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Cronache poco rassicuranti sul pendolarismo, l’estro e la vita.

Gioisco per 5 minuti, il treno è stranamente puntuale e potrò prendere il bus per arrivare a un’ora decente, magari recuperare 10 minuti. Arrivo alla fermata che sono le 7:29. Arriverà il 14 no? O almeno il 63. E invece la gente continua ad aumentare, passa il 18 – due volte – il 74, il 95, un altro autobus di cui non capisco neanche l’origine, ma del 14 e del 63 neanche l’ombra. Aspetto. Il 63 si decide per le 7:49. Risse, spintoni, siamo tutti in ritardo. Dopo un paio di fermate sale la solita vecchia bassa e dai capelli grigio canna di fucile. Un concentrato di astio e acrimonia formato tascabile. Si sta sempre più stretti, le nuove generazioni sono troppo alte – sarà un espediente evolutivo per sopravvivere alla massa? – i loro zaini mi oscurano la visuale sulla prossima fermata. E c’è questa riccia davanti a me, coi suoi capelli vaporosi e l’odore di corpi comincia a intaccarmi la psiche. Vorrei tanto, tanto, darle una testata sul naso, ben piazzata, e vedere farsi il vuoto attorno in una corsa pazza verso la salvezza. Visualizzo la scena, vivida. Sento l’adrenalina far pompare più forte il cuore, sto combattendo la battaglia dell’homo sapiens sapiens contro il nuovo nemico, la fiera 2.0: il lavoro 9:00-17:00 e le sue implicazioni. Ho solo una possibilità di non finire dentro: scendere alla prossima fermata.

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