Rubrica semiseria ̶d̶i̶ ̶c̶r̶i̶t̶i̶c̶a̶ ̶c̶i̶n̶e̶m̶a̶t̶o̶g̶r̶a̶f̶i̶c̶a̶

“Lasciami andare”, di

A cura di Tiziana Cazzato

lasciami-andare-protagonistiÈ un tardo pomeriggio di ottobre. Nei giorni scorsi la pioggia l’ha fatta da padrona, ma questa sembra una piacevole serata e non ho alcuna scusa per cambiare idea.

Persino la casa vorrebbe vomitarmi per la strada: è stanca di vedermi studiare e aspettare un benedetto contratto scuola che sembra non volere arrivare.

Gliel’ho promesso: esco, ti lascio serata libera.

Ha bisogno anche lei di starsene un po’ in solitudine.

Mi preparo. Stasera, ho deciso, metto pure il rossetto, anche se poi sarà nascosto in una mascherina: c’è solo da scegliere quella più in tono. Vado al cinema! Mica posso uscire con quella chirurgica?! Ne provo un paio, senza troppa convinzione, e solo la paura di far tardi, mi fa optare per quella bianca (che poi va bene su tutto!). Vorrei, inoltre, non attirare l’attenzione per strada, come è già accaduto una domenica pomeriggio.

Un tipo da lontano mi saluta con fare molto familiare. Si avvicina ed è ancora molto familiare, mentre io (ciecata quasi come una talpa) mi preoccupo solo della figuraccia tremenda che sto per fare. Oddio, non mi ricordo chi è! Continuo con il mio passo deciso, facendo l’indifferente e lui mi raggiunge sorridente, solare e fa il famoso gioco del “non ti ricordi di me?”

No, vorrei dirgli, dovrei? Abbiamo fatto per caso il liceo insieme, o  mi hai fatto vincere almeno una partita a tressette? O… Vuole invitarmi per un caffè. Riprendo la mia strada, lui mi afferra un braccio e… Non so come ho fatto. Sono stata rapida e indolore: una spinta leggera, lui non ha perso l’equilibrio, io ho di nuovo la mia mano, intera!,  mentre gli dico, con calma e gran fermezza “Lasciami andare”.

Giro l’angolo e dalla borsa tiro fuori la bottiglietta d’amuchina. Copro le ultime gocce del mio profumo preferito.  Mentre cerco di tornar normale (semmai esista un universale concetto di normalità), di ricompormi un po’, mi chiedo chi gli abbia dato il permesso di toccarmi. Ma non lo sa che c’è il Coronavirus?

Non tergiversiamo, però: non ho bevuto alcolici, quindi dovrei riuscire a proseguire dritta anche nel racconto.

Mi sembra d’essere sempre in ritardo, anche perché ho deciso di raggiungere il cinema a piedi e non è che sia proprio dietro l’angolo. Ne approfitto per chiamare la mia amica, che starà dedicandosi al cambio stagione (la becco sempre immersa negli armadi!).

Non sbaglio di molto: sta stirando. E mentre passa il ferro caldo sulle camicie del marito, ascolta un audiolibro. E che audiolibro! Meno male che le ho telefonato!

Un occhio è sempre a Google Maps: è fondamentale per chi, come me, riesce a perdersi persino facendo il solo giro dell’isolato di casa. E invece stasera ce la faccio e per di più vinco, ancora una volta, la mia sfida con l’app dell’orientamento: impiego meno del tempo da lui previsto! (lo fai anche tu questo giochino, vero?)

Sono davanti all’ingresso e come sempre, quando vedo qualcosa di nuovo e magnifico, sgrano gli occhi e resto d’incanto. Mi stupisco, caro Giovanni Pascoli, so ancora farlo. E il mio stupore diventa commozione, gli occhi diventano lucidi e… stasera non posso piangere. Mi cola il mascara e non vorrei macchiare la mascherina bianca, quella chirurgica, quella che sta bene su tutto.

L’ingresso è un gioco d’eleganza e gentilezza. Il termoscanner per la temperatura corporea (34.7. Parliamo ancora di normalità?), l’indicazione verso la sala dove proiettano il film che ho scelto. Cammino piano, quasi in punta di piedi, incantata da quello che non mi sembra un cinema, ma un vero e proprio palazzo, in cui, non sai cosa aspettarti dietro la grande e pesante porta.

Una sala immersa nel buio, ovviamente. Troppo buio! E io devo trovare il mio posto. E io devo cercare, soprattutto, di non rotolare. Trovo facilmente il J- 8 e non perché la mia vista da ciecata diventa bionica nell’oscurità, ma solo per il supporto della torcia del mio telefonino.

lasciami-andare-locandinaSprofondo nella comoda poltrona, isolata. Mi sembra che ci siamo solo io e lo schermo, da dove aspetto di vedere chi s’affaccia. “Lasciami qui” vorrei dire e lo direi anche adesso, mentre scrivo seduta alla mia scrivania, con le luci esterne a specchiarsi nei vetri. E la pioggia che lenta e instancabile cade sin dalle prime ore del mattino.

Non esiste altro. Non c’è nessuna vita, nessun suono, nessuna luce che non sia quella che arriva dal grande schermo. Non sento nemmeno il peso del mio corpo e dei miei pensieri.

Ci sono solo Marco e Clara. E fra le braccia di lei, il loro bambino.

E c’è Venezia, incantevole, suggestiva, romantica. Malinconica.

Marco (Stefano Accorsi) e Clara (Maya Sansa) sono felici. Felici e rapiti dalla bellezza della casa che stanno decidendo di acquistare. Una stanza, per un gioco di luci e di ombre, diventa una camera oscura e proietta sulle pareti un’immagine ondeggiante e poetica della città affacciata sul Canal Grande. Non serve altro a loro per capire che quella è la casa in cui vogliono abitare. Non serve altro allo spettatore per comprendere che il racconto del film va oltre una trama coinvolgente, oltre i gesti e le parole degli interpreti. “Lasciami andare”, per la regia di Stefano Mordini, se proprio vogliamo catalogarlo come giallo o noir, e se ne respira l’atmosfera, non è, però, un film di indagini poliziesche, con colpevoli da cercare e arrestare. “Lasciami andare” è un film che vuole, con un sorprendente risultato, indagare l’animo umano, le sue tristezze, i suoi dolori e, forse soprattutto, le sue paure.

In quella casa dove da uno spiraglio entrano i colori tremolanti del Canal Gande, scorrono sereni i primi cinque anni di Leo, il bambino di Marco e Clara. Continuano ad essere felici, fino al quel fatidico giorno… Al giorno in cui Leo perde la vita e tutto sembra arrestarsi. Le persiane della casa vengono chiuse sul cuore, sull’amore, su un passato che sembra voler restare, o di cui i protagonisti non riescono a liberarsi. Marco ha provato ad andare avanti, costruendo una nuova famiglia con Anita (Serena Rossi), dalla quale aspetta un figlio, ma per Clara sembra essere difficile, impossibile.

Nell’acqua alta della città sembrano affogare le vite non solo dei due protagonisti, imprigionati in un dolore taciuto, nascosto e pronto a riemergere con tutta la sua intensità, ma anche di Perla (Valeria Golino), la donna (da una personalità ambigua, indecifrabile),  che compra la casa di Marco e Clara; della stessa Anita che sembra cercare un nuovo respiro e di Gloria (Antonia Truppo), amica di Marco,  alla ricerca di un sogno da vivere e che la renda forte.

E la città, i suoi calli, ogni suo angolo, e l’atmosfera creata lungo tutta la pellicola sembrano essere il riflesso dell’anima di ognuno di loro, delle loro vite colte e raccontate da sguardi sensibili, profondi.

Una storia scritta con la luce, intensa quando si posa sul neonato, come a simboleggiare la vita capace di vincere il grigio di esistenze rallentate; sfocata per creare un’atmosfera di dubbi, incertezze, di un bisogno consolatorio di credere a qualcosa che va oltre il razionale. Per poter continuare o ricominciare a vivere, riuscendo a lasciare andare o anche a trattenere con una rinnovata serenità quello che non vorremmo andasse mai via. Lo sguardo dello spettatore è catturato dai particolari, da quei dettagli unici e preziosi, messi in evidenza in un gioco di prestigio di inquadrature e focalizzazioni.

È arrivato, però, per me il momento di andare via, di ritornare a casa, ma non prima di aver atteso fino all’ultimo titolo di coda. E resterei lì, magari a rivedere un film meravigliosamente diverso da quello che avevo girato nella mia mente, dopo aver letto la locandina e visto il trailer. E ancora una volta, caro il mio poeta di Castelvecchio, mi lascio sorprendere, come un fanciullino. E i miei occhi diventano lucidi. E non importa ora se la mascherina bianca si macchia col mascara che cola. Mi lascio emozionare.

Mi lascio sorprendere anche dalla bellezza di questa città. Soprattutto di notte!

Me ne andrei a lungo per le sue strade a godermi la magia dell’incontro di luci e scuri.  A nascondermi nel buio, per ritrovarmi poi sotto la luna.

 

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