La rubrica semiseria ̶d̶i̶ ̶c̶r̶i̶t̶i̶c̶a̶ ̶c̶i̶n̶e̶m̶a̶t̶o̶g̶r̶a̶f̶i̶c̶a̶

a cura di Tiziana Cazzato

“Il traditore” di Marco Bellocchio

il traditore locandinaSono le prime ore di una domenica mattina di aprile. Se non lo dicesse il calendario, sarebbe difficile oggi credere che siamo in primavera. Grigi nuvoloni devono aver vinto la partita a ping-pong con il sole e si sono appropriati del cielo liberando una pioggia dal ritmo incessante. Io, però, non sono qui a regalarvi l’aggiornamento sul tempo: non sono una meteorina, né il colonnello Bernacca. In realtà non sono nemmeno una critica cinematografica, eppure sono seduta alla scrivania, avvolta in quel plaid che – da grande illusa – avevo già congedato, in attesa di rivederlo nel prossimo inverno, con la voglia di non mancare all’appuntamento con voi, dopo avervi concesso anche il tempo di gustare (beh! e anche di digerire) l’uovo di cioccolato e la colomba pasquale.

L’altra sera, mentre sceglievo il film da condividere con voi, mi sono lanciata una sfida: ho provato a contare, facendo affidamento sulla sola memoria, quante puntate di “Visti e svisti” avevo già scritto e con una certa sorpresa vi dico, amici miei, che siamo al nostro dodicesimo appuntamento (in altre circostanze sarebbe stato un record!).

Tutto è iniziato con il suggerimento-invito-sfida di un amico che mi ha detto: “dovresti scrivere tu una recensione”. Dategli eventualmente il merito se tutto ha avuto inizio, ma non la colpa se ogni due settimane siete sottoposti al supplizio di leggermi. Vivetelo come un fioretto!

Io sono contenta, perché sto scoprendo un mondo e alcune pellicole davvero sorprendenti, di cui a volte mi chiedo se sono all’altezza di parlarne. Come ormai sapete, però, scrivo di pancia, do voce alle sensazioni e solo qualche volta riesco (forse) a esprimere un giudizio tecnico quasi professionale, del quale mi sorprendo io stessa. A me piace ammirare quello che l’uomo riesce a creare, a realizzare con il suo genio, a quanta bellezza riesce a far nascere dalle sue mani: il talento mi emoziona, mi commuove, mi lascia senza fiato, senza parole. Non mi resta, allora, che applaudire. E mi piace applaudire gli altri, il loro lavoro, il loro successo.

Se fossi stata a Cannes, infatti, il 23 maggio 2019, sarei stata felicissima di battere le mani per ben quattordici minuti a Marco Bellocchio e al suo “Il traditore”, film pluripremiato ai Nastro d’argento del 2019 e ai David di Donatello del 2020 (e non solo) , vincendo le categorie di miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista (Pierfrancesco Favino), miglior attore non protagonista (Luigi Lo Cascio) miglior sceneggiatura (Bellocchio, Rampoldi, Santella, Piccolo, La Licata) e anche miglior colonna sonora (Nicola Piovani).

È il 4 settembre del 1980. Palermo festeggia Santa Rosalia, mentre in casa di Stefano Bontade si immortala in una foto il teatro della pace fra la mafia palermitana e quella dei corleonesi. Mentre nella sala i grandi capi sanciscono un apparente accordo per il controllo del traffico di droga, il soldato Tommaso Buscetta è solo sul balcone che s’affaccia sul mare. Non sorride. È cupo. Forse per quei figli, Antonio e Benedetto, che la sua terza moglie, Cristina, vorrebbe portare con loro in Brasile, ma ai quali lui crede di non poter imporre lo sradicamento dalla terra in cui sono nati e cresciuti. Forse perché non si fida del duro e freddo volto di quel contadino proveniente da Corleone.  Forse perché sente che quella che si sta consumando in casa Bontade è solo una farsa, una finta pace a cui presto cadrà la maschera, per prendere le sue vere sembianze.

E non tardano a frantumarsi i vetri di quei brindisi di inizio settembre agli spari delle lupare che uccidono in poco tempo i capi della mafia palermitana, ostacolo all’ascesa di Totò Riina al vertice della piramide di Cosa Nostra.  Un racconto fedele alla cronologia e alla verità storica, seppur rapido, attraverso lo scorrere incalzante non solo del crescente numero delle vittime, ma anche delle immagini di alcuni degli oltre centocinquanta omicidi voluti e ordinati da quello che si preparava a diventare il Capo dei Capi.

Un racconto rapido a prova che per la nuova mafia, dal volto più crudele e sanguinario, la vita e l’uomo non avevano alcun valore, mentre quella delle origini, “la mafia antica, difendeva i deboli e mai aveva e avrebbe ucciso degli innocenti, siano essi donne, bambini, uomini non affiliati, rappresentanti delle forze dell’ordine o della giustizia”.

Buscetta racconta e si racconta in quattrocentottantasette pagine affidate al giudice Giovanni  Falcone e che permettono di allestire quel maxiprocesso la cui prima udienza si tenne a Palermo il 10 febbraio 1986.

Il regista racconta la solitudine di un soldato semplice, che non ha mai avuto interesse a comandare, pur avendone le caratteristiche naturali, e che amava le donne. Racconta la vita di un ragazzo che a sedici anni sceglie di diventare un uomo d’onore, senza mai rinnegarlo, senza mai pentirsi ma arrivando a sentirsi tradito e non traditore. La vita di un padre che, prima di tornare in Brasile, affida i figli Antonio e Benedetto all’amico Pippo Calò, il quale con quelle stesse mani con cui quando erano piccoli li aveva accarezzati, presi in braccio, tirati giù dal seggiolone, toglie loro la vita, guardandoli negli occhi fino alla fine.  La vita di un uomo che durante il processo nell’aula del tribunale, nel confronto diretto con quello che considerava un amico, si sente rinnegato. Si sente tradito.

Quell’amara delusione, allora, la percepisco e non trattengo le lacrime, per quello che guardo solo come un padre a cui hanno ucciso due figli, come un uomo che ha avuto il coraggio di raccontare quello che sapeva. Di tornare sui suoi passi. Non lo tiro fuori dalla sua dimensione cinematografica, forse riesco a viverlo solo come personaggio, come protagonista di un film e continuo a seguire le vicende sue e della sua famiglia, nella ricerca di un posto che dia loro sicurezza, protezione da quel mondo che voleva mettere fine alla vita di Don Masino e a tutta la sua semenza.

Poi, però, Bellocchio ferma il suo racconto, che con minuziosa precisione e fedeltà storica ricostruisce scene e dialoghi, luoghi e atmosfere, e lascia che la narrazione sia portata avanti dalle immagini di repertorio:  affida alla voce del presidente Giordano la sentenza del maxiprocesso in data 16 dicembre del 1987, mentre il  “Va’ pensiero” di Verdi dall’aula del tribunale di Palermo  vola attraverso l’Oceano e il tempo fino a risuonare nell’inverno  americano del 1990 di Buscetta, costretto a lasciare il New Hempshire e nascondersi in Colorado. Lo raggiunge lì la notizia della strage di Capaci, dove il 23 maggio del 1992, perdono la vita Giovanni Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta. Una scena ricostruita, in una prospettiva che fa tremare le vene e i polsi alla quale segue, però, nuovamente la scelta del regista di fermarsi per farci risentire la voce del giudice Borsellino e farci piangere ancora, come la prima volta, alle parole della vedova Schifani.

Un film forte per i contenuti, per le immagini. Un film che invita a scoprire la dimensione intimamente fragile e umana di un personaggio discusso, controverso, e che in un finale dal forte sapore poetico, con quella che letterariamente sarebbe una magnifica analogia,  non ci fa dimenticare che le mani di quel soldato semplice, di quel padre a cui hanno ammazzato i figli e non solo, di quell’uomo solo e tradito, sono pure le mani di chi ha saputo uccidere. Un film che racconta le ombre non solo di un uomo, ma di uno Stato, di una società. Che racconta il coraggio di chi sa fare un passo indietro e la viltà di chi si nasconde dietro il nodo di una cravatta.

Un vero grande film che fa venire voglia di scavare più in profondità, di leggere, di riascoltare la voce di un passato che, con le stesse parole di allora, ci dice oggi molte più cose. E ci pone nuove e più domande.

 

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