" Le spiagge di Zandvoot " di Davide SavorelliLe spiagge di Zandvoort

di Davide Savorelli 

 

Monaco, 20 aprile 1986

Nonna Henny! Nonna Henny! – urlò la piccola, mentre si scapicollava zampettando giù per le scale di legno.

Non correre Ariadne! – la rimproverò lei, seduta sul divano del salotto, illuminato da un lucente sole primaverile dopo alcuni giorni di pioggia.

Guarda cos’ho trovato in soffitta, nonna! – esclamò la bambina quando le fu davanti, ansante e trionfante. Gli occhietti vivaci brillavano d’eccitazione per quella scoperta. Le stava porgendo una consunta scatola metallica.

L’anziana la prese delicatamente e se la mise sulle ginocchia. Non ricordava di averla mai vista, ma certo era colpa dell’età, e così anche lei rimase sorpresa quando l’aprì: era ricolma di vecchie foto, ingiallite dal tempo e con i bordi ondulati.

La bambina batté le manine tutta contenta per quell’inaspettato tesoro. – Chi sono quelle persone? – domandò curiosa.

Siamo io e il nonno quando eravamo giovani. – spiegò lei, quasi commuovendosi a quell’ondata di ricordi. Lei e il marito erano ritratti in diverse pose: il giorno del matrimonio, in vacanza sul mare in Olanda, tra le montagne del Berghof in tipico costume bavarese… Poi ce n’erano altre, dove la coppia veniva immortalata in occasioni ufficiali, attorniata da uniformi naziste e addirittura con lo stesso Hitler. Si affrettò a riporle, quasi vergognandosi di quegli echi del passato.

Chi le ha scattate, nonna? – chiese la bimba.

È stato mio padre Heinrich, il tuo bisnonno, Ariadne. – rispose lei, facendole una carezza.

Ma chi sono tutti quei soldati? Eravate travestiti per Carnevale? C’era la musica? Vi divertivate a ballare in maschera, nonna Henny? – la tempestò di domande.

Un carnevale? Sì, in un certo senso era stata una crudele festa di pazzi, la più feroce che sia mai stata organizzata, considerò tra sé Henriette Hoffmann, che fino al 1950 aveva portato il cognome del marito, von Schirach. – Erano amici del nonno, cara. Ma non c’è più nessuno: sono tutti morti. – spiegò con dolcezza.

Anche questo era un amico del nonno? – le domandò, mettendole sotto il naso una fotografia che era caduta a terra.

L’anziana la prese ma faticò a distinguere quelle due figure: la sua vista era appannata. Allora inforcò gli occhiali con montatura di corno, che teneva attaccati al collo con una catenella, per riuscire a mettere a fuoco i due soggetti. Erano entrambi in canottiera e calzoncini corti. C’era l’ex marito, all’epoca solo un ragazzo, che teneva per le spalle un altro giovane. Probabilmente un suo coetaneo, anche se era più alto e robusto di lui, con un imponente zazzera nera che gli copriva la fronte. Non lo conosceva. Chi poteva essere?

Suppongo di sì… – rispose lei, mentre cominciava a riporre le immagini nella scatola. Cercando di sistemare le foto, si accorse che sul fondo c’era una busta. La prese e la esaminò: era aperta e aveva il timbro postale di Lipsia, con la data dell’11 gennaio 1934, mentre l’indirizzo era quello di quando lei e Baldur abitavano a Berlino. Chissà chi gliel’aveva inviata? – Vai a riportare la scatola dove l’hai trovata, Ariadne: ma non correre, mi raccomando. Quando scendi ci prepariamo e usciamo a fare un giretto al parco, va bene?

Certo, nonna: faccio la brava! – e si allontanò saltellando, felice alla prospettiva di andare alle giostre dell’Englisher Garten.

Attese che se ne fosse andata e poi aprì la lettera. Perché lui l’aveva conservata? Cosa c’era di così importante? Cominciò a scorrere le righe, scritte con una grafia sghemba e in un tedesco un po’ stentato, come se l’autore non padroneggiasse bene la lingua.

Domani mattina sarò morto. Domani mattina verrò ghigliottinato e sarà stata colpa tua, Baldur. La nostra, o forse dovrei dire la mia, amicizia ci ha condotto a questo punto…

Sono pronta, nonna! – esclamò la vocina squillante dall’ingresso.

Arrivo subito, tesoro. – disse lei, turbata, riponendo i fogli sul tavolino. Avrebbe continuato a leggere più tardi. Si alzò e si avviò per indossare il cappotto e accompagnare la sua nipotina.

Berlino, 30 gennaio 1933

Un fiume di fuoco. Una mareggiata di fiaccole che marciavano al passo dell’oca. Un’ondivaga corrente abbagliava la notte lungo la Wilhelmstrasse. Gli stivali ritmavano ostentati il corteo. Un urlo terribile, ossessivamente cadenzato, si alzava da quella fiumana e ammutoliva qualsiasi altro rumore. Una striscia luminosa proseguiva a perdita d’occhio e squarciava le tenebre berlinesi.

Dietro una finestra, un uomo anziano osservava quella scena. Le luci di quel trionfo si riflettevano nelle sue pupille velate. Era incantato da quella scena e non riusciva a staccarsi dal vetro, nonostante i suoi aiutanti e attendenti cercassero di farlo ritirare. Le loro insistenze non avevano effetto: da vero prussiano non si lasciava convincere facilmente. Rimbrottò duramente chi voleva, con insistenza, indurlo ad arretrare. Rimase immobile, a gambe larghe, ad ammirare quello spettacolo ipnotico. I suoi imponenti baffi, ingrigiti dall’età, fremevano d’eccitazione.

Non sono meravigliosi? – domandò all’improvviso a chi gli stava vicino.

Gli astanti rimasero interdetti: non sapevano cosa rispondere. Si riferiva a quelli? A quegli esaltati in camicia bruna che stavano sfilando inquadrati per la strada qualche metro più sotto? Ma se aveva affidato l’incarico di Cancelliere al loro capo solo perché non si poteva fare altrimenti? Come poteva adesso apprezzarli?

Come dite, signor Presidente? – ebbe il coraggio di chiedere qualcuno.

Paul von Hindenburg non si girò per rispondere, ma rimase con lo sguardo fisso su quella processione interminabile, che aveva qualcosa di marziale e religioso al tempo stesso. – I miei soldati, intendo, non sono meravigliosi? – ripeté.

Gli altri si guardarono stupiti: cosa voleva dire con “i miei soldati”? Quelli erano degli squadristi che disprezzavano la democrazia! Quelli erano dei fanatici fedeli unicamente alla loro guida e non alle istituzioni! E lui? Lui che aveva rifiutato per ben due volte di concedere il Cancellierato a quello che chiamava “il caporale austriaco”, adesso sosteneva che quella era la parata di una nuova Reichswehr?

Von Falkenhayn non aveva capito niente, vero Ludendorff? – chiese retoricamente lui. Ma Erich Ludendorff non era lì, non c’era! Con chi stava parlando il Presidente? Dopo il fallito colpo di Stato di Monaco, a cui si era prestato cedendo alle lusinghe di Hitler, Ludendorff era stato tagliato fuori da tutto, praticamente un monumento a se stesso, ma appunto quasi una statua su cui defecavano tutti, non soltanto i colombi.

Von Hindenburg proseguì nel suo soliloquio, rivolto al commilitone immaginario: – Adesso che abbiamo preso noi le redini del comando qui a Verdun, le cose cambieranno, vecchio mio! Guarda le nostre truppe come sfilano gagliarde e pronte alla lotta! – esclamò, indicando le camicie brune in marcia, illuminate dai sinistri barbagli delle torce –  Gli faremo gettare tutto il sangue che hanno in corpo a questi maledetti francesi, li dissangueremo goccia a goccia, mio ottimo Ludendorff!

L’entourage del Presidente del Reich impallidì: il Feldmaresciallo credeva di essere a Verdun nel 1916! Aveva 85 anni, era vero, ma non aveva mai dato segni di squilibrio o di perdita di lucidità, fino a quel momento. Gli ultimi mesi lo avevano di sicuro affaticato e ne avevano provato la pur forte fibra. Forse quello era solo un momento di debolezza senile e una buona dormita lo avrebbe ricondotto all’usuale capacità di giudizio.

Venite, signor Presidente. – fece accomodante uno dei suoi consiglieri – È stata una giornata lunga e impegnativa per Voi. Fareste meglio a coricarvi, non trovate?

Lui si riscosse e parve essersi reso conto di dove si trovava, tornando alla realtà. – Avete ragione… – mormorò – Sarà meglio che io mi ritiri. E con un saluto militare, come se portasse ancora l’elmo chiodato, batté e i tacchi e uscì.

Trascorsero alcuni istanti in cui nessuno sapeva cosa dire o come commentare l’accaduto. Nel silenzio della stanza, arrivavano da fuori le note dell’Horst Wessel Lied, che saliva, come una marea, da migliaia di gole esagitate. Si guardavano l’un l’altro, smarriti  e muti per quell’improvviso tracollo del Presidente. Decisero che ne avrebbero parlato il giorno seguente: anche loro avevano bisogno di un sonno ristoratore. Uno di loro, però, aveva ben altro da fare: era un giovane di belle speranze che aveva aderito al Partito fin dal 1924. Si chiamava Baldur von Schirach.

Fece in fretta a raggiungere la Cancelleria del Reich, seguendo un itinerario che evitava di incrociare la sfilata trionfale. Era lì il punto focale della celebrazione. Non lo vedeva, ma sapeva che Hitler era alla finestra a bearsi di quel traguardo a lungo inseguito, sognato, bramato e finalmente raggiunto. Quei vecchi soloni di Franz Von Papen e Alfred Hugenberg credevano che sarebbero stati i burattinai in grado d’imbrigliarlo, ma si sbagliavano di grosso. Si fece riconoscere dalle guardie delle SS che piantonavano uno degli ingressi posteriori e così riuscì ad accedere. Da una delle stanze arrivavano lugubri le note dell’inizio del secondo movimento della Settima Sinfonia di Beethoven. Risuonavano solenni sotto la magistrale  bacchetta di Furtwängler, ma echeggiavano fatali e inesorabili, come i passi di un destino che proseguiva inarrestabile sul cammino della Storia.

Arrivò alla porta della stanza dove si trovava il Führer e si fece annunciare da un valletto in livrea. Sentì che da dentro arrivava l’assenso al suo ingresso dalla voce tonante del Presidente del Reichstag, Hermann Göring. Il giovane non attese che quel tirapiedi tornasse per scortarlo all’interno e aprì la porta con l’esuberanza della sua età. Tutti, tranne Hitler, si voltarono di scatto a fissarlo per quell’inaspettata diversione dal protocollo. Göring lo squadrò ma con un’aria indulgente, Goebbels ridacchiò e si alzò dalla sedia imbottita su cui era seduto. Cercando di dissimulare la sua zoppia con un’andatura accelerata, gli andò incontro per salutarlo.

Porto novità importanti. – esordì quello.

Göring riuscì a udirlo e si avvicinò a sua volta. Hitler dava loro le spalle e non si accorse di nulla: continuava a salutare instancabilmente le sue truppe che gli tributavano ovazioni incessanti dalla strada, mentre continuavano a scorrere interminabili sotto il suo sguardo spiritato.

Quali novità, ragazzo? – gli domandò il futuro Ministro della Propaganda.

Il presidente Von Hindenburg… ha dato segni di squilibrio.

Questa sì che è una notizia! – commentò Göring con il suo vocione.

In che senso? – s’informò più cautamente Goebbels.

Poco fa, mentre assisteva alla sfilata, credeva di essere ancora a Verdun.

Lo sapevo, sapevo che quella vecchia cariatide prima o poi avrebbe ceduto. Se non fosse per quel branco di miserabili che gli stanno attorno, ci avrebbe dato in mano il Governo fin dal luglio scorso: il popolo tedesco era tutto con noi già allora. – chiosò iroso il Presidente del Reichstag.

Questo può essere un elemento a nostro vantaggio. – rifletté a voce alta Goebbels. – Se Hindenburg non è più padrone di se stesso, significa che per noi sarà più facile da manovrare. Sempre che abbia le spinte giuste e che Von Papen non si metta in mezzo. Ma ci serve un gesto eclatante, qualcosa che induca Hindenburg a lasciarci le mani libere… – continuò, seguendo il filo del suo ragionamento interiore – Dobbiamo fare in modo che si convinca che senza di noi, senza la nostra volontà e azione la Germania rischia di finire nel caos…

Nelle grinfie degli ebrei e dei rossi. – puntualizzò Göring.

Già ma gli ebrei non rappresentano una minaccia abbastanza pressante: non si sono mai scontrati con noi, non hanno mai fatto dei morti, lo sappiamo bene. – fece Goebbels – No, i comunisti: ecco sono loro i nostri avversari. Sono loro i nemici che dobbiamo proporre al Presidente! Gli faremo sapere che stanno preparando una rivoluzione che è pronta a scoppiare a breve, non appena verrà dato il segnale… sono lì a tramare nell’ombra, sono qui, nascosti tra noi, con le mani sulle armi, con il dito sul grilletto… e noi dobbiamo stroncarli prima che la Germania si trasformi in una provincia dell’Unione Sovietica! – si entusiasmò a quella sua ricostruzione apocalittica.

Va bene, ma bisogna capire come fare. Dobbiamo lavorarci per organizzare il tutto e a noi servono tempi stretti Joseph! – obiettò Göring.

Su questo hai ragione Hermann, dobbiamo muoverci in fretta ed escogitare qualcosa che spaventi tutti, che faccia dire alla gente: non se ne può più di questi terroristi, di questi debosciati, pensateci voi! Già, ma cosa? – si domandò Goebbels.

E se colpissimo un simbolo? – s’intromise Baldur von Schirach.

Un simbolo? E quale? – chiese Göring.

Se distruggessimo il Reichstag? – propose il giovane.

Il ragazzo ha ragione, Hermann! – s’infervorò Goebbels – Bruciamo la sede di questa democrazia decadente, di questo rimasuglio di Weimar e tutti crederanno che è opera dei rossi! Tutti si convinceranno che la rivoluzione bolscevica è alle porte e che bisogna fermarla con ogni mezzo possibile. Persino Hindenburg ne sarà sconcertato e non potrà far altro che darci pieni poteri, a costo di sospendere anche i diritti costituzionali in questa emergenza e noi ne approfitteremo per il colpo di mano che ci scrollerà di dosso qualsiasi opposizione. Visto che il Presidente è mentalmente indebolito, sarà ancora più facile convincerlo che lo spauracchio comunista deve essere annientato quanto prima. Bravo von Schirach! Ottima pensata! – si congratulò con lui, battendogli una mano sulla spalla.

E io avrei già in mente a chi affidare l’operazione: un certo Otto Skorzeny, lo chiamano lo sfregiato ed è uno in gamba. – suggerì Göring.

D’accordo, ma questo riguarda l’atto pratico… noi dobbiamo fare in modo che vengano incolpati i comunisti di questo incendio che richiede la nostra vendetta. E bisogna che siano colti in flagrante, altrimenti potrebbero sempre negare e accusarci di aver messo in piedi questa montatura per eliminarli. – precisò Goebbels.

Di questo posso occuparmi io. Conosco una persona che potrebbe fare al caso nostro: è un olandese, un comunista dichiarato e che ha già alle spalle degli episodi analoghi… – disse Baldur von Schirach con fervore.

Allora è deciso: io contatterò Skorzeny, tu questo comunista e poi, quando tutto sarà predisposto, entreremo in azione. – confermò Göring.

Eccellente! Mi occuperò di preparare il terreno con una campagna giornalistica sul Völkischer Beobachter a partire da dopodomani. Quando ripeti una bugia cento, mille, un milione di volte, allora diventerà la verità. – concluse Goebbels.

I due gerarchi nazisti congedarono il giovane: ormai tutto era stabilito e non rimaneva che mettersi all’opera. Il Fuhrer, intanto, era ancora alla finestra, nonostante le folate d’aria gelida di fine di gennaio.

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Amsterdam, 31 gennaio 1933

Sfogliando il giornale, non riusciva a credere a quello che leggeva. La birreria fumosa era piena di clienti, ma nessuno sembrava essere sconvolto da quelle notizie: i nazisti avevano preso il potere in Germania e tutti continuavano a vivere come se niente fosse. Non capivano? Non intuivano quali sarebbero state le conseguenze di quella situazione? Era sconcertato. Quello era un dittatore e a breve avrebbe schiacciato i compagni tedeschi!

Koos! Koos! – lo chiamò scuotendolo per risvegliarlo dalle nebbie etiliche.

Cosa vuoi? – biascicò quello intontito.

Koos non c’è un minuto da perdere! Dobbiamo intervenire! Dobbiamo andare ad aiutare i fratelli tedeschi! – disse quello con tutta l’urgenza di cui fu capace.

Ma noi? E cosa possiamo fare? – domandò l’amico, riprendendo poco a poco coscienza di dove si trovava.

Come cosa possiamo fare? Koos dobbiamo esserci: è nostro preciso dovere intervenire laddove il socialismo è in pericolo. E sono sicuro che i compagni si stanno già attrezzando per rovesciare questo regime fascista! In Germania la rivoluzione è alle porte e noi non possiamo far finta di niente!

Ma noi siamo solo in due… – obiettò l’altro.

Io e te potremo dare un contributo importante, Koos. Andiamo a Berlino, ci mettiamo in contatto con quelli del KPD e restiamo a disposizione. Se restiamo inerti saremo più colpevoli degli altri: pur coscienti della minaccia abbiamo preferito restare immobili. Guarda cosa succede in Spagna, guarda in Italia! Non capisci? Ci stanno accerchiando! No, domani partiamo e faremo il nostro dovere. E poi ho delle conoscenza ad alti livelli… – insinuò lui per incuriosire l’amico.

Sì, come no! – lo derise l’altro.

Davvero! Conosco uno fin da quando eravamo ragazzi. All’epoca abitavo vicino a Leida e lui tutte le estati veniva con la famiglia in vacanza a Zandvoort. Sua madre era una musicista e suo padre era il direttore di alcuni teatri. Siamo diventati amici e ci siamo tenuti in contatto in questi anni. Si chiama Baldur e adesso è uno degli esponenti emergenti dei nazisti, ma io so che è una maschera: il suo cuore batte per la nostra causa, è un trotzkista camuffato e non mi stupirebbe se lavorasse in incognito per il Politburo!

Questa è bella! Figurati se un alto papavero nazista è un doppiogiochista sovietico! Hai bevuto troppa birra, te lo dico io!

Ah, è così? Non mi credi, eh? Allora vieni a Berlino con me che te lo dimostro! – esclamò quello con aria di sfida.

Ma se non ti fanno neanche entrare in Germania con i tuoi trascorsi. Ti sei dimenticato che sei finito in galera in Polonia solo qualche mese fa? – gli ricordò.

Non c’è collegamento tra quei due paesi, cosa vuoi che ne sappiano le guardie di frontiera tedesche di quello che è capitato laggiù? Comunque sono problemi miei. Se mi fermano, almeno tu potrai passare e agire per entrambi. Cosa ne dici Koos?

Ammettiamo che io sia disponibile a seguirti in questa follia, ma cosa faremo una volta che saremo arrivati a Berlino? – gli chiese nuovamente l’amico.

Te l’ho detto: ci uniremo ai compagni tedeschi e vedremo cosa intendono fare. Se poi non sono pronti, allora agiremo da soli.

Certo… tu sei pazzo! – disse Koos e si alzò barcollando dalla sedia.

L’altro lo bloccò prendendogli un braccio: – Dove vai?

A pisciare, se non ti dispiace. – fece quello divincolandosi. Quando tornò al tavolo, l’amico aveva lo sguardo perso nel vuoto.

So già cosa faremo Koos! – gli annunciò trionfante. – Daremo fuoco agli edifici pubblici di Berlino!

Questa è una follia! Che senso ha? – gli domandò.

Ci faremo aiutare dal mio amico per entrare e poi incendieremo tutto, il palazzo imperiale, il Reichstag! Probabilmente, una volta che le masse paurose avranno visto andare in fiamme queste roccaforti del capitalismo, potranno scuotersi dal loro letargo e ribellarsi alla dittatura nazista, per quanto all’ultimo minuto! Come fai a non vedere l’ingiustizia a cui questa società ci sottopone? Come fai a non vedere la miseria della classe lavoratrice schiacciata dal sistema capitalistico che ci nega persino la speranza? Basterà un gesto, un solo gesto clamoroso e i lavoratori, galvanizzati, si ergeranno a lottare uniti contro la loro oppressione! – fece lui, esaltato da quella tirata sociale.

Non mi hai convinto, ma verrò con te. Sappi, però, che se c’è qualcosa che non mi quadra, io me ne torno qui ad Amsterdam.

D’accordo. – fece quello – Intanto preparati a partire. Io scrivo al mio amico e gli comunico che stiamo arrivando. La Storia parlerà di noi, Koos!

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Berlino, 27 febbraio 1933

Franz von Papen aveva invitato il Presidente per una cena informale. Ci teneva affinché fosse un abboccamento privato, lontano da orecchi indiscreti. Lontano soprattutto dagli informatori dei nazisti, che sembravano controllare ogni conversazione, ogni dialogo, ogni chiacchierata attraverso i volonterosi collaboratori di cui già disponevano a ogni livello del potere. Così si era incaricato lui stesso di andare alla residenza presidenziale, con la propria auto, per accompagnarlo al Club von Berlin in Jägerstrasse. Lì, era sicuro, avrebbe avuto la riservatezza di cui necessitava. Si sussurrava che Paul von Hindenburg, ormai in là con gli anni, stesse dando cenni di cedimento. Voleva sincerarsene personalmente.

Arrivarono all’elegante palazzo poco dopo le 18.30 e subito il portiere si occupò di accompagnarli in una saletta privata dove sarebbe stata servita la cena. Il locale presentava una facciata slanciata, con quattro ordini di finestre, già magnificamente illuminate, che conferivano all’edificio una certa leggiadria architettonica. I pavimenti erano coperti di tappeti dai motivi orientaleggianti che viravano al rosso e anche le pareti erano adornate di arazzi, creando un’atmosfera ovattata. I lampadari, rigorosamente in cristallo di Boemia, splendevano allegri ma discreti, all’insegna dell’eleganza che contraddistingueva l’intero ambiente. Nella sala che era stata loro riservata, era acceso un caminetto con ciocchi di pino che diffondevano un piacevole aroma di resina. I due vennero accolti da un cameriere impeccabile, mentre il maître e il sommelier già li attendevano all’unico tavolo, apparecchiato con un finissimo tovagliato di Fiandra, bicchieri di Waterford e posate d’argento con il sigillo del Club. Al centro si ergeva un elaborato candelabro a cinque braccia, dove ardevano svettanti delle candele bordeaux.

In attesa delle loro ordinazioni, venne versato del Riesling Renano accompagnato da una dozzina di ostriche. Von Papen non era ancora pronto a intavolare la discussione, così attese che il Presidente scegliesse cosa mangiare prima di cominciare un discorso che poteva presentarsi pieno di insidie. L’ospite decise che si sarebbe tenuto leggero, così optò per un consommé Olga, dell’anatra arrosto con salsa di mele, del paté di foie gras con asparagi e del Waldorf pudding come dessert. Il Vicecancelliere, invece, preferì continuare con il pesce, per cui chiese una zuppa di crostacei, del salmone con salsa mousseline e cetrioli, e una crema beau rivage chantilly per concludere. Il tutto sarebbe stato innaffiato con del Dornfelder del Palatinato per il Presidente e del Sylvaner della Franconia per von Papen.

Siccome il cameriere rimaneva impettito, seppur a rispettosa distanza, a fianco del tavolo, il Vicecancelliere preferì discutere di argomenti generali, talora distanti dalla politica, durante il pasto. Di certo von Hindenburg si era reso conto che quelli non erano i veri motivi per cui l’aveva invitato, ma sembrava stare al gioco e non aveva fretta di arrivare al nocciolo della questione. Mangiarono deliziosamente come sempre e, quando ebbero terminato, si ritirarono nel vicino fumoir, ordinando dell’Armagnac per accompagnare i sigari.

Una volta soli, avevano infatti un campanello per convocare eventualmente un inserviente, si accomodarono nelle ampie poltrone Chesterlfield imbottite, in pelle color porpora. Si accesero i Bolivar e si appoggiarono soddisfatti allo schienale. Von Papen prese l’ampio Napolèon pieno di brandy e ne sorseggiò un goccio per saggiarne la qualità e poi ripose il bicchiere sul tavolinetto che lo separava dall’altro.

Immagino che vi domandiate la ragione per cui vi ho chiesto di cenare insieme questa sera… – esordì quello.

Non è per la mia famosa compagnia, Vicecancelliere? Suppongo sia risaputo che posso essere un uomo gradevole con cui trascorrere qualche ora. – disse von Hindenburg, allargando un sorriso sotto i fluenti mustacchi.

Certamente, signor Presidente. – accondiscese l’altro – Ma più di tutto volevo chiedervi che cosa ne pensate di questa situazione che si è venuta a creare. Voi sapete che io e Hugenberg ci siamo impegnati per… come dire… restringere il Cancelliere e i suoi accoliti, per evitare i loro eccessi e quelli delle loro camicie brune. Per il momento ci stiamo riuscendo, ma non siamo sicuri di quanto potremo andare avanti… Così sono venuto a chiedervi: se capissimo che la faccenda ci sta sfuggendo di mano, quali misure dovremmo mettere in campo? Qual è il vostro suggerimento, qualora si verificasse questa malaugurata eventualità?

Il vecchio generale aspirò una boccata generosa dal suo sigaro prima di rispondere e poi si piegò in avanti verso il Vicecancelliere, come se volesse entrare in maggiore intimità o confidargli un segreto: – Chi è prudente e aspetta con pazienza il nemico che non lo è, uscirà vittorioso. – poi tornò ad appoggiarsi allo schienale.

Quindi, se ho ben capito signor Presidente, voi suggerite di temporeggiare, di rimanere a vedere come si evolve la situazione? – chiese l’altro per avere la certezza di aver compreso.

Mio caro von Papen, un tempo ero un uomo d’azione e ci furono momenti in cui condivisi con Ludendorff questa smania di intervenire a tutti i costi, di piegare il corso degli eventi con la mia granitica volontà… ma la Storia si è incaricata di sbugiardarmi e quel vagone ferroviario, in mezzo ai campi di Compiègne, è là – indicò con il sigaro un punto indefinito e lontano – a testimoniare la mia sconfitta. – concluse amaro.

Ma non sarebbe un errore maggiore lasciare che gli eventi procedano senza che si attivi una prevenzione per evitare derive dittatoriali? – gli chiese l’altro.

Scusatemi ma non vi comprendo, von Papen. Voi e Hugenberg mi avete assicurato, anzi rassicurato sul fatto che sareste stati in grado di arginare Hitler e i suoi, vista la loro inesperienza di governo e la loro fondamentale incapacità di gestire lo Stato. Adesso, invece, a meno di un mese di distanza, siete qui a consultarmi come se toccasse a me prendere le decisioni che spettano a voi. Lo trovo un atteggiamento quantomeno bizzarro, Vicecancelliere. – fece lui severo.

Il punto è, signor Presidente, che il Cancelliere e il Presidente del Reichstag, di concerto con quel Goebbels, ci tengono all’oscuro delle loro manovre e, a quanto pare, il servizio segreto è dalla loro parte. So di ufficiali deviati dell’Abwehr che ormai non servono più il Reich, ma unicamente i nazionalsocialisti. – confidò diminuendo il tono della voce, come se ci fosse qualcuno che potesse sentirlo.

Quindi voi ritenete che ci sia in atto una manovra finalizzata a spodestare le istituzioni tedesche a vantaggio di Hitler e dei nazisti e, il tutto, sotto il nostro naso? È corretto, signor Vicecancelliere? – chiese von Hindenburg.

Sì, signor Presidente. – confermò quello.

Si tratta di un’accusa molto grave, perché, alla luce di tutto questo, io dovrei nuovamente sciogliere il Reichstag e indire altre elezioni. Non solo, dovrei mettere sotto accusa, per alto tradimento, Hitler e Göring con il rischio di trovarmi contro 13 milioni di tedeschi. – spiegò lui – Avete qualche prova tangibile a sostegno di queste vostre affermazioni, von Papen? – gli domandò.

No, signor Presidente. – ammise lui – Ma ci sono molti indizi che mi portano a questa conclusione. Quelli stanno preparando qualcosa per mettervi alle strette e piegarvi, obtorto collo, alla loro volontà, signor Presidente. – fece gravemente.

Hindenburg cominciò a tremare, come se avesse un attacco epilettico, ma era solo lo sforzo che stava facendo per contenere la propria ira. Von Papen non lo aveva mai visto in quelle condizioni di alterazione e si preoccupò. Stava per scuotere la campanella e chiedere aiuto, quando il Presidente si alzò in piedi, fissando il vuoto davanti a sé. Rimase come pietrificato per qualche istante, poi si scolò d’un fiato il suo cognac. Spense il sigaro con furia e poi fissò il Vicecancelliere, ma era come se non lo riconoscesse: – Ludendorff! – urlò – Disponete tutta l’artiglieria sulle colline di Romagne e Morimont, sia quella campale che quella pesante, e fate fuoco a volontà su quei maledetti francesi! Martelliamoli senza pietà finché avremo munizioni: quei cani non devono sentirsi al riparo in nessun luogo! Mi avete sentito Ludendorff? Sbrigatevi! – gli ordinò con inusitata fermezza.

Von Papen non capì subito quello che stava accadendo, ma poi si rese conto che il Presidente era tornato a fare il Capo di Stato Maggiore a Verdun! Cosa doveva fare: stare al gioco o cercare di farlo tornare alla realtà?

Proprio in quel momento si spalancò la porta del fumoir. Era un cameriere! Come osava entrare in quel modo? Il Vicecancelliere lo avrebbe fatto licenziare immediatamente dal Club.

Perdonate, signori. Vi chiedo umilmente scusa per il disturbo. – si affrettò a dire quello con un inchino – Ma è scoppiato un grosso incendio dalle parti della porta di Brandeburgo! – esclamò concitato, indicando la vetrata della sala. Von Papen e Hindenburg si voltarono: nel fervore della discussione non si erano accorti di nulla. Da sopra i tetti si potevano vedere bagliori rossastri che rischiaravano il cielo notturno poco più lontano da dove si trovavano.

Me ne compiaccio, Ludendorff: vedo che abbiamo già cominciato a cannoneggiare quei dannati mangiarane! – esclamò il Presidente rivoltò a von Papen.

Il cameriere restò interdetto a quell’affermazione, ma von Papen fu lesto a spingerlo fuori, prima che si accorgesse delle condizioni di Hindenburg. Prese il Presidente sotto braccio e, in fretta e furia, uscì dal Club von Berlin, lasciando una mancia generosa. Lo riaccompagnò con la sua auto fino alla residenza presidenziale: se lo tirava dietro come se fosse un enorme fantoccio privo di qualsiasi volontà. Come aveva fatto a ridursi in quello stato così improvvisamente? Era un’altra gatta da pelare, ma ci avrebbe pensato il giorno dopo. Adesso c’era quell’incendio in pieno centro che lo preoccupava: le fiamme arrubinavano le tenebre sopra una vasta area della zona di Mitte! Doveva essere enorme… ma cosa stava bruciando? Ebbe la risposta non appena arrivò nel Tiergarten, guidando come un pazzo, fin nei pressi della Colonna della Vittoria: la cupola del Reichstag era sventrata e parzialmente crollata su se stessa; dalla voragine uscivano enormi lingue di fuoco, mentre nell’aria volteggiavano ceneri e brandelli di carta, come in un’immane e atroce carnevalata. Raggiunse l’ingresso del palazzo del Parlamento tedesco: nello spiazzo antistante si trovavano già decine di squadre di vigili del fuoco che stavano lavorando alacremente con le manichette per cercare di domare quel rogo distruttore. Si fermò a guardare quell’orribile spettacolo, domandandosi cosa fosse successo.

Mentre stava avvicinandosi per chiedere informazioni, notò che sulla scalinata, sotto le colonne del timpano, c’erano Hitler, Göring e un’altra persona, un giovane: era Baldur von Schirach! Cercò di raggiungerli, ma gli venne impedito dalla polizia. Cercò di protestare, ma inutilmente: gli agenti addussero ragioni di sicurezza per vietargli l’accesso alla zona.

I comunisti! Sono stati i comunisti! – urlava Göring. – Questo è l’inizio della rivoluzione rossa! Questo è il segnale! Siamo tutti in pericolo!

Dobbiamo schiacciarli questi maledetti bolscevichi! È una questione di vita o di morte: o noi o loro! Göring vai a stanare i loro capi! Arrestali e falli fucilare prima dell’alba! – gli urlava Hitler.

Dal Reichstag uscirono due poliziotti che trattenevano un uomo a torso nudo, con evidenti tracce di bruciature e segni neri di fumo. Lo presentarono ai due gerarchi e a quel punto, improvvisamente, von Schirach lo schiaffeggiò. Quello parve stupito ma non si ribellò a quell’aggressione,  quindi fu scortato via.

Von Papen non riusciva a comprendere: chi era quell’elemento male in arnese che era uscito dal Reichstag? L’incendiario? E cosa c’entravano i comunisti? Davvero i bolscevichi avevano potuto azzardare una mossa tanto sfrontata? Senza curarsi delle conseguenze? Ma se un russo non va nemmeno al cesso senza avere un piano! E se avesse ragione Göring? Se quello fosse realmente il segnale per l’inizio della rivolta armata dei rossi? No, era impossibile. E se invece fosse quello il piano che avevano tramato i nazisti per imporsi e rafforzare il loro potere? Doveva andare subito dal Presidente per avvertirlo, purché si fosse ripreso almeno un poco. Si affrettò per raggiungere la sua auto e mettersi nuovamente al volante.

Quando arrivò al Palazzo Presidenziale si rese conto che era troppo tardi: c’erano già le Mercedes nere 770 W07 di Hitler e Göring. Baldur von Schirach era a fianco delle auto e stava fumando. Mentre si avvicinava per riuscire ad avere udienza con  Paul von Hindenburg, sopraggiunse un’altra macchina da cui scese Goebbels che, arrancando, entrò di filato nella dimora presidenziale.

Von Papen cercò di fare lo stesso, ma venne subito bloccato da un manipolo di SS che se ne stavano di guardia all’accesso principale. Nonostante le sue rimostranze, sempre più insistenti e accalorate, i miliziani nazisti non retrocessero di un centimetro dalla loro posizione. Erano esemplari selezionati di quella razza ariana di cui vagheggiava Rosenberg: alti, biondi e con occhi chiari che spiccavano sul nero delle uniformi. Il Vicecancelliere non poté fare altro che ritirarsi, ma decise che avrebbe aspettato Hitler, Göring e Goebbels all’uscita. Gli dovevano delle spiegazioni  per il loro comportamento e, per Dio, se le sarebbe fatte dare.

Quando von Schirach lo vide tornare sui suoi passi, si accese un’altra sigaretta e ridacchiò. Von Papen, percependo lo scherno di quel risolino, s’infuriò e si diresse verso di lui per chiedergli conto di quell’atteggiamento derisorio.

Cos’hai da ridere, ragazzo? – lo apostrofò lui, parandoglisi di fronte.

Buonasera, signor Vicecancelliere. – fece quello cerimonioso – Ridevo perché mi sono ricordato di una barzelletta divertente.

Ah sì? E allora perché non la racconti anche a me? Fai ridere anche me, von Schirach! – gli intimò von Papen.

Certamente, signor Vicecancelliere. Si tratta di una storiella davvero spassosa. Un giorno Stalin si reca in visita da un compagno la cui moglie ha appena partorito addirittura cinque gemelli. Quando arriva nell’abitazione dei neogenitori, il marito lo saluta e gli dice: “Cinque nuovi comunisti, compagno Segretario Stalin!”. La moglie però lo corregge e dice: “Quattro nuovi comunisti: uno ha appena aperto gli occhi”. – e rise nuovamente a quella freddura.

Non c’è male, von Schirach. – ammise l’altro sorridendo.

Vero? E pensare che non è nemmeno così lontana dalla realtà di quello che è avvenuto questa notte, Vicecancelliere. – disse quello sibillino.

Cosa intendi dire? – domandò lui sulla difensiva.

Ma come, un uomo come voi, di così grande esperienza, che ha navigato per anni nei flutti della politica… Non avete capito?

No, non ho capito. – fece von Papen innervosendosi per quella schermaglia.

Strano… – commentò, aspirando una boccata – Voi del Centro Cattolico, Hugenberg e i suoi del Partito Popolare Nazionale Tedesco, quelli del Partito di Centro Tedesco e i Socialdemocratici siete i gemelli che non vedono, noi, i Nazionalsocialisti, siamo il neonato che finalmente ha aperto gli occhi e ha capito. Così agiamo di conseguenza, mentre voi continuate a brancolare nel buio, signor Vicecancelliere.

Von Papen stava per ribattere quando vide uscire dal Palazzo Presidenziale il terzetto che stava per raggiungere le auto: quei tre sembravano particolarmente soddisfatti e lui si avvicinò per parlargli.

Signor Cancelliere, mi dovete delle spiegazioni! – gli disse con spavalderia.

Io non vi devo proprio niente, signor Vicecancelliere. In questo momento calamitoso ho voluto conferire con il presidente von Hindenburg per questioni di massima urgenza. Domani, come tutti, saprete di cosa abbiamo deciso e di cosa si tratta. Buonanotte, von Papen. – gli rispose Hitler, mentre stava già salendo su una delle Mercedes.

Ma voi non potete liquidarmi così, signor Cancelliere! – protestò lui – La mia carica mi dà il diritto di conoscere…

Ti accontento subito, von Papen. – s’intromise Göring, passando al tu, in maniera sgarbata. – D’altra parte mi pare giusto che tu sappia cosa succederà: il Presidente von Hindenburg ha firmato il Decreto dell’incendio del Reichstag, un provvedimento d’urgenza che dichiara lo stato di emergenza per la protezione del Popolo tedesco e della Germania! Sospendiamo un po’ di inutili diritti costituzionali che ci sono d’intralcio: gli oppositori saranno schiacciati senza pietà. Ritieniti avvertito anche tu, signor Vicecancelliere e regolati di conseguenza. – concluse minaccioso. Poi salì sull’altra vettura e se andò.

Von Schirach aprì la portiera a Goebbels che non si premurò nemmeno di salutare Franz von Papen. Lui rimase in mezzo alla strada a guardare quelle auto che scomparivano nella notte insieme alla libertà.

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Lispia, 09 gennaio 1934

“Domani mattina sarò morto. Domani mattina verrò ghigliottinato e sarà stata colpa tua, Baldur. La nostra, o forse dovrei dire la mia, amicizia ci ha condotto a questo punto: tu ai vertici di quella banda di criminali con cui ti sei messo; io in una cella schifosa a trascorrere la mia ultima notte in questo mondo. Un giorno, mi ricordo, tu mi dicesti che la prima legge dell’amicizia è di chiedere agli amici cose oneste e di fare per gli amici cose oneste. Ebbene io ti domando: dov’è finito questo tuo principio? Perché mi hai esortato a compiere ciò che entrambi ritenevamo giusto ma che si è rivelato un inganno per me? Il tuo voltafaccia è stato la prima fonte della mia rovina. Io non mi lamento di quella che sarà la mia sorte, ma della delusione di aver mal riposto la mia buona fede.

Quando mi hai contattato, io ti ho creduto. Ho creduto che fossimo ancora quei ragazzi, quelli che sognavano un mondo migliore, più giusto, più equo sulle spiagge di Zandvoort. Che errore ho commesso, Baldur! La tua finzione, il tuo mascheramento hanno saputo ingannarmi nel modo più atroce. Dov’è finita la tua lealtà? Per cosa l’hai contrabbandata? Per i soldi, per avere potere, per poterti affermare a scapito di tutti? Sei tu la mia sconfitta più grande Baldur, perché avevo confidato nella tua onestà, che invece si è rivelata un paravento.

Forse penserai che lo schiaffo che mi hai dato quella notte davanti alle macerie del Reichstag sia stata la mia più cocente delusione, ma ti sbagli. Quando ti ho visto, quando ho visto a chi ti accompagnavi, ho compreso. Quel gesto violento faceva parte di una messinscena di cui io ero stato ingenuo protagonista. No, non è stato un manrovescio a fiaccarmi, ma l’aver finalmente capito quello che purtroppo eri diventato. Troppo tardi, ora mi è chiaro.

Lo scoprirti dietro la maschera che avevi sempre indossato, mi ha concesso un’altra rivelazione, una rivelazione accessoria se vuoi, ma che è stata in grado di cambiarmi totalmente. Sono stato arrestato subito, mi avete preso immediatamente e il tutto era un chiaro indizio che la cosa era già stata organizzata. Poi ho considerato la violenza dell’incendio, la rapidità con cui si è propagato nel Reichstag e la sua forza devastante e ho capito! Ho capito che non poteva essere stata solo opera mia: in incognito qualcun altro, ben più esperto, si era messo al lavoro insieme a me. E chi poteva sapere quando e come avrei agito, se non tu? Quindi è stato facile trarre le conclusioni: sei stato tu a far scattare la trappola in cui io mi sono trovato invischiato. Tu, insieme ai tuoi scherani, banditi dal primo all’ultimo, avete fatto in modo che il mio gesto fosse travisato in qualcos’altro. Il fuoco purificatore, che volevo diventasse simbolo di libertà, lo avete trasformato in una minaccia inesistente al servizio dei vostri più abietti scopi. Quel rogo, che sarebbe stato la campana a martello per la sveglia su un domani migliore per i derelitti del Lumpenproletariat, lo avete trasfigurato nella campana a morto delle libertà civili, individuali e collettive. In questo siete stati abili, devo riconoscerlo, e sono certo che un piano del genere è frutto della tua intelligenza, quell’acutezza e lungimiranza che hai sempre dimostrato ma che hai piegato al servizio di un Male superiore.

Però poi mi sono reso conto che, anche se tutto era ormai perduto, io avevo ancora l’opportunità di portare avanti quella battaglia che un tempo era stata nostra e che poi si è rivelata solo mia. Tu sapevi che il processo, che mi avrebbe visto imputato, sarebbe stato un formidabile palcoscenico dal quale far sentire la mia voce, così come lo era stato per il tuo Hitler dopo il mancato putsch di Monaco. E allora hai fatto in modo di spostare il procedimento da Berlino a Lipsia: un altro colpo da maestro, un’altra mossa che mi ha anticipato.

Tuttavia, anche da lì, avrei saputo farmi ascoltare. Gli altri comunisti bulgari che avete arrestato,  Dimitrov, Tanev e Popov, erano chiaramente estranei all’incendio, tanto che avete dovuto assolverli, nonostante la vostra giustizia perniciosa. Anzi: Dimitrov, che pure era davvero un agente del Comintern, nella sua autodifesa ha sostenuto che Hitler, Göring e Goebbels erano gli autori della distruzione del Reichstag e nemmeno per quello è stato condannato. È stato questo il segnale più evidente che aveva colto nel segno e che anche io avevo indovinato come si erano svolti gli eventi quella notte.

Allora non mi rimaneva che farmi carico di tutto, confessare tutto, ammettere che io, e soltanto io, ero stato l’incendiario che aveva mandato in fumo la sede del Parlamento tedesco, un’istituzione di cui tu e i tuoi non avevate più bisogno, anzi, che era diventato un orpello che risultava d’intralcio ai vostri obiettivi ultimi.

Ho sperato fino all’ultimo, Baldur, che quanto avevo da dire scuotesse le coscienze, che gli altri Paesi comprendessero la minaccia, che si coalizzassero per contrastarla sul nascere, ma non è stato così. La cecità dei politici delle altre Nazioni sarà il più grande vantaggio a vostro favore, ma non dubitare che verrà un giorno in cui tutte le vostre trame saranno scoperte e che il tribunale della Storia si farà carico di giudicarvi per le vostre nefandezze. Nessuno potrà ignorare quali mostri siete, ma sarà troppo tardi, questo purtroppo lo intuisco. Avrete già commesso così tanti abomini, provocato così tanta disperazione, morte e lutto che sarete ricordati come la più grande ferita all’umanità di questo secolo disgraziato.

L’unica speranza che mi resta, non avendo potuto evitare la vostra ascesa, è che siate almeno un monito per il futuro: quando le condizioni per il dominio di gentaglia come voi si ripresenteranno, perché sono certo che accadrà di nuovo, nessuno potrà dire di non sapere come si evolveranno le cose, perché ci sarete già stati voi a fare da precursori.

Le vostre urla dettate dall’odio, la volontà prevaricatrice attraverso la violenza, la fascinazione del dominio e della sottomissione altrui, il concetto di supremazia sugli altri saranno le stimmate che vi contraddistingueranno per il futuro, in qualsiasi forma tornerete a riproporvi, a qualsiasi latitudine e in qualsiasi forma. Non dubito che gli uomini di allora sapranno riconoscervi per quello che siete e che, resi consci dalle esperienze del passato che siamo stati costretti a vivere, non esisteranno a stroncarvi fin dai vostri primi movimenti.

Ormai è tardi e l’alba si avvicina, Baldur, così come la fine di questa mia breve vita, che mi piace pensare non sia stata comunque inutile, se sarà stata in grado di scuotere almeno un poco la tua coscienza; se il ragazzo che conoscevo e che vive ancora dentro di te, si ribellerà e guarderà schifato l’adulto che sei diventato. Non so nemmeno se questa lettera ti verrà recapitata, ma spero di sì: avrai le mie ultime parole, le ultime di un uomo che ti è stato vicino, che ti ha voluto bene e che è stato ricambiato con il più vigliacco dei tradimenti, quello della sincera amicizia.

Voglio andarmene con il cuore leggero e per questo sappi che io ti perdono per quello che mi hai fatto, ma ti auguro anche che il rimorso sia lì ogni giorno ad assediarti, a ricordarti di quello che hai compiuto: sarà un pungolo vivificante che forse ti consentirà di operare scelte migliori negli anni a venire. Io lo spero ancora, Baldur, nonostante tutto. Addio.

Con immutato affetto, il tuo amico Marinus van der Lubbe”.

L’anziana ripiegò i fogli e li rimise nella busta. Nella tempesta della guerra che si sarebbe scatenata solo cinque anni dopo e che avrebbe sconvolto il mondo, una vita avrebbe avuto poco valore a fronte di milioni di morti, ma quello era un atto d’accusa così intimo e così addolorato che avrebbe dovuto cadere nell’oblio. Sulla carta della lettera c’erano degli aloni tondi: probabilmente Baldur aveva pianto quando l’aveva letta. Henriette Hoffmann si alzò dal divano del salotto e uscì nel giardino sul retro della sua casa. La palla rossa del sole si affacciava da dietro la staccionata. Prese l’accendino che aveva nella tasca della sua vestaglia da casa e fece dondolare la fiamma sotto l’angolo della busta. Lente volute di fumo si alzarono dall’involucro cartaceo che si consumava nel tramonto, mentre lei mormorava una preghiera.

L’autore

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