HOTEL LOBBY
di Nü delle Storie
NEW YORK, 1943
Era tardi e, seduta su quella poltrona, cominciava ad avere freddo.
Approfittando dell’assenza del marito che aveva accompagnato i bambini alla lezione di tennis, si era tolta l’ampio grembiule per indossare il suo vestito preferito, quello blu. Aveva scelto i sandali con il cinturino alla caviglia, che pensava le sfinassero le gambe. Aveva ravvivato appena i capelli e spruzzato una nuvola di profumo nell’aria, entrandovi dentro, affinché le minuscole goccioline, ricadendo, la avvolgessero come in un abbraccio. Il momento avrebbe richiesto maggiore solennità, ma non c’era tempo.
Fred sarebbe potuto tornare prima del previsto, non avendo voglia di assistere a tutta la lezione dei gemelli o forse sua suocera avrebbe potuto decidere di andare a trovarla.Aveva raccolto pochi gioielli, il romanzo che stava leggendo, ed era uscita di casa, lasciando le chiavi all’interno. Aveva preso il primo taxi e, solo dopo essersi lasciata andare sul sedile di pelle scura, si era accorta di aver dimenticato il cappotto.
Per un attimo aveva pensato al disorientamento dei bambini che, una volta rientrati a casa, non l’avrebbero trovata sull’uscio, pronta a liberarli dalle racchette e dagli indumenti sporchi. Aveva immaginato il disappunto di suo marito nel non trovare la tavola apparecchiata e la cena pronta.
Era il giorno del loro anniversario. Non aveva lasciato alcun biglietto.
Nel traffico dell’ora di punta la strada verso l’hotel le era sembrata allungarsi all’infinito.
Aveva estratto dalla borsa il delicato orologio d’oro che Fred le aveva regalato per il loro primo anniversario, ed aveva constatato che mancavano solo pochi minuti all’appuntamento.
Finalmente dal finestrino aveva riconosciuto l’aspetto familiare della sua destinazione. Il vicolo era tanto stretto che il tassista era stato costretto quasi a fermarsi per imboccarlo. Le ruote avevano slittato un paio di volte sul pavé ancora bagnato di pioggia. L’unico lampione, sospeso al muro dell’hotel, era già acceso nel crepuscolo ed un corvo vi sostava appollaiato in una collocazione estemporanea.
Aveva pagato il tassista lasciandogli una mancia generosa ed era entrata.
Il maître, riconoscendola, aveva abbozzato un saluto continuando a scartabellare alla luce fioca di una lampada, dietro al suo bancone.
Una coppia attempata ma distinta si intratteneva nella hall.
Si era seduta nella poltrona più defilata ed aveva controllato nuovamente l’orologio: Billy era in ritardo.
Aveva iniziato a sfogliare il libro ed ormai da più di mezz’ora era immersa in una lettura confusa mentre si mordeva le labbra, rabbrividendo ogni tanto al contatto dell’aria fredda che, alle sue spalle, proveniva dai profondi spifferi delle finestre che davano sulla strada.
Nell’attesa ogni tanto alzava gli occhi verso l’anziana coppia di fronte a lei. La donna, il vestito rosso e lo sguardo altero, sedeva quasi immobile su una poltrona, il cappello piumato calcato in testa. Talvolta sembrava scuotersi da una sorta di spleen e alzava lo sguardo verso il marito che stava in piedi accanto a lei, con lo spolverino appeso al braccio e lo sguardo perso a cercare qualcosa sui vetri della porta di ingresso.
Pensò alla sua vita con Fred.
Il campanello all’entrata tintinnò e si volse trepidante verso l’ingresso, alla ricerca del corpo imponente di Billy, ma niente. Era il fattorino, un ragazzino sulla decina. Consegnò un pacchetto al maître, che firmò una ricevuta sgualcita.
Continuò a leggere per un poco, ma le parole del romanzo si fondevano nella sua mente con l’ansia dell’attesa, lasciando scie miste di immaginazione e ricordo.
Si alzò strofinando i palmi delle mani sulle braccia.
Nel vicolo la luce malferma del lampione trasfigurava la realtà. L’orologio segnava già le nove.
Lo squillo metallico del telefono della reception la fece sobbalzare.
«Hotel Lexington, buonasera» disse il maître con tono monocorde. «Sì…sì, è qui. Gliela passo?» un breve silenzio. «Certo, riferisco.» Riagganciò spolverando subito la cornetta con un fazzoletto color crema che teneva nel taschino della giacca.
«Signora Johnson» la chiamò con discrezione. Era questo il nome che lei e Billy avevano sempre dato all’atto della registrazione.
«Sì?» rispose lei, avvicinandosi titubante al bancone. «Il signor Johnson è impossibilitato a raggiungerla. Mi ha pregato di consegnarle questo.» Le porse il pacchetto dall’involto immacolato, su cui campeggiava un sigillo di ceralacca corallo e in cui riconobbe il marchio di una famosa gioielleria della città.
Si sedette sulla poltrona, appena sulla punta, la schiena tesa. Strappò la carta. Il cofanetto di morbida pelle, che si dischiuse docile sotto le sue dita, custodiva un orologio da uomo dalla cassa d’oro finemente cesellata ed il cinturino di pelle martellata. Corrugò la fronte, senza capire, la cipria che le copriva il volto appena più lucida di un istante prima. Prese la piccola busta avorio che accompagnava il pacchetto, confusa.
Il suo nome, quello vero, era scritto sul retro in una calligrafia barocca che non conosceva.
Aprì la lettera.
“Gentile Signora,
Lei deve essere ben poco avvezza ai fatti del mondo se ha pensato che il povero Billy avrebbe lasciato i suoi agi per un’avventura romantica! Mentre Le scrivo è qui, ai miei piedi, che tremante mi implora di non allontanarlo. D’altronde come farebbe, povero caro, senza il Golf Club, le serate al Casinò, la sua collezione di auto sportive?
Invero questa spiacevole vicenda non mi stupisce: quando sposai un uomo tanto più giovane misi in conto i suoi capricci da scolaretto. Ora è per Lei che provo una gran pena e nessuna animosità, La prego di credermi. Le mando pertanto una prova di quanto Le dico.
Non è tardi per salvare il Suo matrimonio e lasciare il povero Billy alla sua vita. Mi ascolti: torni a casa e porti questo orologio a Suo marito. Gli dica che, con i suoi risparmi, ha voluto fargli questa sorpresa e che non aveva altro modo per non insospettirlo se non andare a ritirarlo a tarda ora.
Il gioielliere è un caro amico e, se interrogato, confermerà questa versione.
Conto che non avremo altri motivi per risentirci.
Cordialmente,
Lady Somerset”
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