L’amore ai tempi dell’ospizio
di Mattia Bagnato
I. Ciò che non vuoi lasciarti indietro
«Mi senti? Tesoro, mi senti?»
La voce di Emma si perde nel fracasso degli altri parenti e degli anziani degenti della casa di riposo, ma lei è abbastanza vicina perché le sue parole arrivino alle orecchie di Gregory. Il problema non è il volume della voce, che alla sua età è già gracchiante e sottile come quella della maggior parte delle donne di terza età, no, il problema è che il cervello di suo marito è talmente logorato e devastato dalla malattia da non riuscire più ad elaborare quello che le orecchie gli portano sotto forma di impulsi elettrici e scariche ioniche. Il suo povero Gregory, adesso così emaciato, il volto scavato troppo simile a quello che aveva suo padre quando era tornato dai campi di concentramento nazisti, gli occhi spenti dallo sguardo vitreo di un morto che ancora si ostina a respirare, un filo di saliva che gli cola dall’angolo della bocca semiaperta per finire sul bavaglino che un’infermiera gli ha stretto preventivamente al collo.
Emma tira fuori un fazzoletto di carta dalla borsetta e pulisce con delicatezza il mento del marito, chiudendogli poi la bocca con un dito. Dopo pochi secondi, però, ecco che le labbra di lui si riaprono come i petali di un fiore, lasciando intravedere appena la lingua quasi bianca. La vecchia donna si guarda intorno, cercando negli occhi degli altri parenti e, soprattutto, degli altri coniugi, quella stessa tristezza che adesso la sta travolgendo come un fiume in piena, inarrestabile e terribile. La vede, la vede più e più volte, e con una punta di vergogna si sente un pochino meglio, perché sa che almeno non è da sola in questo supplizio.
Un’infermiera fa il giro della sala, avvertendo i familiari e gli amici che a breve dovranno lasciare l’istituto, è tardi ed è quasi giunta l’ora di mettere i pazienti a letto. Emma stringe forte la mano di Gregory, forse troppo e quando se ne rende conto allenta appena la stretta, ma non osa lasciarlo andare del tutto. È sempre la stessa storia: quando deve tornarsene a casa da sola, su uno di quei mezzi pubblici che paiono dei carri per il trasporto del bestiame da quanto puzzano e sono sovraffollati, sente il cuore mancarle un colpo, il respiro farsi più affannoso, perché prepotentemente si affaccia il pensiero di un’altra notte in solitudine, e né la televisione né un buon libro da leggere accanto alla finestra, sulla poltrona che una volta era la preferita di Gregory, riescono a farla mai sentire meglio.
«Signora, tra poco dovremmo…»
«Sì, sì, lo so. Grazie.»
L’infermiera fa un cenno affermativo con la testa e posa maternamente una mano sulla spalla di Gregory; conosce Emma da mesi e si prende da sempre cura di suo marito con amore e rispetto. Sarebbe bello che tutti fossero così gentili nei confronti di chi soffre, pensa Emma, ma intanto è già contenta che il suo povero Gregory sia finito nelle mani di persone in gamba come lei.
Lentamente gli altri visitatori si alzano dalle loro sedie verde pallido per muoversi verso l’uscita; non sono poi molti, ma il tono di voce sempre alto usato per farsi sentire dagli anziani compone un coro di saluti e baci schioccanti che riecheggia nel soggiorno. Sono tanti i Buona notte, un po’ meno i Ti voglio bene, pressoché inesistenti i Ti amo, vuoi perché ad una certa età l’amore non è più quello della gioventù, vuoi perché si tende a provare una sorta di vergogna ingiustificata nel manifestare con troppa veemenza i propri sentimenti, specie di fronte a tanti estranei. E, a maggior ragione, in un posto come questo.
Emma però lo dice a Gregory, un «Ti amo, mio caro» colmo di dolcezza, anche se glielo sussurra soltanto a pochi centimetri dall’orecchio. Anche stavolta, purtroppo, nessuna risposta dalla controparte, neanche la certezza che lui l’abbia sentita, anche se a lei piace pensarlo. Si alza, fa un po’ di fatica quando il ginocchio destro roso dall’artrosi si ribella e lancia una rapida scarica di dolore lungo tutta la gamba, ma poi anche lei si allontana verso la porta senza osare guardarsi indietro.
«Tittina…»
Emma si blocca nel mezzo di un passo, il piede sollevato a mezz’aria ricade a terra con un tonfo. Gira la testa così velocemente che le compaiono piccole luci sfavillanti e danzanti nel campo visivo, ma al di là di esse il suo sguardo è tutto concentrato sulle labbra di Gregory. Tittina. È il nomignolo che usava lui per chiamare Emma quando erano da soli in casa, uno dei tanti ma sicuramente il suo prediletto, uno dei primi che aveva deciso di affibbiarle, marchiandola così come sua. L’ha sentito davvero o è stato solo un frutto della sua immaginazione?
Ritorna piano da suo marito, senza distogliere gli occhi da quelle labbra cianotiche e sottili. «Greg? Amore, hai detto qualcosa? Gregory?»
Lui non si muove, non parla, c’è soltanto un nuovo filo di bava che gli compare all’angolo della bocca. Emma lascia andare un sospiro trattenuto, riprende il fazzoletto di carta e asciuga il mento del marito prima di andarsene insieme a tutti gli altri.
II. Il girello del tempo
La sedia di Emma è rivolta verso il televisore, ma a lei non potrebbe interessare di meno di tutti quei dibattiti politici urlati a squarciagola, come se la sede del governo fosse nientemeno che un mercato ittico nell’ora di punta ed i rappresentanti del popolo fossero i pescivendoli che cercano di far passare il loro pesce per quello più fresco e buono di tutti gli altri. Ma andate al diavolo, per cortesia!
Quello è lo stesso posto dove sedeva di solito Gregory, fino a tre anni prima, e dove in qualche modo Emma sapeva che sarebbe andata a finire, convinta fin nel profondo che, prima o poi, avrebbe seguito lo stesso destino del suo amato marito. Non hanno mai avuto figli, questo è forse il suo più grande rimpianto e, se non c’è nessuno che possa prendersi cura di te nel momento in cui la vecchiaia prende il sopravvento, non restano molte altre opzioni tra cui scegliere: una badante, oppure l’ospizio. Lei ha optato per la seconda ipotesi, motivata anche dal trattamento che era stato riservato a Gregory fino al momento della sua dipartita, sopraggiunta senza grande clamore e, cosa più importante, senza essere accompagnata da alcuna forma di sofferenza.
Emma si alza aiutandosi con una mano, afferra il girello che ormai usa sempre per camminare ed esce lentamente dal soggiorno, lasciando che quei politici rabbiosi continuino ad urlarsi a vicenda le loro stupide bugie, a lei non importa. L’infermiera le lancia uno sguardo quando la vede transitare davanti alla sala medica, in una casa di riposo come questa non si può mai abbassare la guardia, ma quando vede che si tratta di Emma le rivolge un sorriso e la saluta con calore. Emma ricambia, ma senza sollevare le mani dal girello, non ha intenzione di rischiare di cadere un’altra volta; la prima è bastata e ve n’è d’avanzo. Quando arriva nel bagno lascia la porta appena socchiusa alle proprie spalle (Regola della casa: mai chiudere nessuna porta, specialmente a chiave, è per la vostra sicurezza), poi davanti al gabinetto si abbassa i pantaloni e l’ingombrante pannolone, che non le serve ad un accidenti ma che è costretta ad indossare ugualmente, e si siede. Mentre libera la vescica una mano va istintivamente a toccare la pelle in prossimità dell’anca destra, dove una cicatrice appena scavata nella carne le ricorda del più spettacolare capitombolo della sua vita, seguito da uno dei pochi interventi chirurgici ai quali si sia mai sottoposta.
Quando esce dal bagno, dopo aver tirato la catena ed essersi data una rapida sciacquata alle mani ossute, vede un inserviente di colore che sta accompagnando un’altra donna, questa ancora più vecchia di lei e quasi del tutto sorda, nella sua camera. Le pare che l’inserviente si chiami Vincent, ma la memoria ogni tanto le gioca brutti scherzi, sebbene lei mangi regolarmente pesce come consigliatole dal medico e legga spesso, almeno un libro al mese, per tenere in allenamento quei pochi collegamenti neuronali che ancora restano intatti. Emma segue Vincent e l’anziana donna fino a quando loro non entrano nella camera 14, mentre lei procede fino alla 17, la sua stanza privata. Il letto è già stato sistemato, due cuscini sono disposti sulla poltrona per renderla più comoda ed il pavimento è lucido come se vi avessero appena passato la cera (altra Regola, anch’essa fondamentale, rivolta in questo caso agli operatori delle pulizie: MAI, ma proprio MAI, rendere il pavimento scivoloso, è per la loro sicurezza ed un avvertimento per evitare il vostro licenziamento).
Si siede sul bordo del letto, spostando di lato il girello, ed afferra la foto incorniciata che tiene sopra al comodino, a fianco della custodia per la dentiera e quella degli occhiali. Lì, stampata in bianco e nero su una carta appena sgranata, c’è la foto più bella che abbia mai scattato a Gregory, con il suo volto sorridente, gli occhi allegri e pieni di vita, non vuoti ed opachi come erano nei suoi ultimi giorni. Due lacrime pesanti le scivolano oltre le palpebre e si fanno strada tra le rughe degli zigomi, seguite a ruota libera da molte altre, fino a quando Emma ne sente il sapore amaro sulla lingua.
«Signora? Tutto bene?» È l’inserviente di colore, che si è affacciato alla porta richiamato dal debole ed incostante singhiozzare di Emma.
«Oh?» esclama lei con un piccolo sobbalzo, nel gesto di nascondere la cornice e di asciugarsi contemporaneamente le lacrime dal viso. «Sì, sì tutto bene, grazie Vincent. Ti chiami Vincent, vero?»
Vincent sorride, facendo un cenno affermativo con il capo, e si avvicina ad Emma andando a sedersi di fianco a lei sul materasso. La donna non sa se essere infastidita dal fatto che non le abbia neanche chiesto il permesso o se essergli grata per il sostegno che le vuole dare, così nel dubbio resta in silenzio custodendo gelosamente la fotografia di suo marito. Ed è proprio quella foto che Vincent indica, chiedendole rispettosamente se può mostrargliela. L’indecisione di Emma si risolve quando guarda negli occhi dell’uomo, occhi profondi e consapevoli del dolore che lei sta passando, occhi che hanno vissuto la sofferenza. «Tieni. Maneggiala con cura, mi raccomando.»
«Sicuro.» Vincent osserva per un po’ la fotografia, passando le dita sulla cornice avanti e indietro, avanti e indietro, seguendone il perimetro più e più volte, come se stesse pensando a qualcosa che abbia fatto nascere in lui un dubbio atroce, ma Emma non capisce quale possa essere il motivo. Poi Vincent le porge la foto e si alza dal letto con un gesto fluido ed atletico, il gesto di un uomo giovane nel pieno delle proprie forze. «Mi aspetti qui solo un secondo.»
Emma attende, riponendo la foto al suo posto sul comodino, ma non ci vuole molto perché l’inserviente ritorni nella stanza portandosi dietro qualcosa: è un girello, all’apparenza piuttosto simile a quello che usa normalmente Emma ma allo stesso tempo molto diverso, anche se la donna non riesce subito a capire che cosa lo contraddistingua in un modo così manifesto e contemporaneamente così vago. «Io ho già un girello» dice allora a Vincent, in attesa che lui le fornisca qualche spiegazione in merito.
Ed infatti Vincent non si fa pregare troppo, ma quello che dice ad Emma subito dopo le fa sorgere il dubbio che questo caro inserviente, sicuramente molto gentile e premuroso nei confronti dei degenti, possa anche avere, ahimè, qualche rotella fuori posto. «Questo non è un girello come gli altri, signora Emma. Questo lo tengo sempre chiuso a chiave nel ripostiglio, perché ci sono poche persone che possono usarlo senza rischiare di farsi del male.»
«Ha mica le ruote che si inceppano?»
Vincent scoppia a ridere, mettendo in mostra i suoi grandi denti bianchi. «No, no. Non mi riferisco a quello quando dico che ci si può fare del male. Intendo dire che, usando questo girello, ci si può perdere con il rischio di non ritrovare più la strada di casa.»
Emma lo fissa con aria perplessa, senza capire dove l’uomo voglia andare a parare con queste sue strane affermazioni. «Non ti seguo, Vincent.»
Vincent sostituisce il girello di Emma con quello che, a suo dire, ha appena rispolverato dal suo ripostiglio segreto, declamando un ultimo avvertimento. «Faccia tre giri del corridoio, da cima a fondo, e poi vada nel soggiorno. Le chiedo solo di tornare prima dell’ora di cena, altrimenti potremmo finire nei guai, forse più lei che io. Mi ha capito bene? Tre giri, il soggiorno e poi di nuovo tre giri per tornare. Tutto chiaro?»
La povera Emma non può far altro che annuire, ma questa situazione è tutto fuorché chiara ai suoi occhi ed alle sue orecchie. Probabilmente Vincent è stato assunto come risultato della nuova politica di assicurare un posto di lavoro anche a persone con qualche tara mentale o con handicap fisici di sorta, sì, questo è plausibile, anche se deve ammettere che le parole dell’inserviente hanno smosso qualcosa nel suo subconscio. Si tratta di un presentimento, vago e minaccioso come tutti i presentimenti degni di nota, ma sa già che lo asseconderà non appena Vincent avrà varcato la soglia.
Ed infatti dopo neanche un minuto resta da sola in camera, con il nuovo girello ad invitarla con quell’aria di mistero che Vincent ha contribuito a creare. Emma si alza, bofonchia uno sgraziato «Ma vai a quel paese» e con il suo nuovo giocattolo si dirige verso il lungo corridoio, già chiedendosi se con tre giri Vincent intendesse dire di andata e ritorno o di sola andata. Per non sbagliare farà andata e ritorno, anche se non ha idea di che cosa possa cambiare in un caso o nell’altro. L’infermiera la incrocia a metà del secondo giro e, nonostante l’espressione vagamente colpevole di Emma, non si sofferma a chiederle che cosa la turbi, è troppo impegnata nello svolgimento delle proprie faccende. Arriva così il terzo ed ultimo giro, alla fine del quale la ferita alla coscia si fa sentire tanto da indurla a zoppicare appena per lo sforzo ed il dolore. Il soggiorno è a meno di dieci metri da lei, ma percorrerli in questo momento equivale all’ultimo sprint di un maratoneta sul filo del traguardo. L’infermiera la supera di nuovo, questa volta giungendo dalle sue spalle, e lei non riesce a vederla in faccia ma… Non ha i capelli più lunghi rispetto a pochi minuti fa?
Emma riesce infine ad affacciarsi sul salone, illuminato a giorno dalla potente luce del lampadario appeso al soffitto, e quello che vede la lascia senza fiato per secondi che si dilatano nel tempo, intrappolandolo in pochi attimi senza fine: le pareti non sono più arancioni ma dipinte con una vernice a metà tra l’azzurro ed il verde, la televisione è più piccola ed è all’angolo opposto rispetto al solito, ma soprattutto le persone sedute ai tavoli… non sono più le stesse! Non c’è Samantha con il suo foulard avvolto attorno alla testa, non c’è Maria che schiamazza continuamente chiedendo di essere portata in bagno, non c’è nemmeno Peter con il suo giornale eternamente dispiegato sul tavolo (sono settimane che continua a leggere lo stesso quotidiano, sempre lo stesso, e quando lo finisce riprende a leggere dal primo articolo della prima pagina in un moto perpetuo di pura follia). E comunque, a dire la verità, ad Emma non potrebbe fregare di meno di chi abbia preso il posto dei suoi compagni di sventura in questa differente versione della sua casa di riposo (anche se molti le pare di riconoscerli in qualche modo), perché a pochi passi da lei c’è un uomo che conosce molto bene, l’unico con cui abbia condiviso un letto, un tetto, una vita intera.
«Greg?»
Lui non la sente, non la vede, così come nessuno nella stanza pare aver notato la sua presenza. Gli occhi le si inumidiscono quando si fissano sulle mani tremanti ma vive del marito, e non può fare a meno di scoppiare in un pianto a dirotto, che si mescola e si confonde con una risata isterica fuori da ogni controllo, quando lo vede sorridere ad una battuta del film che sta guardando. Emma resta lì in piedi, saldamente ancorata al girello datole da Vincent, sul quale si appoggia con tutto il peso perché sente che le ginocchia sono pericolosamente vicine a cederle, e allora cosa farebbe se finisse per terra in questa… Ma poi cos’è questo luogo? Una realtà alternativa? O soltanto un riflesso del passato, un piccolo spiraglio nel tessuto stesso del tempo? In verità le importa poco, l’unica cosa che conta è che dopo tre lunghi anni ha il privilegio di rivedere il suo amato Gregory in un posto che non siano i suoi sogni o le sue fotografie, e tanto basta.
Rimane in un angolo, ridendo e piangendo, fino a quando non riesce quasi più a reggersi in piedi e decide che è giunta l’ora di tornarsene a casa. Chissà se Gregory ha sentito il bacio di un fantasma sfiorargli le labbra, quel lontano giorno di qualche anno prima.
III. Ritorno al futuro, ma senza Doc e la sua DeLorean
Emma si trascina a fatica fino alla cucina, dove Vincent sta sorseggiando un caffè caldo nell’attesa del turno di notte. L’uomo le va incontro per aiutarla, prendendo il secondo girello che lei sta spingendo con una mano, mentre con l’altra si regge al proprio.
«Come è andata?»
«Come sarebbe dovuta andare?»
«Ha visto qualcosa? Qualcosa di bello?»
Emma fa spallucce, prendendo un grissino dal pacchetto aperto e quasi vuoto rimasto abbandonato sul bordo del lavello. «Non so di cosa tu stia parlando, Vincent. Forse guardi troppi film di fantascienza.»
L’anziana donna abbandona lentamente la stanza, mentre Vincent finisce di bere il proprio caffè con un sorriso complice sulle labbra. Una volta tornata nella propria camera Emma si lascia cadere con un tonfo sul letto, sospirando di sollievo e cominciando a massaggiarsi i muscoli dolenti. Sarà meglio che l’indomani il fisioterapista si dia da fare o ne sentirà delle belle, parola sua. Raccoglie la foto dal comodino, seguendo i contorni del viso di Gregory con il dito indice, quasi come se potesse sentire la rugosità della sua pelle sotto il polpastrello. «Ti amo» sussurra, e spera che da qualche parte lui possa ancora riuscire a sentirglielo dire.