Teratophobia
di Gaia Giovagnoli
Se decidi di intitolare “Teratophobia” la tua raccolta d’esordio poetico vuol dire che hai raggiunto quella maturità necessaria per guardare in faccia un certo tipo di situazioni senza scostare il capo, abbassare la testa o farti tremare la mano. Il pericolo è dietro l’angolo: basta un arretramento, un silenzio, una parola non spesa a pieno per tradire la fiducia di quel lettore che ha deciso con te di solcare l’abisso. E quell’arretramento, sia chiaro, sarebbe perfino giustificabile: perché la notte, a occhi bendati di sonno, col buio diffuso nelle stanze, tutto congiura contro, tutto promette di inghiottire, tutto vuole scomodare fantasmi passati, in quella paura del mostro che trascina sotto i letti la parte bambina e che fa cadere giù dai letti quella adulta in una battaglia a perdere che si rinnova quotidianamente.
Gaia Giovagnoli trova il coraggio – e la grandezza – per compiere un’operazione di scavo, a testa alta e a penna ferma, concretizzando un’azione di sincerità e ricerca svolta con la freddezza e la bravura del palombaro chiamato a portare alla luce quei terrori che non sono propri dell’autore né di una presupposta letteratura femminile: sono paure umane queste, profonde, terribilmente comuni, con volti di poco distanti per ciascuno eppure tanto simili e personali per coloro che si avvicineranno alla lettura.
Gonfiori che maturano sotto cute e che non producono, in apparenza, alcun bubbone. Gonfiori da indagare, da tirare fuori, da operare con attenzione, aprendo i lembi di una carne sfilacciata e sanguinosa che l’autrice non teme di scrostare e fendere, entro un corpo – a volte contenitore, altre prigione – che diventa custodia di passati, cancello da abbattere al prezzo di dolore (“Prova: tenermi rotta / con la gola infuriata / Se non dimentico il corpo / a morsi vuoti me lo strappo”), esercitando linee ben precise mediante una penna che si fa bisturi e seziona con esattezza ogni area da indagare: si considerino le quattro parti dell’opera – Io, Loro, Lui, Tu.
Il prezzo dello scavo – profondo, dilaniante (“Anche un cassetto / in queste case / è un baratro aperto”) – sta in una presa di coscienza di una realtà per nulla edificante, disturbante anzi, che dà ai mostri visi e fattezze, rammendando un passato che rende lo stesso soggetto parte del dolore e sua vittima privilegiata (“mi chiamavano bambina / mi vestivano da brava / nel mondo andavo così / da aggettivo a nome corto”) in un sanguinoso ripescaggio che richiede l’attenzione e la preparazione del chirurgo, giacché quella di Giovagnoli non è parola solo scelta o scavata, tritata invece, resa particola e frammento, per analizzare ogni epifania, ogni ricordo, ogni tassello riemerso in superficie in fila al tabaccaio o nel pieno della quotidianità.
Solo nella conoscenza di questo passato tortuoso, oscuro e soffocante che ciascuno di noi cerca di evitare, di abortire quasi, si realizza la possibilità di una nuova condizione che vede, in una ferita ricucita e medicata e in un male conosciuto e chiamato col suo nome, la possibilità di un incontro col prossimo, di una condivisione che diventa fratellanza nella consapevolezza di una condizione comune, conosciuta e riconosciuta a ginocchia appoggiate intorno a un tavolo stretto.
Giovagnoli sarà pur di corporatura minuta, ma ha compiuto un’opera da gigante che pochi – davvero pochi – avrebbero avuto il carisma di compiere confezionando una galleria di testi poetici che non conoscono cadute né titubanze.
Edito da: ’round midnight edizioni
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