La rubrica semiseria ̶d̶i̶ ̶c̶r̶i̶t̶i̶c̶a̶ ̶c̶i̶n̶e̶m̶a̶t̶o̶g̶r̶a̶f̶i̶c̶a̶
a cura di Tiziana Cazzato
“Valzer con Bashir” di Ari Folman
Palazzi grigi si stagliano contro un cielo giallo cupo. L’asfalto bagnato di una strada grigia di una città. Grigi sacchi di immondizia. Rifiuti sparsi.
La corsa a perdifiato di un cane grigio con occhi gialli. Seguito da un secondo cane grigio. Seguito da un terzo cane e poi da un quarto… Ventisei cani. Ventisei cani corrono a perdifiato su quella strada grigia di una città, travolgendo tavoli e sedie all’esterno di un bar, costringendo alla fuga gli avventori terrorizzati, una madre impietrita dalla paura a stringere forte al petto il volto e il corpo del suo piccolo bambino.
Corrono quei ventisei cani. Corrono a perdifiato fino a giungere sotto l’alta finestra di un grigio palazzo, che si staglia contro quel cielo giallo cupo. Ringhiano i cani grigi dagli occhi gialli. Ringhiano verso quell’uomo che sta alla finestra buia e li guarda dall’alto e…
Finisce sempre così l’incubo ricorrente che Boaz Rein – Buskila racconta, in un bar, in una piovosa notte d’inverno del 2006 all’amico regista Ari Folman. Sono trascorsi più di vent’anni dalla guerra in Libano e quei ventisei cani tornano nei sogni di Boaz.
Avevano poco più di diciannove anni i soldati israeliani, alcuni di loro nemmeno avevano iniziato a radersi. Venivano chiamati a uccidere. Boaz non sapeva sparare alla gente e perciò a lui fu chiesto di andare avanti e ammazzare i cani. Ad ammazzare quei cani che, se avessero abbaiato troppo a lungo, avrebbero risvegliato i ricercati palestinesi che si sarebbero dati alla fuga e allora addio ai rastrellamenti a sorpresa, atti a stanare il nemico dal suo rifugio. E allora, sì, che avrebbero rischiato la pelle, quei giovani ragazzi israeliani che ancora non avevano imparato a radersi, ma che erano stati ammaestrati a sparare alla gente. Ma Boaz non sa sparare alla gente e ammazza ventisei cani, quegli stessi ventisei cani che ogni notte tornano nei suoi sogni a risvegliare un incubo ancora più grande e doloroso.
Mentre ascolta il suo amico, ex-commilitone, il regista e sceneggiatore israeliano si interroga sul perché egli non conservi nemmeno un ricordo del Libano. Eppure, egli c’è stato, quella guerra l’ha combattuta!
In quella stessa notte piovosa d’inverno, dopo aver salutato in un abbraccio l’amico, gli appare un primo, unico terribile flashback. È in Libano, su una spiaggia di Beirut Ovest. Forse. È nel mare, insieme ad altri amici. Fanno il bagno nudi in una notte buia, squarciata d’improvviso dalla luce gialla di razzi al fosforo che piovono sulla città. Sono le notti del massacro di Sabra e Shatila. Forse. Lui c’era. Ne è sicuro. Forse.
I ricordi cancellati fino a quella notte di inverno del 2006 dalla memoria, riaffiorano frammentati, confusi. Sente forte il bisogno di recuperarla quella memoria, di mettere insieme i pezzi di quel mosaico, e non per una mera ricostruzione storica di fatti caduti nel dimenticatoio non di un singolo, ma di un’intera umanità. Ari Folman vuole comprendere, scoprire il motivo per cui egli non conserva alcun ricordo di quel settembre del 1982. Ha forse paura di scoprire delle cose di sé che non vuole conoscere?
L’amico psicologo gli rivela che la memoria non si spinge mai oltre il confine che noi non vorremmo superare. L’orrore e il trauma portano la memoria a cancellare i ricordi dolorosi, costruendo ricordi errati che modificano la realtà. Per Folman è arrivato il momento di capire e conoscere. Ha un forte bisogno di uscire dal buio di quel buco creato da un’inspiegabile amnesia. Ari Folman ha bisogno di ricordare!
Inizia così un percorso che è non solo analisi e ricerca personale, ma un viaggio a ritroso che si spinge ben oltre la stessa ricostruzione storica. Incontra, intervista amici, soldati. Ascolta i loro ricordi e ogni racconto è un frammento che va a ricomporre il mosaico della sua memoria. Quei racconti gli permettono di ricostruire il massacro di Sabra e Shatila perpetrato dai libanesi maroniti e avallato dal governo israeliano, per vendicare Bashir Gemayel, eletto presidente il 23 agosto 1982 e ucciso il 14 settembre, pochi giorni prima del suo insediamento. Quei racconti gli permettono di ricordare dov’era e soprattutto il ruolo assegnatogli nelle notti che vanno dal 16 al 18 settembre.
I racconti, le testimonianze di sette protagonisti e testimoni oculari di quei fatti, a cui aggiunge due interviste inventate, sono la trama di un documentario, “Valzer con Bashir” che solo per quello che racconta appare di una crudezza irreale. Folman, però, come un pugile campione del mondo, sale sul ring pronto a colpire la coscienza dello spettatore, ad assestargli un pugno nello stomaco, fino a lasciarlo senza fiato. E lo fa realizzando un documentario d’animazione stupendo e nel contempo terrificante che sin dalla prima scena, in cui quel freddo blu notturno è squarciato dalla tonalità di quel cupo giallo, catapulta lo spettatore in una realtà triste e desolante. Una realtà che non è solo quella dei luoghi fisici, ma soprattutto quella dell’animo dei protagonisti, chiamati a combattere prima in Libano, e poi, a distanza anche di lunghi anni, una guerra con loro stessi, con le loro paure e con i loro sensi di colpa.
“Valzer con Bashir” di Ari Folman è un grande film d’animazione che coglie di sorpresa e che mette nell’angolo lo spettatore, con la potenza del tratteggio delle immagini e dei volti in una grafica realistica che ricorda quella dei fumetti; e lo arresta anche mentre vanno le note di una colonna sonora che mescola la melanconica musica classica alla forza del rock degli anni Ottanta.
Se Ari Folman ha cercato l’animazione per dare al racconto una dimensione surreale, le forti emozioni del suo capolavoro (la cui proiezione è stata vietata in Libano, anche se blogger e critici cinematografici riuscirono nel gennaio 2009 a proiettarlo a un pubblico formato da novanta persone) sono reali, e colpiscono in un modo talmente preciso da far percepire non solo alla mente ma anche al corpo il forte dolore di quei pugni precisi. E quando sei lì, pronto ad arrenderti, senti di non voler battere la resa e di aver cercato anche quell’ultimo colpo. L’animazione si ferma e l’ultimo frammento del magnifico documentario sfocia in immagini di repertorio, traballanti, reali. Le urla delle madri, fra le macerie della città distrutta, fra i corpi privi di vita di uomini, donne, anziani, bambini. Le immagini reali che assestano un ultimo terrificante colpo. Che pietrifica. Che lascia senza parole e senza fiato.
Sulla parola fine, e del film e di questo articolo, ho lasciato e lascio danzare le mie lacrime al ritmo delle tristi note del valzer di Chopin, come quel soldato israeliano, che imbracciata l’arma, sotto la pioggia di proiettili si mette a ballare e a sfidare i cecchini. E forse pure la morte.
Non posso, né voglio aggiungere altro in questa puntata diversa (poco semi e tanto seria) di “Visti e svisti”. Vi regalo il silenzio ereditato dalla visione di questo capolavoro del cinema internazionale, che vi invito a guardare, per emozionarvi, per ricordare. Per restare senza parole.