orgoglio e pregiudizio incipit

di Eva Luna Mascolino

It is a truth universally acknowledged, that a single man in possession of a good fortune, must be in want of a wife.

Inizia così Orgoglio e pregiudizio, una delle opere più celebri della scrittrice britannica Jane Austen (1775-1817), pubblicato per la prima volta il 28 gennaio del 1813 e tradotto ben 24 volte in italiano dal 1932 in poi. La lingua del Ventennio fascista era ben lontana dal neostandard del secondo millennio, così come lo era il pubblico di destinazione, il livello di istruzione medio nazionale, le aspettative di chi acquistava il volume, l’immaginario collettivo dell’epoca, le altre opere del medesimo genere di riferimento e le aspettative della maggior parte di chi decideva di fruirne. Di conseguenza, nel corso dei decenni, ogni professionista ha lavorato sul testo secondo una prospettiva specifica, nel tentativo di sembrare convincente e accurato, mantenendo contemporaneamente le intenzioni e lo stile dell’autrice.

Un incipit, dopotutto, è di importanza capitale in qualsiasi romanzo che si rispetti e serve a definire non solo una categoria di pubblicazioni, ma anche e soprattutto la voce di chi lo ha creato. C’è un motivo se Stephen King si distingue fin dalla prima occhiata da Lev Tolstoj, o se Grazia Deledda non si confonde con Marguerite Yourcenar – e il motivo consiste proprio nella riconoscibilità irripetibile, originale e travolgente della loro penna, che dipende da una specifica concezione del linguaggio, da una sapiente scelta del lessico e da una struttura sintattica ben precisa.

Nell’attacco austeniano, per tornare al caso in questione, l’impressione che se ne ricava è di una sententia formulata al tempo stesso con ufficialità e ironia, cioè con termini aulici ma che, applicati alle convinzioni della classe benestante di fare sposare un uomo con un certo patrimonio il prima possibile, appaiono quasi ridicoli. Si criticano dunque le consuetudini dell’epoca, affermate fin da subito eppure messe in discussione nel momento in cui si dà loro una patina di “rigore giuridico” – e ciascuno di questi aspetti deve emergere con altrettanta immediatezza e lucidità in traduzione, che si opti ora per un vocabolo e ora per l’altro, pena uno snaturamento infedele della lingua di partenza.

Ebbene, nel 1932 Giulio Caprin ha tradotto il passo come segue:

È una verità universalmente riconosciuta che uno scapolo provvisto di un ingente patrimonio debba essere in cerca di moglie.

Nel 1975, la versione di Isa Maranesi è stata invece:

È cosa nota e universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di un solido patrimonio debba essere in cerca di moglie.

Nel 2007, infine, con Fernanda Pivano è diventata:

È un fatto universalmente noto che uno scapolo provvisto di un cospicuo patrimonio non possa fare a meno di prendere moglie.

A livello di effetto finale, la locuzione in possesso non è troppo lontana da provvisto, alla pari sia di riconosciuto e noto – che veicolano entrambi l’idea di una legge non scritta eppure applicata con il massimo zelo – sia degli aggettivi ingente e cospicuo, eleganti al punto da suonare ilari. È con Debba essere in cerca di moglie e non possa fare a meno di prendere moglie che «incomincian le dolenti note», come avrebbe detto Dante Alighieri, giacché la prima sottolinea il carattere obbligatorio dell’azione, mentre la seconda la sua ineluttabilità anche a scapito della volontà dell’uomo in questione.

Per scoprire quale variante sia più appropriata non rimane che proseguire nella lettura e provare a capire se Jane Austen intendesse fermarsi alla prima sfumatura, ben esplicitata dal verbo inglese must, o avesse un messaggio più sottile da trasmettere. Una simile operazione è senza dubbio importante per chi legge, ma lo è ancora di più per chi traduce o ritraduce, per chi si occupa di critica letteraria e per chi porta avanti una ricerca, a dimostrazione del fatto che nessuna leggerezza è concessa quando si accompagna un testo da una lingua all’altra.

Del resto, se è vero che «un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire», come sosteneva Italo Calvino, è altrettanto vero che un classico tradotto è un libro che non ha mai finito di limare quello che ha da limare. Anche a costo di compiere dieci passi falsi pur di trovare l’unico autentico.

 

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