Lampi dietro agli occhi
di Marco Di Carlo
Ci sono persone che parlano ai propri cani come fossero dei bambini.
Li guarda rapito, Lorenzo, e si stringe nelle spalle. Vorrebbe capirli. Perché lo fanno?
Non ama i cani, né tanto meno chi li coccola e li vezzeggia.
Foglie gialle, rosse e marroni. Ce ne sono a migliaia, forse a milioni. Sono enormi e bellissime. Non è molto che ha smesso di piovere e il sole, ora, dona a ogni cosa colori incredibilmente vividi.
La schiena adagiata contro le assi di legno della panchina. Lo sguardo rivolto verso la strada poco distante, al di là della siepe, verso l’asilo comunale.
Le mamme che aspettano i propri figli hanno smesso di essere ciò che erano un tempo – esseri di sesso femminile del tutto privi di qualsiasi attrattiva -, adesso gli appaiono come donne piacenti, spesso persino desiderabili. Ci riflette su, mentre accende una sigaretta. Aspira profondamente, e lascia che il fumo confonda l’immagine di un cane che, sfuggito al controllo del proprio padrone, gli salta in grembo. Ha il suo muso a un palmo dal naso. Lo fissa negli occhi. Sorride. Lo disgusta, ma è un piacere vedere soltanto due grossi globi marroni privi di espressione e non leggerci dentro nessuna morte. Con i cani non gli riesce.
Quando è stata la prima volta che ha scorto la fine di un uomo guardandolo negli occhi? Non lo ricorda.
Accarezza la testa del labrador. Si guarda attorno. “In fondo”, pensa, “non è poi così male”. Da quel giorno niente è stato più lo stesso. Gli basta fissare chi ha davanti e, con un lampo dietro agli occhi, visualizza il modo in cui morirà.
Da bambino sognava di avere un superpotere, uno qualsiasi, qualcosa che potesse distinguerlo dai suoi coetanei. Non avrebbe mai immaginato che il desiderio si sarebbe avverato, né che gli avrebbe causato tanto dolore. Non era per niente fico come sperava parecchi anni prima, quando le mamme erano solo mamme.
Roberto morirà con tutti i suoi lunghi capelli in testa, falciato da un pirata della strada. A lui non ha detto nulla. Gli sembra improbabile riuscire a convincerlo a non attraversare la strada per il resto dei suoi giorni. In che modo potrebbe giustificare questo bizzarro ammonimento? Non saprebbe nemmeno dirgli che tipo di strada sarà quella dove i suoi genitori poseranno una piccola lapide con una foto in cui sorride. Lui non avrebbe mai scelto quella… Sì, ma sarà in città o in campagna? Magari al mare? In montagna? E poi quando? Di giorno o di notte? I dettagli sono spesso confusi, parti irrilevanti di uno sfondo monocromatico.
Sua zia Giovanna era raggiante, appena un anno prima aveva sconfitto un brutto tumore. Quella avrebbe dovuto essere un’operazione di routine, niente di preoccupante. Lorenzo lo sapeva: non avrebbe mai lasciato quell’ospedale… eppure lei era felice. «Come mai sei qui?», gli aveva chiesto. Suo nipote non aveva di meglio da fare? «E adesso? Perché piangi?». Inghiottire le lacrime era stata un’impresa disperata, che si era sforzato di portare a termine per non rendere quegli ultimi momenti più tristi di quanto avrebbero dovuto essere. «Tra mezz’ora sarà tutto finito, non ti preoccupare». Ne era convinta. Serena e sorridente, lo aveva accarezzato.
Magari era solo una fissazione, la sua, si stava sbagliando. Aveva pregato a lungo, lui che non credeva all’inferno e al paradiso, ma sua zia non si era risvegliata. Un evento imponderabile, secondo i chirurghi.
Quando muoverà il passo decisivo nell’esaltante ciclo dell’azoto, tra circa vent’anni, Giulia sarà grassa e sdentata. Si troverà in un paese straniero e avrà il sorriso sulle labbra. Ai piedi di una palma, le mani strette a quelle di un uomo di colore. È così che finirà. Una consapevolezza, questa, che cinque anni prima non gli aveva impedito di innamorarsene. Pensa ancora a lei, a Giulia. Non era stato semplice… Dopo di lei non c’era stata nessun’altra. “Che senso ha?”, si dice sempre, tentando di dirigere gli occhi lontano da quelli della ragazza che ha di fronte. «Perché non mi guardi?». Anche lei, come tutte le altre, glielo aveva chiesto.
No, non era stato affatto semplice.
Il sole cala lentamente e va a nascondersi dietro una fitta selva di pini. Il labrador si è accucciato ai suoi piedi. «Dov’è il tuo padrone?», gli chiede. Poi sbotta a ridere. Scuote la testa. Si sente molto stupido… “O molto triste?”, pensa. Non saprebbe dire. Gli passa una mano sulla schiena. Una carezza distratta, un gesto che lo stupisce. Quasi si commuove.
Dopo aver vinto la paura, preso da una strana eccitazione, aveva provato a guardarsi allo specchio. Si era fissato a lungo, sperando che quel dono disgraziato riuscisse a rivelargli qualcosa sulla propria morte. È una presenza costante, nei suoi pensieri, e nulla lo solleverebbe maggiormente che conoscere il modo in cui saluterà questo mondo. “Che sia un cane anch’io?”, si era chiesto spesso, sconvolto dall’assenza di immagini di trapasso nei propri occhi.
Sua madre era morta un paio di anni prima. Lui non era ancora diventato quello che è. Suo padre pare abbia ancora qualche anno davanti a sé, anche se non saprebbe dire il numero preciso. «Cerca di non prendere treni», gli consiglia, ogni volta che va a trovarlo. «Per nessun motivo!». Il vecchio lo fissa con aria interrogativa. Si è fatto una nuova vita, con una badante russa. Sembra felice. «Perché?», gli domanda. Mio figlio è impazzito? «Fidati, dammi retta per una volta!» dice, guardando la sua donna, una cinquantenne dagli occhi di ghiaccio. Sorride enormemente, accarezzandogli la testa calva, ma morirà lontano da lui, in un posto pieno di neve. Una brava donna, Katrina. “Non vedrai un centesimo della sua eredità”, pensa, mentre la osserva annaspare tra i ghiacci di un paese che non sa.
La stagione migliore ha lasciato il campo libero alla malinconia, all’ocra, al magenta, al viola. Questo è l’autunno. In Canada dev’essere meraviglioso. Lorenzo vorrebbe andarci, prima di morire. “Anche qui, però, non è male”, considera, col naso all’insù, scorgendo una fetta di cielo azzurro tra le fronde dell’albero che lo sovrasta.
Non è qui, né in Canada, la felicità. In nessun luogo dimora il sorriso che ha perso. Per un attimo ha l’impressione che si trovi negli occhi di quel cane. Magari finirà sotto una macchina oggi stesso, o fra molti anni, lui, però, non lo saprà mai. Questa certezza lo consegna nudo e innocente alla sera che sta calando.
Il vento si fa teso e carica il cielo di nubi gonfie di pioggia. È ora di andare.
Lorenzo fa per alzarsi dalla panchina. Il cane ha un’espressione afflitta, del tutto simile alla sua. Si sente molto solo. Gli dispiace lasciarlo lì, ma l’idea di portalo con sé non lo sfiora nemmeno per un istante. Lo rispetta, questo sì. Gli piace credere di non riuscire a prevederne la morte perché quella bestia è munita del medesimo potere che lo inchioda a responsabilità il cui peso non si sente in grado di sostenere ancora a lungo.
“Forse è per questo che abbaiano”, pensa, “ci vogliono dire di fare in fretta, e di stare attenti”.
“Amami, finché sei in tempo!”, lo sente latrare. Anche lui è destinato a vivere senza padrone, solo, a conoscere la fine degli altri, ma non la propria.
È tutto già scritto, non c’è scampo, e…
«Achille!?» è una donna che urla. Una mamma?
«Achilleee!?». Il cane abbaia.
Lorenzo dice: «Ti chiami Achille?», poi sbotta a ridere. «Parliamo coi cani, adesso!». Scuote la testa.
È quasi buio ma, anche se gli alberi che hanno divorato il sole sono sagome nere contro un fondale grigio, c’è ancora una discreta visibilità.
«Achilleee!?». Una voce davvero fastidiosa, che lo irrita.
«Achilleee!?». Ma dov’è?
Una donna bassa e un po’ grassottella si paventa, sbucando da dietro un cespuglio alle sue spalle. Il labrador salta sulla panchina, incurante di Lorenzo, lo calpesta, e si tuffa tra le braccia della padrona.
«Amore di mamma!», esclama, la piccola decerebrata, del tutto indifferente alla sua presenza. Poi, dopo essersi scambiata effusioni con il quattro zampe, si volta e: «Oh, mi scusi! Le ha dato fastidio?», chiede.
Lorenzo cerca di metterla a fuoco. Non è un granché, e non pare neppure particolarmente intelligente.
«Si figuri. Non fa niente», risponde. Il volto rigido, contratto dall’ira.
La donna gli è molto vicina, ora. L’ultimo bagliore del giorno che muore illumina i suoi occhi. Sembrano belli, e… sono già passati parecchi anni, lei sta piangendo. Le lacrime si perdono nella ragnatela di rughe che le avvolge il viso. Porta una mano al petto. «Amore mio», dice. È in ginocchio su un tappeto di foglie bagnate. «Sto arrivando. Non ti ho fatto aspettare troppo, vero?». Le parole strozzate in gola. Un ultimo rantolo poi cade. Gli occhi vitrei, senza vita, spalancati su una lapide di marmo. Sopra c’è inciso un nome che conosce bene: Lorenzo Inestra. Il suo.
Sorride, incredulo.
«È stato buono?», domanda la donna, guardando Achille.
Un tuono, poi le prime gocce di pioggia.
«Sì, buonissimo», dice Lorenzo, «E… e poi io amo i cani».
Inviaci il tuo racconto breve!