Il vecchio, d’amore e di Livorno
(l’ultima prima della notte)
di Mirko Corto Antonilli
Livorno è una bella donna spettinata dalla brezza.
Avanti ad un mare di carta crespa troneggiano le rughe profonde di un vecchio pescatore, intento a sciogliere intrighi da una rete ormai spenta. Cassette in polistirolo svolazzano tra le bitte confondendosi con i gabbiani in assalto ed una modesta imbarcazione rientra timida dal viaggio notturno.
Sono circa le sei del mattino, non ha sonno, non ha fame, il suo vivere è in balia delle onde e le nuvole accennano un timido bisogno che il cielo ha di piangere.
Ha ucciso un bambino già dipinto con amore, un pennarello rosso macchiava le sue guance di marmellata alla ciliegia, parole, grida, sussulti e quiete. Ha ucciso una famiglia, sepolta in un giardino avanti al mare, ai piedi di un acero.
Ha ferite talmente antiche nella carne che nessuno riesce a leggere, qualcuno si sofferma, ignaro del dolore ad osservare quegli occhi ormai vuoti, le palpebre serrate cucite da un sole che non vuol vedere, solo le ossa grandi lo sostengono.
Nessuno si è mai addentrato in quel groviglio di dolori cercando di capire, qualcuno faceva capolino, qualche altro scuoteva quel corpo apparentemente inerme col piede ma nulla.
Aveva così deciso di vivere di la lontano da tutti, cercando una ragione tra le maree che si ripetevano come un insegnante reinterpreta la lezione ai suoi alunni e non vi era al mondo altro posto dove volesse vivere se non li, dove occhi di gelso si posarono veloci tempo indietro, sapendo di poter ammirare la sua Livorno.
Cercava frugando lento tra le sabbie erranti la sua luce, non sapeva chi fosse, era stato chiamato maniaco e nello stesso momento veglio vi si era ritrovato. Era stato sputato e calpestato e voleva tenere con se quelle impronte che sapevano di dolci zuccheri bagnati d’alcool.
Sapeva di essere stato carnefice ma nello stesso tempo vittima della forza del mare, del mare bisognava aver rispetto, non era campo di battaglia neutrale era amico e poi nemico e travolgeva.
Era solo da tanto tempo prima, chiuso in un guscio di noce galleggiante, sperando qualcuno prima o poi arrivasse a romperlo e musicare con lui i sorrisi ma l’incertezza lo difendeva, le ferite pulsavano violente ad ogni tocco e la pioggia di lacrime rendeva sfuggente la buccia alla morsa d’amore.
Nessuno entrava, qualcuno faceva capolino per poi fuggire e le sue rughe crescevano sempre più folte in viso.
Teneva un ritratto nel taschino della camicia, ogni tanto si fermava a guardarlo e sorrideva, aspettando l’ultima tempesta di spalle.