La scuola cattolica, di Stefano Mordini
Visti e Svisti – la rubrica semiseria ̶d̶i̶ ̶c̶r̶i̶t̶i̶c̶a̶ ̶c̶i̶n̶e̶m̶a̶t̶o̶g̶r̶a̶f̶i̶c̶a̶
a cura di Tiziana Cazzato
È notte fonda. È la notte di un sabato improvvisato, dove tutto è stato ciò che non doveva essere, in balìa degli eventi, della casualità. E ora, mentre l’orologio segna le 01.47, sono al computer a scrivere, con l’urgenza di scrivere. Sono giorni, tanti giorni che nella mia mente gira e rigira la pellicola di un film che continuo a sentire sulla pelle, nello stomaco stretto in una morsa che stride e che mi scuote.
Scusatemi se torno dopo una sola settimana o, forse dovrei dire non gioite troppo, perché non dovete farci l’abitudine. È un appuntamento speciale e non dico che non potrà ripetersi il fatto di scrivere oltre i due tradizionali appuntamenti mensili. Mi lascio trascinare dall’ispirazione, dal bisogno, dall’urgenza di scrivere, come vi dicevo poc’anzi.
La scuola cattolica, tratto dal romanzo con cui Edoardo Albinati si è aggiudicato il Premio Strega nel 2016, diretto da Stefano Mordini, è un film che sin da prima del suo ingresso nelle sale cinematografiche ha attirato attenzioni e acceso curiosità per una censura assurda anche solo per il fatto di essere messa in atto nel 2021, quando i mezzi e le opportunità di attingere a saperi, a materiali vari (testi, tracce musicali, video) non conoscono limiti.
Non starò qui, però, a esporre quanto ho già avuto modo di dire sulla sensatezza o no di un divieto che ha dell’assurdo non solo in quanto esistente, ma anche e soprattutto per le motivazioni che lo giustificano.
La scuola cattolica porta sul grande schermo il delitto del Circeo, avvenuto nelle ultime trentasei ore del settembre 1975. Il massacro che ha sconvolto la società del tempo e che continua a turbare gli animi e le coscienze anche oggi, anche al solo ricordo. Tre ragazzi, tre adolescenti o poco più della Roma bene hanno torturato due coetanee della Montagnola, uccidendone una, dopo averle attirate con l’inganno di una festa nella villa di proprietà di uno di loro. È storia, purtroppo. Una delle pagine più dolorose e oscure della cronaca e della storia del nostro Paese e censurare, in questo caso, potrebbe anche o solo significare nascondere la verità, dimenticare ciò che invece potrebbe essere di ammonimento per tutti e in particolare per quei ragazzi a cui è negata la visione.
Il film inizia con una mano che batte dal fondo del bagagliaio di una 127 bianca. Inizia con la voce rotta di una ragazza che chiede disperatamente aiuto, dal vano bagagli di un’auto, mentre la sua mano continua a battere. E detta il ritmo del film che è in continuo crescendo e del cuore che si prepara a guardare e nello stesso tempo vivere tutto ciò che accade sullo schermo.
Quella scena claustrofobica resta impressa per l’intera visione del film, mentre la pellicola scorre e ricostruisce in un conto alla rovescia scandito dai mesi, dai giorni e persino dalle ore i fatti e anche l’atmosfera di un’epoca, il clima di un’età. Senza enfatizzare, ma con l’attenzione e la cura di ogni dettaglio, al fine di una ricostruzione il più possibile vicina alla realtà.
Il regista affida la narrazione a Edoardo (Emanuele Maria Di Stefano interpreta l’autore del romanzo) ed è attraverso i suoi occhi, le sue riflessioni – attraverso gli occhi e le riflessioni di un diciassettenne testimone diretto di quanto si viveva dentro e fuori la scuola – che conosciamo la vita di quegli studenti, figli e ragazzi.
Le famiglie della borghesia romana scelgono per i figli una scuola cattolica, un’educazione rigida, per poter dare loro maggiori opportunità, una maggiore protezione e sicurezza. Una sicurezza che non può però sempre essere garantita, perché le fragilità, i disagi, le paure di quegli adolescenti non restano fuori quando il grande portone della scuola si chiude alle loro spalle, ma entrano nel cortile, nei corridoi, nelle aule. Entrano nella quotidianità della vita scolastica. E cambia ben poco se a sedersi dietro la cattedra sono dei sacerdoti, che prima di essere tali, sono esseri umani, sono uomini con i loro limiti, le loro contraddizioni, i loro errori. Nelle aule entrano ragazzi: ragazzi che cercano in ogni modo di farsi accettare dai compagni; ragazzi spavaldi, capaci di atti di bullismo e sopraffazione, ma anche ragazzi costretti a subire, ragazzi che non hanno la forza di reagire.
“Se non ci fosse chi sceglie di fare il male, non ci sarebbero le vittime” spiega il professor Golgota (cammeo di Fabrizio Gifuni) davanti a un affresco che riproduce la flagellazione di Gesù. Un dipinto che dà all’insegnante la possibilità di provocare un dibattito nei ragazzi, di risvegliare in loro dei dubbi, il bisogno di ciascuno di loro di cogliere la linea sottile, labile che spesso divide ciò che è buono e giusto, da ciò che è sbagliato.
Un confine che diventa più incerto se l’educazione dei figli è affidata a genitori che danno sì delle regole, ma che sembrano messe lì a caso, perché se infrante, può capitare di essere puniti. Ma a volte anche no.
Un confine annebbiato, se nemmeno un padre, facile all’uso della cinghia, comprende la gravità di un gesto del ragazzo e lo vive solo come un affronto personale, come una figuraccia che il figlio ha inflitto a lui e alla famiglia.
Famiglie che nascondendo la polvere sotto il tappeto costruiscono montagne di alibi e di ipocrisie, e diventano miopi, cieche di fronte alla realtà, incapaci di conoscere, ascoltare e capire i loro stessi figli, a causa del loro stesso status di precarietà che le rende molto più fragili di quanto possano apparire.
I ragazzi che nelle loro case sono sottomessi al volere di genitori, da cui riescono ad allontanarsi, dal cui controllo riescono a fuggire e la sera, in compagnia dei loro coetanei, dimentichi di quella paura che respirano fra le mura domestiche, si sentono forti, invincibili. Si sentono maschi. Si sentono padroni del loro destino e non solo.
Bastano pochi tratti per far cogliere le complesse personalità di genitori (rappresentati da Riccardo Scamarcio, Valeria Golino, Valentina Cervi, Jasmine Trinca, Gianluca Guidi) non proprio esemplari, in qualche modo lontani dal loro ruolo, e in particolare con padri autoritari, rigidi, maneschi e allo stesso tempo assenti.
L’attenzione è rivolta ai ragazzi, interpretati con un’intensa credibilità nelle parole, nelle loro espressioni, nei silenzi, nei non detti da giovani attori emergenti che riescono davvero a convincere.
Stefano Mordini per tutto il film, con abile maestria, intreccia trama e ordito e con numerosi fili tesse un quadro veritiero di ciò che era ed è stato, senza trarre, né condurci a trarre giudizi e conclusioni. La narrazione mi è sembrata portata avanti attraverso l’associazione di contrasti, che amplificano le sensazioni, le emozioni e l’atrocità degli eventi.
La freschezza e la leggerezza delle note della canzone di Lucio Battisti, inneggianti a una vita luminosa e più fragrante cantate dalla sorridente Donatella Colasanti (Benedetta Porcaroli) si spengono quasi d’improvviso nello sguardo malinconico della stessa ragazza, mentre, con la sigaretta fra le dita, guarda l’orizzonte che si apre dal finestrino posteriore dell’auto di Carlo che sta dando a lei e alla sua amica un passaggio verso casa. Lo sguardo di una ragazza che coltiva il sogno di modella e la fiducia nella vita e nelle giornate che regalano sorrisi e speranze. E persino il passaggio in auto di un ragazzo perbene, carino e dai modi davvero gentili.
E tornano a risuonare nella testa le parole della canzone, mentre Gianni Guido (Francesco Cavallo) e Angelo Izzo (Luca Vergoni) chiudono Donatella e la sua amica Rosaria (Lopez) – interpretata da Federica Torchetti – nel bagno della villa, in attesa di colui che loro chiamano Jacques, ma che altro non è se non Andrea Ghira (Giulio Pranno).
La collina dei ciliegi, dietro cui le ragazze cercano di scoprire il sole, diventa il promontorio del buio e della morte, nati da quello stesso tentativo e desiderio di vincere le paure, le resistenze e di lasciarsi un po’ andare, di dare fiducia agli altri, di credere che l’invito ricevuto da quei ragazzi simpatici e così garbati, sia davvero l’invito a una magnifica festa in una magnifica villa.
Mordini non sceglie la spettacolarizzazione: l’atto efferato avviene oltre il buio della macchina da presa girata a inquadrare la calma del mare che accarezza il litorale di giorno, mentre nella casa si accende l’oscurità di un male non improvvisato, ma architettato dalle menti di tre ragazzi, poco più che adolescenti.
E mentre la luna si specchia nel calmo mare della sera che riflette sulla sua superficie le silenziose luci di case e vite lontane, il rumore del male esplode fra le mura della magnifica villa, anche se il regista nasconde agli occhi dello spettatore l’atto efferato e crudele, lasciandolo dietro le quinte, dietro un sipario che si apre solo sul corpo martorizzato di Donatella Colasanti, la quale trova una via di salvezza nel fingersi vinta dalla morte.
Con la stessa delicatezza di un pittore impressionista, supportato dalla suggestiva fotografia di Luigi Martinucci, il regista non disegna contorni marcati né ai personaggi, né alla vicenda, né al tempo: lascia intendere ciò che non si vede, perché sa, da buon maestro di scrittura e regia, che non è necessario dire o rappresentare ogni cosa.
Sfuma i contorni Mordini, per lasciare libertà alla sensibilità dello spettatore di andare oltre le parole, di scavare nella profondità delle immagini e ci riesce se, a quasi dieci giorni dalla visione del film, mi porto dentro la forza struggente di quelle emozioni, il dolore per quello che è stato e continua a essere. Se mi commuovo a immaginare lo sguardo di Donatella che si sporge dal finestrino posteriore della macchina. Se avverto un senso di claustrofobia mentre sento battere ancora la mano di una ragazza chiusa nel bagagliaio di una 127 bianca. Se cerco di respirare a fondo la bellezza del mare. Se sono ancora qui a riflettere su quanto sia davvero difficile discernere il bene dal male e quale grande responsabilità è essere educatori, formare le giovani generazioni e chiedersi se davvero si è all’altezza del compito scelto e/o affidatoci.
Sfoca i confini geografici e temporali il regista nato a Marradi, per andare oltre il Circeo, oltre il massacro consumatosi fra il 29 e il 30 settembre 1975, oltre gli anni Settanta, anche oltre quella Roma e quella società così perfettamente ricostruite. E giungere nella nostra epoca, nella nostra attualità, nelle nostre città, in cui ancora si perpetrano atti di violenza contro le donne riconosciuti solo nel 1996, dopo più di vent’anni e sei legislature, come reato non più contro la morale, ma contro la persona.
Sono quasi le tre di un sabato notte, affidato alla casualità, e sono qui vinta dall’urgenza di scrivere, perché voi non perdiate l’occasione di andare al cinema, di farvi scuotere da una pellicola che merita semplicemente di essere vista.