A "francisi" - Milena PriviteraA “francisi”

di Milena Privitera

 

Emily, raggomitolata nella poltrona di velluto, vicino a un vecchio tavolino di mogano, guardava fuori dalla finestra. In quel giorno di metà ottobre il bagliore mattutino rischiarava il salotto. In quella stanza lei stava così bene che ci trascorreva l’intera giornata. Il finestrone si affacciava sulla via principale, un viale assai frequentato. Bastava allungare il capo per sentirsi partecipe di una vita che conosceva e di cui era stata protagonista per anni. Rimanendo in poltrona, invece, il silenzio della stanza, il tè servito alla stessa ora da Teresa, fedele domestica di una vita, le permetteva di tuffarsi nel passato. Un sorriso le addolcì il volto solcato dal tempo. Teresa la conosceva e capì subito cosa le stava attraversando la mente. Emily, ancora adesso dopo tanti anni, non era riuscita a capire quel vezzo per cui gli stranieri, per i siciliani, fossero tutti francesi. Lei, la figlia più piccola di Robert Lowe e Mary Cranborne, nobile famiglia di stirpe inglese, era chiamata “a francisi”. Sua madre non le avrebbe perdonato neanche questo. Avrebbe voluto una figlia rispettosa delle regole imposte dalla società vittoriana. Lei invece era uscita fuori dagli schemi del tempo.

Era una sera di fine agosto del 1859, aveva quasi venticinque anni, una proposta di matrimonio interessante alle spalle, era aperta al mondo e aveva preso al volo il traghetto da Dover per il continente. Era impensabile a quel tempo che una donna viaggiasse da sola. Ma lei era Emily, la donna dei primati, la prima in Inghilterra a ottenere la patente di capitano navale, la prima ad attraversare il mediterraneo al comando di uno yacht da 350 tonnellate e adesso la prima viaggiatrice a infrangere i pregiudizi vittoriani. A seguirla in quell’avventura il cugino George, conte di Essex, dai modi alteri, annoiato dalla vita. La presenza di George non aveva di fatto addolcito Lady Cranborne neppure un po’. Donna severa, dalla reputazione e dalle maniere impeccabili, la madre di Emily aveva ostacolato le scelte anticonformiste della figlia pazzerella. Davanti al rifiuto di sposarsi e la decisione di partire, era stata categorica: le aveva rinfacciato sino all’ultimo che se fosse morta di crepacuore sarebbe stata tutta colpa sua. Si può dare la colpa a qualcuno per una questione di natura? Emily era uno spirito libero, originale. Si era messa in testa di voler viaggiare proprio come la maggior parte dei ragazzi della sua età. Lo aveva confessato, una sera dopo cena, al padre, quando lui le aveva detto: «Mia cara, sei in età da marito da troppo tempo ormai, è dunque giunto il momento che tu accetti la proposta di Sir Russell. Ma insomma cosa ne vuoi fare della tua vita?».

«Voglio viaggiare» gli rispose Emily in modo impertinente. Poi si ritirò in camera sua certa che il padre ne avrebbe parlato con la madre. E da allora nelle orecchie di Emily risuona la domanda di Lady Cranborne: «Ma questo viaggio è davvero opportuno?».

Avida di colori, Emily voleva raggiungere a tutti i costi altri luoghi, altri climi. Lo Yorkshire dove era nata e cresciuta, conosceva solo due sfumature, il grigio uggioso di un tempo spesso nuvoloso e piovoso, e il verde cangiante della brughiera senza orizzonte. Londra era stata la città che le aveva dato il coraggio di fuggire prima di rimanere intrappolata in convenzioni inaccettabili. Londra le aveva offerto la possibilità di entrare a far parte di un contesto borghese e intellettuale, diverso da quello di provenienza. Un contesto che le aveva permesso di incontrare editori, scrittori, pittori, viaggiatori e di partecipare a eventi sociali e dibattiti vivaci. Londra era stata un toccasana per l’anima e la mente della giovane Emily. Settimane indimenticabili quelle londinesi; giorni frenetici impregnati dall’esplodere di movimenti artistici; ore trascorse nei vecchi club a bere e a parlare di pari opportunità. Eppure, all’improvviso, anche Londra le divenne ostile ed Emily desiderò di trovarsi altrove. Libera dai goffi abiti vittoriani, con un guardaroba da viaggio maschile, Emily giunse a Calais con il presentimento che non avrebbe rivisto più la sua terra nativa.

Attraversando prima l’Europa in lungo e in largo, e dopo l’Italia da nord a sud, mentre Emily si appassionava ai paesaggi naturali, George, studioso di opere d’arte, si occupò dei monumenti antichi, li catalogò e ne riprodusse i disegni. Fu un ottimo compagno, anche se meno entusiasta e meno adattabile di lei. Si lamentava del tiro a quattro che li costringeva a fermarsi in lugubri locande per via di una ruota che si doveva cambiare e delle forzate passeggiate per alleggerire il carico e permettere alla carrozza di attraversare guadi pericolosi. Quando giunsero in un porto sicuro del Mediterraneo, a due passi da un’isola che sapevano racchiudere in sé tutte le stranezze, i pregi e i difetti, di una terra aspra e selvaggia, era una tiepida mattina di novembre del 1860. Dalla sua famiglia, dai suoi amici, dalla sua terra la separavano 2.539 chilometri e quindici mesi.

«Oh, George di tutte le terre che ho visto questa è la più fantastica!». Emily si rivolse al cugino con gli occhi colmi di un tramonto mozzafiato. A pochi passi quell’incantevole isola del Mediterraneo che aveva sognato di raggiungere per tutta la vita.

George, annoiato, stava fumando l’ennesima sigaretta: «Siamo giunti in uno dei territori più impervi del nostro viaggio, Emily cara, mi chiedo: ne è valsa la pena?».

Una leggera brezza le scompigliava i capelli raccolti sulla nuca: «George, guarda quello scoglio incantevole che sorge vicino a noi come una tentazione. Guardalo, è bello a distanza ma, da vicino, non dà tregua, punte invisibili, sotto le alte onde, pungono e dilaniano. Quello scoglio è Scilla. Là in fondo, invece, c’è Cariddi, lo scoglio che la legenda racconta risucchi tutti coloro che gli si avvicinano. Tra loro un istmo di mare impetuoso. Lo stesso che ci divide dalla nostra ultima meta».

George, accarezzandosi il mento, spostò l’argomento altrove: «Gli uomini sembrano tutti briganti. Hanno in testa quell’orribile cappello a punta e ai piedi quei tremendi sandali di pelle di capra. Lo hai notato? I bambini poi sono troppo appiccicosi, ci stanno sempre intorno e ti guardano sbigottiti. E le donne, Emily, le hai viste? Camminano sempre con gli occhi bassi».

Emily e George erano affacciati a uno dei balconi delle due stanze attigue che avevano preso in affitto in una locanda vicino la spiaggia. Il proprietario aveva appena servito un pasto egregio, con una deliziosa varietà di pesce freschissimo. George si era lamentato del servizio, troppo spartano, e aveva notato con disgusto le posate di latta. Sbocconcellando di malavoglia disse di fretta: «Non credi che sia giunto il momento di rientrare? I tuoi sono molto preoccupati e avevamo promesso che saremmo tornati nel giro di un anno».

Affacciata alla ringhiera, Emily contemplava il mare trasparente, le onde che lambivano le scogliere e tutta una distesa infinita di agave colorato. Pensò che George fosse cieco di fronte a quella bellezza. Emily si soffermava spesso sugli incantevoli paesaggi che descriveva minuziosamente sul suo diario. George, invece, da perfetto lord inglese sembrava che viaggiasse non tanto per apprezzare le abitudini locali, ma per mostrare le proprie.

Alcuni giorni prima Emily aveva affittato una carrozza per esplorare i paesini della costa ionica, Bagnara, Palmi e Gioia. George aveva, invece, deciso di rimanere nella locanda ad aspettare impazientemente una lettera da Londra. Dopo diversi giorni percorsi tra scossoni e sobbalzi, lungo strade impervie e tortuose che attraversavano vasti campi di agrumi, Emily era ritornata alla locanda più entusiasta di quando era partita. Non finiva di raccontare, lì al tavolo con il cugino: «Sai George, i contadini baciano le mani ai loro padroni. Uomini dai modi rudi ma eleganti e profumati di bergamotto. Non puoi immaginare la varietà di fiori e piante che uno di loro, Don Ciccio, mi ha fatto vedere».

«Don Ciccio?» esclamò alzando le sopracciglia George.

«Mi ha accompagnato gentilmente nelle sue terre. Non so spiegarti che buffo inglese parla. Lo conoscerai presto, mi ha promesso che verrà a trovarci».

George si aggiustò le maniche della redingote e sollevando appena lo sguardo dal piatto, con aria compita, le disse: «Cara cugina, sei la figlia minore di Lord Robert Lowe e Lady Mary Cranborne, non puoi continuare a girovagare per il mondo come una qualunque signorina Smith. Ho appena ricevuto una lettera di Sir Russell, disposto a perdonare la tua partenza improvvisa e a ufficializzare il fidanzamento. Conosco Arnold da molti anni. Abbiamo frequentato Eton insieme. È il miglior partito che ti potesse capitare.»

Emily si rattristò. Il cugino, come sua madre, non la capiva. Si rivolse a George girando lo sguardo verso l’orizzonte: «George, Don Ciccio è un gentiluomo, mi ha portato a visitare le sue terre delimitate da siepi di aloe e cactus. Terre immense, aride, ma che producono frutta e verdura mai viste prima, e che ho ricevuto in dono dai suoi mezzadri, gente semplice, ma cordiale».

George non si emozionò ai suoi racconti e le rimproverò di aver girovagato per le campagne calabre accompagnata da uno sconosciuto: «Emily stai esagerando, per seguire questa tua ossessione non ti rendi conto dei pericoli a cui vai incontro, dimenticando persino di chi sei figlia e il ruolo sociale che ricopri».

Emily non voleva affrontare uno scontro, proprio adesso che si trovava a due passi dalla sua meta. Aveva ancora negli occhi l’ultimo angolo della costa da dove, affacciandosi, aveva creduto di toccare il Faro di Messina. E poi ripensava a Don Ciccio, al suo corpetto di velluto nero, allacciato e decorato con nastri a vivaci colori. Continuò il suo entusiasmante racconto, sperando di rabbonire il cugino: «Il viaggio è stato meraviglioso, i vecchi villaggi sulla costa sono pittoreschi, e il mare è stupendo, oh, George non ti arrabbiare, mi sono tuffata in quell’acqua cristallina. Don Ciccio quando ha saputo del mio desiderio di vedere la Sicilia mi ha accompagnata in un paesino stupendo, su un promontorio a picco sul mare, da dove ho visto l’Etna, dimora ora di divinità, ora di creature mitologiche tra cui Giganti e Ciclopi. Mi sembrava di abbracciarla. Andiamo in Sicilia, ti prego, scaliamo quella montagna e poi decidiamo se tornare in Inghilterra».

George si mostrò irremovibile: «Ho appena scritto ai tuoi genitori che domani riprenderemo la via del ritorno. Fra un mese sarò premiato dalla Royal Society, di cui entrerò a far parte. Non voglio perdere questa occasione. E poi voglio riprendere la mia vita a Londra».

Colma ancora da quella vista meravigliosa, dalla sensazione di aver quasi toccato l’Etna e, per un attimo, di essere stata in Sicilia, Emily si rivolse al cugino più determinata che mai: «Domani io attraverserò lo Stretto».

George, con il suo aplomb inglese, si alzò da tavola, fece un inchino e si ritirò nella sua stanza. In quel momento capirono entrambi che non si sarebbero mai più rivisti.

Emily, sulla sua comoda poltrona di velluto, fu destata dal saluto allegro di Teresa che tornava carica di borse della spesa: «Benediciti, signura!». E in quel benedicitierano racchiusi infiniti grazie: grazie per averla tolta dalla miseria, grazie per aver aperto la scuola serale, grazie di aver insegnato l’inglese alle sue figlie e di aver dato un futuro migliore a molte giovani. L’ora del tè era finita; di fronte a lei si ergeva l’Etna che aveva asceso più volte, divenendo agli occhi della gente del luogo un’impavida eroina. Innevata, fumante, suggestiva, oggi proprio come allora. Emily era come lei, a “Muntagna”, soggetta ai voleri della natura e alle sue improvvise e impreviste esplosioni. Mitica, incantata, imponente.

L’autrice

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