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Racconto di Elisa Mantovani

Era così, ormai, che la chiamavano in paese: la faina. Perché dicevano si infilasse nei letti che le donne del paese lasciavano liberi per il turno di notte, giù alla fabbrica tessile. 

Tutte chiacchiere, le solite voci nate dalla noia e dall’invidia che in quel paesino crescevano più delle ortiche selvatiche. 

Giuseppe non ci aveva mai creduto. Mai. Anche perché la famigerata faina altri non era che sua moglie Cesira, quella donnetta che tutte le sere lo accudiva amorevolmente e che per nessuna ragione al mondo avrebbe mai osato fargli un torto. 

«L’unico pollaio al sicuro è il tuo Beppe!”» gli urlavano qualche volta al bar, sghignazzando come matti. E lui se ne stava a fissarli, uno a uno, come se con quel suo sguardo rabbioso avesse potuto cancellarli dalla faccia della Terra.

All’inizio Giuseppe non ci aveva fatto caso. Pensava che la famigerata faina fosse una che bazzicava insieme alle altre, quelle prostitute che di tanto in tanto si fermavano nel loro paese dimenticato da Dio. Poi le cose iniziarono a delinearsi, soprattutto da quando il macellaio aveva preso a mestiere il giovane nipote. Poi ci fu la volta in cui Gepi si ferì durante una battuta di caccia, e Cesira andava tutte le sere a fargli la puntura su quel grosso sedere che qualcuno aveva scambiato per un cinghiale.

Da allora iniziò a dare peso a quelle voci: la faina che se ne andava in giro di notte, alla ricerca di un pollaio caldo in cui infilarsi. Ci fu anche il fatto del Casimiro, uno del Sud, un uomo che al posto delle mani sembrava avesse due badili – forte come una roccia – che improvvisamente si buscò la polmonite. Allora Cesira tutte le sere se ne andava a piedi fino al confine del paese per andare a fargli quelle maledette punture. Tutte le volte tornava trafelata, spettinata, e dava la colpa al vento, o alla nebbia.

Quando si fece male il garzone del macellaio, tagliandosi quasi di netto due dita della mano, ci furono altre punture per impedire all’infezione di portarsi via anche tutto il resto di quel bel ragazzone. Ci metteva tanto tempo a fargliele perché, si giustificava, a lui facevano tanto paura gli aghi: allora le voci divennero quasi un coro nella testa di Giuseppe.

Tutte le volte in cui lui lavorava fino a tardi, sua moglie usciva di casa e andava a fare punture anche a chi scoppiava di salute. Di sostegno diceva lei, punture toniche che servivano solo a dar forza a quegli uomini che sembravano spegnersi come candele al vento: perché nel giro di poco tempo molti uomini presero ad ammalarsi.

Le aveva date di santa ragione alla Cesira. L’aveva picchiata con la cinghia dei pantaloni, e poi anche a mani nude, lasciandole dei bei segni di un rosso incandescente sulla faccia e sulle braccia: tutti dovevano vederli, tutti dovevano sapere che il Giuseppe non era un uomo che si faceva mettere i piedi in testa da una faina.

Aveva preso ad accompagnarla tutte le volte che andava a fare le commissioni. 

«Ecco il cagnolino dietro la faina, che bella coppia! Attento, le faine sono furbe, aspettano un momento di distrazione e sei fregato!» gli urlavano i soliti perditempo del bar. Ma lui non ascoltava: la seguiva a testa bassa, puntando con occhi di fuoco chiunque osasse anche solo sfiorarla con lo sguardo.

Non dormiva più: se ne stava con un occhio chiuso e l’altro aperto, come il gatto che dormiva sulla sedia, sempre pronto a scattare al minimo movimento. Tante volte, però, aveva ceduto alla stanchezza, al peso del lavoro nei campi: si svegliava nel cuore della notte e lei non c’era. Allora correva come un matto per tutta la loro misera casetta, chiamandola come se stesse per essere divorato dalle fiamme. Lei arrivava poco dopo, con il cestello di vimini fra le mani colmo di strane piante puzzolenti, o uova, o chissà quali diavolerie che trovava in cortile.

«Cosa giri di notte, lurida troia!» le urlava contro, strappandole dalle mani il cestino e facendola precipitare a terra. Lei cercava di spiegare, di difendersi, ma a ogni parola le arrivava una sberla o un calcio, dritti in volto, sulle braccia, sulle gambe.

La lasciava così, tremante, singhiozzante, con tutte le erbacce che aveva raccolto sparse intorno a lei. Si sedeva e prendeva il fiasco di vino, quello rancido fatto da lui, e se ne stava a fissarla, chiedendosi cosa mai ci trovassero altri uomini in quella donna: non ci trovava nulla lui, perché mai altri avrebbero voluto desiderarla? Gli pareva impossibile.

Poi gli venne un dubbio: sta a vedere che questa gran cagna si fa pagare… ma certo, dev’essere così, pensò; le altre donne del paese sembrano tutte degli uomini, cominciò a valutare mentalmente: la meno brutta aveva due baffi così spessi che nemmeno il barbiere sarebbe riuscito a toglierglieli, forse solo il Brando con la falciatrice. Cesira in fondo le fattezze da donna le aveva ancora, aveva due seni pieni come meloni, un bel culo grosso su cui affondare i denti e non solo. La faccia lasciava a desiderare, ma rispetto alla media era una più che passabile. Come si diceva: “Nel carro dei brutti era la più bella”.

Quando si erano sposati, quasi vent’anni prima, non gli piaceva; ma vista l’alternativa (una ragazza con una gamba sola e un’altra che sembrava una balena) aveva deciso di prendersela. In fondo il padre gli aveva garantito che era una brava lavoratrice, che non si stancava mai. E aveva ragione. Non era riuscita a dargli dei figli però, e Giuseppe l’aveva confinata definitivamente allo stesso livello delle mucche che avevano nella stalla, o le galline nel pollaio. Non serviva a nulla, se non a mantenere pulita quella topaia in cui vivevano, e raramente fornirgli un buco in cui sfogare le sue sempre più rade frenesie sessuali.

Ma da quando si era sparsa la voce che lei era la faina, improvvisamente si sentì colpito. Ferito. Quella cosa era sua, continuava a ripetersi, era come se qualcuno gli avesse preso il trattore senza chiederglielo. Nessuno poteva – o doveva – permettersi di sfruttare ciò che fino ad allora era stata una sua proprietà: nessuno si sarebbe mai sognato di prendergli una mucca, o di rubargli le galline, o magari cogliere i frutti del suo lavoro nei campi, e la stessa cosa doveva essere con la Cesira.

Non si era mai interessato a ciò che quella donnetta facesse mentre lui era nei campi, né tantomeno quando se ne stava fino all’alba al bar a parlare con gli altri di tette e culi mai visti. Sapeva solo che ogni tanto si ritrovava la casa piena di erbe, che lei metteva a bollire in pentoloni enormi, e che puzzavano peggio dello sterco dei cavalli. Cesira diceva che erano decotti, per la signora con la gotta, o per il signore con il verme solitario. Strega, strega e puttana ecco cos’era per Giuseppe.

Iniziò a tornare prima dai campi, quando lei se ne stava a dare da mangiare alle vacche. Prese a rovistare ovunque, soprattutto nella vecchia credenza dove lei teneva le foto della sua famiglia. Erano brutti anche loro, tutti quelli della sua famiglia, soprattutto suo padre, una sorta di spaventapasseri in uniforme.

Non trovò i soldi. Chissà dove li teneva quella sgualdrina, continuava a ripetersi, sentendo l’ira montargli in corpo.

Già passare per il cornuto del paese gli dava sui nervi, in più si aggiunse il tarlo che quella maledetta si stesse arricchendo alle sue spalle, sul suo nome, e che magari progettasse di scappare chissà dove.

Ogni volta che cercava senza trovare nulla poi si sfogava su di lei, riempendola di botte.

Un’altra cosa strana, che proprio non riusciva a capire, era il fatto che tutte le altre donne del paese non dicessero nulla, non avessero la benché minima reazione nei confronti di quella che se la spassava allegramente con i loro uomini. Donne: erano peggio delle bestie per Giuseppe; le bestie lottavano per difendere il proprio territorio e loro? Loro se ne stavano a guardarla attraversare il paese, con gli occhi socchiusi, le bocche sigillate, come se a fissarla potesse cadere loro la faccia.

Alcune poi sembravano portarle rispetto, addirittura le rivolgevano un saluto, un sorriso. Alcune si fermavano fuori dalla bottega a parlarle fitto fitto, come se stessero confessandosi. Donne: esseri strani, inutili, dannosi, ecco cosa erano per lui.

Ne aveva parlato al bar, con gli altri uomini, in una delle ultime serate, prima che iniziasse il lavoro giù al campo, e si erano fatti delle grasse risate facendo a gara a chi facesse le battute più offensive. Sarebbe stato un periodo molto duro, faticoso, ma una cosa era certa: Cesira avrebbe faticato stavolta nel trovare un solo uomo libero, pronto ad accoglierla nel suo letto. Sarebbero stati tutti impegnati, tutti, a parte il meridionale e il garzone del macellaio.

Giuseppe continuò a cercare, e cercare, tastando nel fondo dei cassetti, dove la naftalina gli faceva quasi lacrimare gli occhi; controllò una a una le calze di Cesira, quelle che ormai aveva rattoppato così tante volte che al solo sfiorarle si disintegravano. E poi nel bagno fuori casa, in quel rettangolo puzzolente, affondando la mano nel liquame, spaccando le assi. Niente. Nemmeno l’ombra di un soldo.

Allora via a picchiarla, fino a quando sentiva il cuore battergli talmente forte da temere che gli uscisse dal petto e le mani indolenzite.

Lei tutte le volte subiva, se le prendeva tutte quelle botte; poi quando la furia del marito calava, iniziava a raccogliere il disastro che si lasciava sempre dietro. Raccoglieva le sue erbe, le metteva nel piccolo tinello e iniziava a lavorarle, asciugandosi le lacrime e il sangue che le correvano giù, fino al seno.

Giuseppe si inventò una cosa: l’avrebbe legata al letto, con nodi così grossi e stretti che forse nemmeno lui sarebbe più riuscito a sciogliere. E così fece.

Lo fece per tutte le notti che rimase in campagna a lavorare, eppure tutte le mattine, quando tornava a casa, l’odore di quelle maledette piante che lei metteva a cuocere lo colpiva come un pugno in pieno volto. Era come se riuscisse a slegarsi e continuare a fare le cose che faceva sempre, di notte, alla facciaccia sua. Eppure la ritrovava sempre come l’aveva lasciata: legata saldamente al letto.

L’ultima notte in cui Giuseppe sarebbe dovuto andare al lavoro la legò in un modo diverso, nel modo che facevano certi malavitosi per impedire alla loro vittima di fare il benché minimo movimento. Una sorta di tortura: se si fosse mossa la corda che le aveva passato lungo il collo e poi dietro, fino a cingere le mani e le gambe, l’avrebbe soffocata.  Forse dopo quel trattamento finalmente avrebbe confessato, gli avrebbe detto dove teneva i soldi, sì, glielo avrebbe detto questa volta, ne era certo.

Così gli uomini andarono al lavoro, cantando e ridendo, dicendo oscenità e dandosi pacche sulle spalle. Ognuno di loro aveva una bottiglia, piena di quel vino rancido che ormai erano abituati a bere, e bevvero tanto: quella notte il caldo era davvero soffocante. Bevvero a più non posso, poi lentamente uno a uno presero a cadere come frassini spezzati da un’ascia impietosa.

Al mattino nessuno tornò alla propria casa. Anche il garzone e il meridionale, quella mattina, non aprirono gli occhi: erano tutti morti, stecchiti. 

Le erbe di Cesira finalmente avevano fatto effetto. 

Lo aveva detto con le altre che bisognava aver pazienza, che a volte non era facile trovare quelle giuste, quelle pure. 

Cesira non sapeva né leggere né scrivere, ma sapeva riconoscere le erbe velenose dalle altre e sapeva anche quando era il momento più adatto per coglierle: di notte, quando la loro linfa era più densa.

Avevano provato con le iniezioni, ma erano troppo dolorose e ce ne volevano troppe.

Fu la moglie del macellaio a liberarla dalle corde, come aveva fatto le altre notti.

Allora tutte le donne del paese si ritrovarono a casa sua, chi con gli occhi ancora pesti per le botte subite, chi con tagli, graffi, chi con la pancia sformata da continue gravidanze. Si ritrovarono e si strinsero in un abbraccio silenzioso, poi ognuna caricò il proprio badile sulla spalla. 

Avevano un lavoro da fare, un lavoro pesante, l’ultima fatica che quegli uomini senza cuore né anima le costringevano a fare, ma questa volta lo fecero ridendo, dandosi pacche sulle spalle e dicendo oscenità finalmente libere, con Cesira che le guidava: la lupa che riuscì a fingersi faina.

 

Foto: Yuliya Yuliya su Pixabay

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