Il bombardiere
di Elisa Mantovani
“Tina va a prendere il pane, il latte e anche lo zucchero. Tieni, mancano duecento lire ma devi dire a Savio che glieli porterò domani.” disse la mamma alla bambina, porgendole un piccolo portamonete.
Abitavano in un piccolo borgo dove si conoscevano tutti, dove una bambina di dieci anni poteva tranquillamente uscire senza correre il rischio di brutti incontri. Al massimo poteva imbattersi in Giorgione, il matto del paese, che pensava di essere un aereo, di quelli che sganciavano le bombe; correva sempre su e giù per lo stradone che attraversava quel piccolo agglomerato umano, con le braccia aperte e il vento che gli muoveva i lunghi capelli sporchi.
“Bum Bum Bum!” urlava; il suo obiettivo preferito era la bottega del signor Savio, che vendeva di tutto: dai salumi ai campanelli per le biciclette. L’aveva bombardata ormai mille volte: ogni giorno sganciava una delle sue mine immaginarie e poi se ne volava via, in quel suo cielo pieno di nuvole troppo spesse per riuscire a scorgervi un pertugio e atterrare nel mondo reale.
Tina storse il nasino: stava bene in casa, accanto al caminetto acceso. Giocava con la sua bambola preferita, quella con i capelli lunghi e biondi, che tanto avrebbe voluto avere: i suoi erano neri come i legni che si consumavano tra le fiamme, neri e ricci, tanto che la spazzola per lei era una vera e propria tortura.
“Quando sarò grande anch’io mi farò i capelli come la bambola, come la signora Lia” diceva tra sé e sé; la signora Lia era la moglie del macellaio e anche lei, quando era arrivata, aveva i capelli neri e ricci, ma poi un bel giorno non li aveva più: era diventata bionda e quell’intrico di boccoli che aveva sulla testa adesso sembrava seta. La mamma diceva che quella era una poco di buono, che spendeva i soldi del marito per rendersi ridicola. La bambina non capiva, e quella volta che le disse di volere i capelli come la Lia per tutta risposta le arrivò un ceffone.
“Quella è una gatta morta. Vuoi esserlo anche tu?” le aveva urlato; una gatta morta: cosa voleva dire? Si chiedeva spesso Tina: non doveva essere una bella cosa, no, ma forse la mamma esagerava, esagerava sempre in fondo, come quando Giorgione le aveva preso contro in uno dei suoi raid aerei e lei era andata dal papà dicendogli che l’aveva quasi buttata a terra, che quello era pericoloso e che avrebbero dovuto rinchiuderlo una volta per tutte.
Così la bambina prese i soldi e uscì, immergendosi nella nebbia fitta che fino a poco prima aveva osservato dalla finestra sentendosi al sicuro, accanto al caminetto.
La bottega di Savio era poco distante; non riusciva a vederla, non vedeva nulla. Scorgeva sagome, fanali di biciclette che si materializzavano in piccoli bagliori, nient’altro. La scuola era appena dopo la casa del macellaio e si rese conto di esservi davanti solo quando vide l’enorme cancello chiuso da una catena arrugginita; vederlo così le diede un meraviglioso senso di libertà e gongolò al pensiero del Natale ormai vicino: se solo la maestra non avesse dato loro i compiti sarebbe stata la bambina più felice al mondo. Scacciò quei pensieri e s’incamminò verso la bottega.
La nebbia le faceva paura, tanta anche, ma la mamma le aveva detto che non era altro che una nuvola caduta dal cielo e che, quindi, là in mezzo al massimo avrebbe potuto incontrare qualche angioletto sperduto.
Tina si fece coraggio, stringendosi il bavero del cappottino sul viso e, saltellando in quel mare grigio, andò verso il suo destino.
Arrivarono i Carabinieri, con i cani, le luci delle loro macchine che mandavano strani bagliori in quella coltre fumosa; Giorgione cercò di bombardarli subito, urlando come un matto che erano arrivati gli extraterrestri, ma poi fu costretto a un atterraggio di fortuna in prossimità del Maresciallo.
Tina era scomparsa, volatilizzata: non era mai arrivata alla bottega di Savio, così andava ripetendo lui passandosi la mano sul viso. Nessuno l’aveva vista, nessuno l’aveva incrociata, tutti presi a cercare un punto di riferimento in quella maledetta nebbia soffocante.
Il giorno dopo arrestarono Giorgione: era l’unico che poteva averla presa, l’unico che sembrava ricordarsi di lei: “L’ho vista sì, l’ho vista ma poi mi hanno chiamato alla radio: dovevo fare rifornimento capite?” aveva detto.
Aveva detto anche altre cose, cose senza senso, come ad esempio che doveva bombardare Savio, che doveva farlo assolutamente e che se non l’avesse fatto gli avrebbero strappato per sempre le ali. Diceva che era rimasto senza bombe quel pomeriggio, che era una brutta cosa, una gran brutta cosa, e che avrebbe potuto salvare quella bambina se solo fosse andato a bombardare la bottega.
Ripeté continuamente quelle parole arrivando fino a piangere disperato tanto che, alla fine, il Maresciallo iniziò a pensare che forse Giorgione non doveva essere matto del tutto.
Al Maresciallo Savio non era piaciuto, gli era sembrato nervoso, soprattutto quando il matto prese a urlare che doveva bombardarlo una volta per tutte: era diventato paonazzo e non aveva più fiatato.
Dopo due giorni dalla scomparsa di Tina i Carabinieri si recarono alla bottega di Savio.
La controllarono bene, cercando in ogni suo angolo, finché sentirono una voce che sembrava provenire da sotto il pavimento. Il Maresciallo ebbe un tuffo al cuore: piantò le ginocchia e le mani a terra, e così fecero gli altri; bussavano e chiamavano, con Savio che se ne stava in un angolo buio, la faccia bianca come un cencio e gli occhi sbarrati. Fu proprio il Maresciallo a sollevare un tappeto liso e a trovare, sotto di esso, una piccola botola di legno. In due scesero col cuore in gola, irritata dalla polvere e dalla sporcizia che regnava in quell’antro. Gli altri militi rimasero di sopra a controllare Savio, che iniziava a mugolare di paura. Trovarono la bambina: era là sotto, nascosta dietro cumuli di vecchi mobili e sedie ammassati tra loro, infreddolita, spaventata, ma viva.
Aveva un grosso livido sulla guancia sinistra e gli occhi gonfi di pianto ma, per fortuna, l’orco non aveva portato a termine il suo disegno mostruoso.
Tina venne riportata a casa, tra le lacrime di gioia dei suoi genitori e di tutto il piccolo borgo; Savio invece iniziò a piangere non appena si ritrovò le manette ai polsi. La cosa che lo faceva disperare di più, che lo avrebbe tormentato per il resto dei suoi giorni, era che a rompergli le uova nel paniere era stato proprio Giorgione, l’uomo che considerava al pari di uno dei tanti scarafaggi che schiacciava nel retrobottega. Lui aveva capito, aveva capito quello che tutti gli altri non riuscivano a vedere: aveva visto il male che si annidava nel suo animo come un tarlo, che l’aveva portato a rapire Tina per dare tregua finalmente a quella smania che non lo faceva dormire alla notte, che gli faceva battere forte il cuore ogni volta che una bambina entrava nella sua bottega. Tina sarebbe stata la prima, perché quella bramosia che sembrava corrodergli l’animo non si sarebbe mai placata solo con lei: gliene sarebbero servite altre, tante altre.
Appena lo rilasciarono Giorgione riprese a volare.
Volò tra la nebbia che andava diradandosi, con le braccia aperte e i capelli che gli si attaccavano al viso per l’umidità. Volò anche accanto alla casa della bambina, dove si fermò alcuni minuti, giusto il tempo per riposare il motore stanco, poi riprese quota, librandosi più leggero e felice che mai.
“Giorgione, chi vai a bombardare oggi?” gli chiese qualcuno ma lui non rispose. Si limitò a sbatacchiare le labbra in un BRUUUUUMMMM che si spezzava solo quando riprendeva fiato.
Volò fino ad arrivare alla catapecchia dove di solito dormiva.
Il suo hangar, come la chiamava lui; la gente gli aveva fatto regali e offerta una casa, ma lui rifiutò tutto. Nella sua catapecchia teneva le munizioni: là poteva controllare tutto il borgo e difenderlo.
Spense il motore e si gettò sul pagliericcio che fungeva da letto, pensando ai suoi prossimi obiettivi: il macellaio, che vendeva carne avariata; la maestra elementare che picchiava e umiliava i bambini come fossero l’origine di tutti i suoi problemi. Il calzolaio che amava tanto i piedi delle sue clienti al punto di pensare di tagliarglieli via e custodirli in una teca per poterli annusare e toccare ogni volta che voleva. Nessuno era ciò che sembrava in quel borgo e solo lui lo sapeva.
“Solo chi riesce a volare sopra le menti altrui può vederle certe cose” disse fra sé e sé.
Rimase a fissare il cielo che intravedeva dal soffitto rotto, un cielo nero, senza stelle e immaginò di essere lassù, libero finalmente di fuggire da tutto quello squallore, mentre le lacrime presero a tracimargli dagli occhi.