La donna che vedi

recensione di Stefano Bonazzi

La donna che vedi. L’accettazione attraverso il dolore.

 

«Il terzo libro è sempre il più difficile.» 

Me l’ha detto Michele Vaccari, durante una cena estiva sulla terrazza di un’amica pugliese. Me l’ha detto mentre si discorreva di talenti e identità autoriali, me l’ha confessato dopo un paio di bicchieri di rosso tosto, con le friselle che ormai scarseggiavano. 

«Il terzo libro è sempre il più difficile.»

Michele ha ragione.

Diavolo, quanto ha ragione.

Quindi che fare quando si arriva al terzo libro?

Me lo domando spesso anch’io.

Per Pannacci, scrivere l’ennesimo thriller sarebbe stato troppo semplice. Scrivere l’ennesimo noir sarebbe stato troppo semplice. Scrivere l’ennesima storia di riscatto sarebbe stato troppo, troppo, semplice. Amalgamare tutti questi generi in una conturbante strutturata narrativa, senza scadere nella retorica e nel facile patetismo, ecco, quello è già qualcosa di più interessante. Qualcosa da proporre a testa alta. Qualcosa che solo un’abile penna è in grado di maneggiare.

Lo ammetto, Pannacci mi aveva già convinto con il suo precedente romanzo, L’ultima menzogna, un noir claustrofobico, ambientato in una Rimini nera, nerissima. Un incubo onirico che trattava il tema dell’immigrazione attraverso uno specchio più ampio, abbracciando torbidi erotismi alla Eyes Wide Shut, denuncia sociale e spy-story.

Con La donna che vedi, seconda uscita per l’editore Fernandel, l’io narrante di Giovanni si sposta su Myriam Labate, una protagonista dal carattere forte, in apparenza freddo e distaccato, abituata a relazioni fugaci, all’uso costante ma controllato di marijuana, a vestiti eleganti e cene passate in solitudine nella sua lussuosa reggia di cristallo con vista iperbarica sul mondo. 

Myriam è un personaggio complesso e sfaccettato, tutt’altra pasta rispetto al goffo Nikel, il protagonista del romanzo precedente, Myriam è una figura che ha fatto del suo cinismo e della sua freddezza un punto di forza. È una donna all’apparenza inattaccabile, una donna che naviga nelle acque pericolose del mondo delle multinazionali farmaceutiche, un universo controllato da uomini privi di scrupoli, un universo che le ha gettato un’unica ancora di salvezza: Diktus Winter. Uomo speciale, non un semplice datore di lavoro, Winter si è rivelato in passato anche un saggio consigliere, una figura nobile, che più volte ha saputo colmare una figura paterna assente per Myriam.

Ma questo noi lettori lo apprendiamo solo dai flashback, perché Winter è morto da quarantotto ore e a Myriam Labate ora il mondo le sta crollato addosso. È un terremoto che già dalle prime pagine catapulta la protagonista all’interno di una serrata sequenza blackout, una frattura che mette in luce un’esistenza priva di memoria e una sequela di quesiti emersi da quella stessa terra che ha seppellito Winter all’inizio del romanzo. 

Le domande si insinuano, una fra tutte, la più importante: perché Winter l’ha obbligata a licenziarsi a pochi giorni dalla sua morte? 

Pannacci si diverte a maneggiare il tema della menzogna, come nel suo precedente romanzo, che già dal titolo lasciava intuire la sua natura ingannatoria, anche ne La donna che vedi, lo scrittore riminese imbastisce complessi castelli di specchi in cui ogni personaggio non è ciò che sembra, dando vita a una sequela di riusciti colpi di scena e cliffhanger che catturano il lettore strizzando l’occhio ai ritmi serrati dell’epoca Netflix.

Pannacci abbandona la cupa provincia di Rimini per addentrarsi in un territorio urbano ostile e ancor più notturno, senza dimenticare però, quello che ormai sembra essere diventato il suo tratto distintivo, ovvero l’abilità di coniugare le meccaniche collaudate di una spy-story, con la volontà di strutturare una trama dalle forte tinte di denuncia sociale. Immigrazione e identità personale sono infatti le parole chiave di quest’opera.

Myriam è ignara dei profondi stravolgimenti che la investiranno e gli improvvisi blackout che la travolgono sono solo l’avvisaglia di un palcoscenico più ampio e complesso che la condurrà, attraverso una sequenza di eventi, fino alla Ferriera, un quartiere periferico dalle forti tinte pynchiane. Lì approfondirà la sua conoscenza con l’emblematico Said, figura chiave del romanzo, che sembra avere un ruolo ben più complesso di un semplice pusher personale.

Alla domanda iniziale se ne aggiungeranno altre.

Chi è Myriam davvero? Chi è stata in passato e, soprattutto, chi sarà adesso? 

Diktus Winter era veramente l’uomo che diceva di essere e perché conosceva Said? 

Ho letto il romanzo di Giovanni durante una tratta in treno che attraversava aree della provincia tra la Lombardia e l’Emilia Romagna e non ho potuto fare a meno di riconoscere panorami affini alle atmosfere del romanzo. Cieli densi di nubi, dinosauri di cemento abbandonati, palazzi-alveari sovraffollati di ogni etnia, stazioni straripanti di persone. Troppe persone, troppi sconosciuti, come ci si può riconoscere nel mezzo di una folla se non ci si conosce davvero?

Forse il primo passo è accettarsi. Forse è proprio questo il messaggio alla base di questa storia. Perché La donna che vedi è prima di tutto un percorso di accettazione. La corsa a ostacoli di una protagonista che, senza svelare troppo del suo passato, sarà sottoposta a un complesso processo di maturazione. La donna che vedi è un romanzo che prende vita da un’apparente comfort-zone per poi spostarsi, evolversi ed esplorare la Ferriera, un agglomerato urbano stremato dal sovraffollamento e dalla povertà ma anche una società capace di ricostruire dalle ceneri una struttura civile autonoma che, anche sotto quella pesante coltre di fumo e cemento, non ha ancora perso il suo lato più umano.

La donna che vedi è quindi prima di tutto un romanzo di formazione identitaria e collettiva. 

La penna di Pannacci è abile nel tratteggiare personaggi dalle personalità articolate, solo all’apparenza inizialmente stereotipati (alcune citazioni filosofiche di Said forse sono un po’ troppo forzate), ma in grado di evolvere e stravolgere senza (s)cadere in facili cliché.

I brevi capitoli scorrono veloci, proprio come i binari del treno su cui l’ho divorato, lo sguardo dell’autore è sempre controllato, attento, un bisturi che incide la pagina con una padronanza chirurgica della parola. 

Pannacci, alla sua terza prova, si conferma un autore completo e maturo. La sua prosa, colta ed elegante, ben lontana dai confortevoli contesti radical chic, ha la peculiare capacità di lasciare un retrogusto di dolcezza e sincera positività sul palato dei lettori. 

Una penna necessaria, perché in quella Ferriera ci abitiamo tutti e, soprattuto, perché in tempi come questi, romanzi come La donna che vedi, sono una panacea per lo spirito.

Il terzo libro è sempre il più difficile, ma Pannacci ha superato la prova.

 

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