino il portapillole d’argento rimpinzato e che ti sei scordato aperto. Sul cd un brillio allettante. Ma sì, perché no! Dopotutto è la mattina che stai peggio.

In bagno ti guardi allo specchio. Apri un’anta e scompare mezza faccia. Una spruzzata di Escape di Calvin Klein che compri ogni sei mesi anche se ne rimane mezza confezione. Pensi che a lungo andare i profumi perdono la loro essenza originale. Ti piaci. L’occhio si fissa su un angolo buio dello stipo. Giusto dietro la crema esfoliante e quella a effetto lifting trovi qualcosa che avevi scordato. Un pacchetto blu, 3 cm per 1, due spade in croce. Sono lame da rasoio Wilkinson. Tu non le usi, a te vanno bene quelle usa e getta. Le avevi visto al mercato di Papiniano e avevi pensato a tuo padre che le usa da cinquanta anni. Le hai tenute lì da quanto tempo? 

Opmet.

A che è servito comprarle, pensi.

Adesso ti guardi da un lato all’altro. Sì, sei decisamente un figo. E stamattina c’è un motivo.

Esci che tiri ancora su col naso.

Il portiere pensa di illuminarti la giornata col suo sorriso. E pensi che è un altro coglione di questa città. Ti fermi al bar “Capriccio”. Consumi un caffè. Accendi una marlboro. Ti accorgi solo quando paghi che il gestore ti guarda di sbieco ma ti conosce e non ti dice nulla. Capisci che da oggi non si può più fumare nei locali pubblici. L’avevi letto sul giornale e ne hanno pure parlato da Vespa. Un attacco di tosse e scataracchi un marron glacé sul tombino della fognatura. 

Prendi la metro

ortem.

Pensi che è l’anagramma di morte. Ti chiedi se non basta già leggerle al contrario. Devi proprio infierire sulle parole? Ti chiedi chi ti possa capitare oggi. Ma sei deluso. La metro è piena così e non riesci a concentrarti su nessuno. Sei costretto a farti breccia in quel carnaio ed è un’impresa titanica beccare un solo palmo del corrimano. È lì che rimpiangi l’odore del Vinavil. 

Si sprangano ancora le porte e un tonfo che è uno schiaffo ai tuoi pensieri – ci voleva, pensi – lascia entrare un’altra folata prodotta dal meteorismo della metropolitana. Pensi alla puzza d’umanità corrente, come dici tu, perché è questo quello che senti. Rimpiangi l’odore della benzina, della colla, perfino delle tue ascelle o della leggera nuvola che svapora dalle tue Nike appena scalzate. Quelli sono odori familiari. Rimpiangi quando ti lamentavi del tanfo di benzina che si spandeva nell’abitacolo delle tua Panda 750 e che ti ubriacava; oppure quello della colla che usavi a scuola durante le ore del collage. Ma sai, vuoi sapere, che il mondo non finisce in un bordello dell’olfatto.

Hai smesso di pensare agli odori di casa tua, ormai solo vecchi ricordi, nostalgie del tuo naso.

Ora il vagone è una scatole di sardine macerate dal sudore e dal chiuso e dallo sbattere di qua e di là. Ti strofini la faccia di cuoio e pensi che nessuno lì penserebbe che eri stato un insegnante di matematica. Una volta non ti bastava, no. Era sempre meglio che lavorare in una banca nel centro di Milano. Era meglio quando il jeans e la camicia stirata anche male non ti facevano sentire  un clandestino. Dentro gli intestini della città, respiri l’aria maleodorante del vagone che ti fa sentire libero – lì ti senti libero, ci pensi? – e che ti attanaglia nella morsa dell’asma.

Oggi, quindi, sarà il tuo giorno di libertà e puoi permetterti di assumere un contegno meno professionale anche se vai in giro col completo blu, la camicia azzurra con le cuciture ai bordi e la cravatta a quadroni comprata da Pedraglio in Cordusio. Una ruga profonda ti solca la fronte e la senti, la percepisci col tatto quella piega del pensiero. Poi incroci il suo sguardo anch’esso fitto della nebbia che grava sui pensieri. Osservi le sue tette danzare insieme al movimento del vagone. I capelli neri e un neo sotto l’occhio. Ti guarda di sguincio, infastidita dal tuo sguardo che non vuole essere prepotente ma liquido  e molle com’è dai l’impressione di un maniaco

ocainam.

Una T-shirt gialla: un mare azzurro sullo sfondo, le palme lungo la linea dell’addome. Senti quasi il rumore del tuo mare, ora. O quel silenzio fatto di salsedine al tramonto. Poi ti sorprende il sorriso che le rivolgi, ti sembra di invadere i suoi pensieri, forse rivolti alla sua terra, ancora più lontana della tua. Abbassi lo sguardo con il ragionevole sospetto che hai osato troppo. Adesso però i suoi occhi si accendono e ti vomitano addosso quanto siano stupide le tue malinconiche regressioni in lungo e in largo. Il suo odore di cioccolata rintraccia l’eco di quei pomeriggi invernali quando il mare era in tempesta e arrivava la violenza dei flutti rumoreggiando quasi contro le vetrate e tua madre ti preparava la bevanda al cacao amaro dove inzuppavi con accattivante esperizia i savoiardi della panetteria “Rizzuto”.

Lei si gira adesso, ti dà le spalle. Ha smosso mezzo vagone. Fai in modo anche tu di interrompere quella comunicazione ambigua e vedi senza guardarlo la pagina di un quotidiano, a terra, sgualcito attorno a orme grigie impresse su di essa. Si aprono le porte e stavolta, però, pensi che l’odore della metropolitana assomiglia all’ odore di liquirizia o a quello del fieno di luglio che sentivi lungo l’autostrada quando andavi a Modica a trovare i parenti. Sì, ti piace pensare che sia il fieno quell’odore forte che ti dà fastidio perché all’epoca non riuscivi a classificarlo come puzza.

La donna di cioccolato si gira e torna a danzare il suo seno, le palme si muovono al vento dell’estate, il mare si sgonfia alla lumera del tramonto…

Scendi a piazzale Loreto – ti chiedi quale sia il punto in cui l’hanno ammazzato, giusto per curiosità intellettuale, ti dici – e pensi ancora agli ultimi stracci di barba bianca sulla spiaggia di Mondello, alla sua carezza paterna.

Era solo una maglietta.

Fai le scale per uscire dallo stomaco della terra, il cielo scorre man mano e entri in un nuovo grigiore.

Pensi alla cassiera che recitava il rosario

oirasor.

Pensi che dovrebbe essere bello pregare.

Eva airam.

Pensi che se il mondo scorresse come le tue parole al contrario sicuramente tutto funzionerebbe meglio.

Percorri a piedi Corso Buenos Aires. Poi Porta Venezia. Arrivi in Duomo. Un via vai di pazzi. Un oceano di colombi si apre ai tuoi piedi. E ti senti come Mosè che divide le acque. All’ingresso ti perquisiscono e solo in quel momento (appena ti palpano all’altezza della tasca interna della giacca) ti ricordi che devi ancora chiamare in banca

acnab.
Ti metti in un angolo, fai passare uno stuolo di giapponesi a tinta unita e ordinati, cazzo, come tanti robot programmati.

Lampeggia una bustina sul display del tuo Nokia 9500 Communicator da 800 euro e ti chiedi chi ti possa mandare un sms.

Sms

Curioso, quello rimane uguale.

Ma è solo un messaggio promozionale del tuo gestore che ha la gentilezza di avvisarti che un nuovo piano tariffario eccetera eccetera. Cancelli il messaggio. Chiami in banca. Ti fai scudo col palmo della mano. Fai la voce deserta e dici che non stai bene. Ti batte il cuore. Appena chiudi sospiri un sospiro per cui – pensi –avrai respirato una quantità spropositata di polveri cancerogene.

Il Duomo sembra un mercato. Solo una decina di persone è seduta a pregare. Poi ti accorgi che più della metà sono solo turisti stanchi. Ti invade un silenzio dentro e senti l’eco del fluire del tuo sangue. Una tristezza nuova. Qualcosa che non avevi sperimentato prima. Non fai in tempo a capire che questa sensazione è solo pace.

Eva airam.

Ti chiedi se sei ancora capace di pregare. Ti siedi. L’altare è inaccessibile. Pensi che serva a questo il perimetro di cordone bordeaux che ne delimita l’area. Temi di essere osservato. Metti il vibro al telefonino. Un minimo di rispetto…

Eva airam.

Pensi a Dio.

Oid.

Questo sconosciuto. Pensi a quelle frasi fatte, tipo che è dentro di noi. Allora pensi che se è dentro di te sicuramente è al settimo cielo considerando tutta la coca che hai in circolo. Ti diverte il gioco di parole. Basta, ti dici. E il timor di Dio? Almeno quello. Ma non sai dove cercarlo. Com’è questo timore? E pensi che il tuo timore, la tua vera paura

aruap

è un’altra. È in agguato ogni volta che ti svegli, che devi scegliere una camicia pulita, che devi darti un tono da professionista quando arrivi a quella fottuta acnab che non cambia manco se la leggi al contrario; o quando ti fai la doccia e ti lavi quella ellep che ti fa venire la pelle d’oca e pensi ancora come sarebbe possibile mutarla come fanno i serpenti. E pensi che tu non hai il sangue freddo. Il tuo desolato senso di esserci, questo ti fa paura e vorresti avere la capacità di scomparire.

Eva airam.

Scoreggi e temi che la pressione aerea abbia sortito l’effetto di una deflagrazione sulla panca di legno massello. Ma nessuno ha sentito niente.

Ti sei rotto di questo andirivieni con la mente. Ti alzi. Segui una comitiva di tedeschi con a capo una guida italiana. Conosci il tedesco o comunque lo capisci. Non ti ha insegnato solo il sesso la tipa che avevi conosciuto in Grecia. L’avevi seguita a Brema l’autunno successivo. Avevi abbandonato due esami all’università perché volevi trasferirti da lei. Lavorava come ballerina di varietà… come si chiamava… Raishita… il padre era etnologo e quel nome non sai in quale lingua voleva dire non sai cosa. Tutto poi si era rivelato una vacanza di otto mesi, scandita da ecstasy, musica techno, sesso sfrenato. In tre. Aveva coinvolto pure la sua amica del cuore perché ti eri lasciato scappare che era carina. E lei te l’aveva portata fra le lenzuola. Sì, perché lei ti amava.

Per antitesi non puoi fare a meno di pensare a Marina, la tua fidanzata del liceo scientifico Giovanni Verga e la sua timidezza e i vostri primi approcci fatti di carezze audaci e teneri baci. Ricordi come tornavi a casa, tutto rosso e congestionato e ti barricavi in bagno a farti le pugne davanti allo specchio perché quei momenti sublimi ti sfuggissero dai sensi, dai pensieri, dalla pelle percossa dai brividi. E finiva poi la febbre mentre a occhi chiusi ti facevi abbandonare da Marina pronunciandone il nome in un soffio che lanciavi in silenzio allo specchio. E quando li riaprivi, l’alone veniva risucchiato e scompariva come un sasso lanciato in fondo all’acqua ma in senso contrario. Come adesso i tuoi ricordi.

Rischi di perdere di vista l’orda di tedeschi bianchicci. Segui la guida e fai l’indifferente. (Ascolti quello che dice). Adesso accenna a San Bartolomeo spellato. Lo traduci in mente e capisci che è meglio dire ‘decorticato’ perché l’italiano ha colorature più meschine. Alzi lo sguardo e pensi oid. La guida parla a uno stuolo di pensionati imbevuti di birra e cappuccini e adesso non ha più voce. Non la senti più. Rimani paralizzato di fronte a quella statua che non avevi mai visto, che non sapevi esistesse. Non sapevi neppure che fosse esistito un San Bartolomeo. E che fosse stato martirizzato in quel modo.

La guida ora dice che è il patrono dei conciatori e dei macellai e pensi che sia uno scherzo.

Senti MALE dentro. Come un pugno che ti sfonda le viscere e ti percuote la bocca dello stomaco e ricordi tua nonna che, per le sue frequenti acidità, indicava quel punto come ‘a vucca ‘e l’alma’, la bocca dell’anima. Accenni a un sorriso. Ma non te ne accorgi. E ti chiedi perché nel tuo dialetto ‘stomaco’ diventa ‘anima’.

Amina.

Lui ha lo sguardo immobile, fisso, i muscoli ben visibili e delineati sul volto, sulle gambe, sull’addome. Lembi di pelle penzolano dalle braccia come gli orli della tunica dei Cesari. Il cranio lucido, gli occhi sbarrati. Una faccia che perde espressione ma riesci a scorgervi una profonda consapevolezza. Ti giri per guardarlo di spalle. Adesso pensi che la bocca della tua anima ti sussurri qualcosa, un rigurgito di saliva ti sale e scende. La pelle del viso con persino i capelli ricciuti pende come un sacco dalle sue spalle e quel viso di cui scorgi gli occhi, o meglio le fosse che contenevano gli occhi, la protuberanza nasale, le due appendici di labbra, quella massa di pelle svuotata è scolpita nel dolore, il martirio scende dalla pelle, sulle depressioni concave, smunte. 

Sul viso, una bisaccia appesa alle spalle, c’è l’estrema sofferenza, il desiderio di sopirla e sulla testa decorticata il sublime superamento di essa, i sensi riappacificati, il silenzio del dolore. 

La fine del dolore.

La bocca dell’anima

amina

ti si chiude di botto. E ti lascia senza fiato. 

Corri fuori. Senti un furore che attribuisci alla coca.

Mi ha preso MALE.

Amina

Lei continua a parlarti, vuole suggerirti qualcosa. Ti ricorda un nome. Ti chiedi dove lo hai letto o sentito. 

Ora sei fuori. I poliziotti ti guardano pensando che tu abbia visto un fantasma. Oppure oid.

Amina ti torna in mente in un canto sublime. L’opera! È il personaggio di un’opera! Cazzo, quale? Dove hai sentito quel nome?

Quel nome ti parla ogni giorno, ti avverte ovunque, con qualunque mezzo. 

Ma tu non stai più a sentirmi…

Pensi che sei talmente verme che non riesci a chiamare neppure il tuo dottore e fingere un cazzo di malanno e farti fare il certificato medico. Pensi che sei un inconcludente, uno cui la vita ha tolto ogni linfa come una siringa che aspira un liquido essenziale.

Pensi che non bastino le casse del tuo impianto synudine a diffondere quella musica (dicono che Mozart cura tutti i mali dell’Amina, ma non ne sei convinto). Il tuo buco di bilocale ribalta i decibel nell’aria e ti senti travolto. Prendi, quindi, il lettore cd portatile. Le cuffie. Vuoi essere travolto da dentro ma Mozart non ti fa ridere. Quindi, scegli un cd con gli Adagi di Albinoni, perché  decidi che vuoi affondare di più.

La musica ti trapana nelle orecchie con una pressione calda, avvolgente. Ti scorre dentro il rimbombo dell’organo e gli archi ti trafiggono le carni. Il sangue ti scorre al contrario e pensi che non possa fare MALE.

Intanto riempi la vasca. Hai bisogno di un bagno caldo. Poi torni nel salotto+angolo cottura, prendi una palla rossa dal cesto di vimini, ci ripensi, blu, e scegli un punto dell’albero dove metterla. Una scelta che non ti costa nessuno sforzo.

Hai bisogno di ricaricarti. In camera da letto, il cd degli snug ‘n sesor brilla nel suo binario di neve. Due pistole in croce su un morbido cuscino di petali rosa. Stavolta svuoti tutto il portapillole d’argento con la tua iniziale in cristalli Swaroski.

Ritorni in bagno. Riesumi da un angolo dello stipo la confezione blu di lamette Wilkinson, due spade in croce, e pensi che tuo padre le usa da più di cinquant’anni.

Pensi alla signora del cinema porno. 

Eva airam.

Pensi alla signora afflitta da piscio impellente. 

Ocainam.

Pensi al San Bartolomeo decorticato. 

Oid.

Pensi a un altro Natale di merda, pensi che non riesci nemmeno ad aspettare che ti chiami tuo fratello fra qualche giorno per farti gli auguri e poi parlare con i tuoi nipoti (potevo spedirgli dei regali, cazzo!) che ti cercano sempre e ti vogliono lì insieme a loro. Pensi che non resisterai nemmeno stavolta. Pensi che sei stanco. Vuoi scioglierti dalle catene che ti sfregano sulla pelle. 

Ellep.

Pensi e ripensi a una vita che è solo racchiusa fra due parentesi, che hai bisogno di un taglio netto. 

Apri il pacchettino blu: sono sei in tutto. Ma pensi che forse una sola ti basta. Avvolte da una sottilissima carta blu che si apre solo al contatto con le tue dita. Ti sfiora un sorriso. E pensi che potrebbe essere l’ultimo.

La musica adesso ti scorre dentro, tu ti senti scorrere in essa, le tue fibre si gonfiano dentro le note dell’organo, scivola il tuo sangue sulle corde delle viole e la mente perde i suoi congegni

ingegnoc

assoluti.

Mi senti piuttosto vaga. È già qualcosa. 

Appoggi il lettore portatile della Sony sul bordo della vasca. 120 secondi di anti-shock, un lusso. Ti immergi nell’acqua calda. Senti un abbraccio vitale che ti scioglie i muscoli. Senti l’odore del tuo corpo.

Ho già intuito dove vuoi arrivare. La cosa mi può stare bene, tu invece mi senti MALE. E ritieni che la soluzione sia questa e non sono in grado di capire se sia quella giusta. Bene o male che sia è solo la tua mente a elaborare un tracciato. Io posso solo accondiscendere. 

La musica adesso, lenta, marcia come un soldato su un territorio inesplorato e si fa strada nell’acqua e avverti il vapore che esala dalla vasca come pentagrammi incomprensibili. Prendi le sei lame della Wilkinson –  due spade in croce – già tutte scartate, metallo friabile come l’ostia incollato sulla ceramica della vasca. Su  gocce d’acqua sfuggite alla tua contaminazione.

“La sonnambula”, ecco qual è il titolo di quella fottuta opera!

Ti chiedi da dove sia meglio iniziare. Le mani no, quelle ti serviranno fino alla fine.

Ti chiedi cosa sarà la fine.

Forse dai lobi delle orecchie o dal mignolo dei piedi. Pensi che sia meglio iniziare da lì, in fondo sono solo estremità vestigiali che non servono più a niente. E pensi che prima o poi l’evoluzione ne priverà la specie.

Fai scorrere l’acqua. Ti concentri sul mulinello inghiottito via.

Suona il citofono. Non saprai che era il portiere e che ti avrebbe annunciato l’arrivo di un pacco postale.

Non ti asciughi. Ti togli le cuffie ma non spegni il lettore. La musica continua a scorrere muta in un altro mondo.

Non provi dolore. Solo un pizzicore pulsante, come quando una mosca tenta di posarsi ma continua a svolazzarti attorno.

Viene via una striscia fin su al ginocchio, si stacca senza che tu lo voglia all’altezza del popliteo.

Una striscia bianca trasparente, solo un rivolo di sangue al piede dove hai dovuto premere la lama per prima (solo un rivolo di sangue al piede, sei stato bravo ad affondare la lama solo su una parte di carne).

Continui ancora per tutto un mezzo lato, fino all’inguine, all’ascella, al collo. Brandelli di ellep rimangono attaccati, ti serviranno, pensi, per tirare via ancora altra superficie. Pensi a Duefacce nel film di Batman. Pensi che non sei un supereroe. Però ti senti più forte. E pensi che ti è sufficiente questo per continuare a resistere.

Adesso il dolore diventa come quando per il freddo ti dà fastidio il contatto degli indumenti sulla pelle.

Lungo le strisce che hai tirato via, un lieve gonfiore perlaceo fa capolino e pensi che questa sarà la tua nuova ellep e si ricomporrà più coriacea.

Pensi per un attimo ad amina che dorme dentro di te. Ma tu sai che io non dormo mai. Pensi finalmente che possa essere questo il tuo errore più grande. Ma pensi anche che le nuove consapevolezze ti possano rendere più fragile. E pensi che devi continuare in questo sfoggio di coraggio dentro la vasca del tuo bilocale di Piazza Piemonte in una Milano livida e impotente.

Ci sto dentro pensi.

Non farai in tempo a pensare con lucidità che forse ti eri sbagliato che avrai già chiuso gli occhi e augurato Buon Natale a chi mentre il vapore attorno a te si sarà già condensato sui vetri. E allora il mondo, fuori, sarà più cieco.

Foto di Thomas Breher su Pixabay

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