Il vecchio e l'Italtel - Ottavio MIrraIl vecchio e l’Italtel

di Ottavio Mirra

 

C’è troppa erba intorno a questo muretto, ci si nascondono gli animali. La mia busta col cibo è in pericolo, devo tenerla d’occhio costantemente. Li ho visti i topi passare, sgusciano veloci e gobbuti, si proteggono un lato rasentando il muro e mirano alla busta. Ho un ombrello e ne ho colpiti un paio, adesso non si avvicinano più tanto allegramente. Mi servirebbe un gatto piuttosto che un ombrello. Al diavolo la pioggia. Un bel gatto grosso, rapido e fedele, mi semplificherebbe la vita.

Io ci lavoravo in una fabbrica come questa che ho di fronte, con gli edifici a un piano che si snodano a serpentina, le aiuole curate, il piazzale per il parcheggio. Ci stavamo in cinquemila lì dentro. Nell’imbuto dei tornelli ci passavamo tutti, tutti tranne i dirigenti americani che avevano l’ingresso riservato. In fila parlavamo di cricket e di mogli, qualcuno malediceva il governo. Nei capannoni pieni di voci, assemblavo telefoni.

Sulla strada le macchine scorrono veloci, proprio come i telefoni sulla catena di montaggio. Chissà se dopo la curva finiscono negli scatoloni, imballate una per una nelle buste di cellophane. Non ci sono mai stato dopo la curva, per me la strada finisce prima. Duecento metri, avanti e indietro, avanti e indietro. Nessuno lo sa, ma ci sono un sacco di cose da vedere su questo piccolo tratto: gazze nascoste tra i cespugli che beccano carcasse di lucertole o uova di tortore, scarafaggi capovolti sul dorso che agitano inutilmente le zampe, formiche che aspettano. Duecento metri, avanti e indietro, avanti e indietro. Quando mi stanco mi siedo sul muretto. È per questo che appoggio la busta col cibo per terra, e pure l’ombrello e il cappotto. Mi riposo le braccia. Lo so che è estate e fa caldo, ma il cappotto devo portarlo per forza con me. Se lo lasciassi sul muretto, qualcuno potrebbe rubarlo e in inverno avrei un problema molto serio.

Mi siedo sul muretto e sento i rumori delle presse, lo sfiato dei tubi d’aria compressa per la verniciatura, la risata di Karim. Mi manca quella risata. Non gliel’ho mai detto, non è cosa da dire tra uomini, però mi manca.
Io, in Pakistan, ci lavoravo in una fabbrica così.

Sul muretto la sera aspetto il buio, quando tutto è spento e le macchine passano rade, attraverso la strada facendo attenzione che nessuno mi segua, nessuno mi veda.
Scavalco i cancelli arrugginiti, e sogno, sogno, sogno.

L’autore

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