È stata la mano di Dio, di Paolo Sorrentino

Visti e Svisti – la rubrica semiseria di critica cinematografica

a cura di Tiziana Cazzato

Più svisti che visti

Nell’ultimo periodo sono consapevole e chiedo venia, ci siamo più svisti che visti, ma non ho la minima intenzione di abbandonarvi.

Sono tornata, infatti. Mi sono forse fatta desiderare un po’ troppo e magari pensate che lo abbia fatto di proposito. Se così fosse, sappiate che vi state sbagliando: non sono una donna che usa stratagemmi, tattiche, in nessun campo. Faccio e dico quello che sento, in modo spontaneo, a volte forse troppo e (probabilmente) sbaglio. Se poi ci ripenso, state certi che mi rimprovero e mi dico che avrei potuto fare o dire meglio, o che forse sarebbe stato ancora meglio non dire e non fare. E vorrei poter tornare indietro, riavvolgere il nastro, rigirare la scena, ma nella vita il ciak è uno solo e una cosa è certa, la parte che ti è stata assegnata non può essere interpretata da nessun altro. Mamma mia, come sto diventando seria! Mi faccio paura da sola: devo a tutti i costi recuperare quel semi che accompagna l’aggettivo seria della mia rubrica, altrimenti sarete voi ad abbandonare me. Mi affido al vostro buon cuore e, correndo il rischio di passare per “copiona” (offesa che da bambine ci rimbalzavamo se una imitava quello che faceva l’altra), alla mano di Dio.

 

La mano di Paolo Sorrentino

In questo articolo, però, sappiate c’è solo la mia di mano, al massimo chiederò a un paio di amici di rileggerlo prima di pubblicarlo, per vedere se ci sono refusi o ripetizioni, ma nulla più. E nel suo ultimo film c’è – e si vede – la mano di Paolo Sorrentino (la mano di Dio compare solo nel titolo!). Mi è capitato di leggere qualche commento al film, di ascoltare le impressioni di amici che lo avevano visto, anche se di solito non leggo recensioni: voglio liberare la mia opinione senza condizionamento alcuno, anche se in questa precisa occasione ho ascoltato pareri talmente contrastanti che solo alla fine scoprirò dalla parte di chi mi sono schierata.

Non sono una critica cinematografica e sono certa che a più di un anno dalla nascita di “Visti e svisti” sia chiaro a tutti, quindi quello che leggerete prendetelo come le parole di una ragazza che vive ogni situazione con una forte partecipazione emotiva.

Quando ieri sera, nel buio totale della mia personale sala è partita la proiezione di È stata la mano di Dio mi sono immersa nella bellezza delle prime inquadrature: una vera grande bellezza la sensazione di viaggiare sul motoscafo che si avvicina alla costa, la meraviglia di quella luce che accarezza la superficie del mare e delle case, degli alberi delle strade di quella città che potresti non sapere essere Napoli. E ho subito pensato di essere entrata in una poesia, che sarei stata avvolta da emozioni, sensazioni uniche, quasi rare. Ma poi?

Io non so se, mentre continuavo a guardare sempre meno rapita il nuovo film del premio Oscar Sorrentino, è successo qualcosa a me o… Perché d’un tratto quella magica aspettativa dell’esordio è andata ad affievolirsi. Non dico che si sia spenta del tutto, ma si è indebolita e io mi sono ritrovata fuori, cosciente di essere avvolta dal mio plaid, con la tazza vuota di una tisana calda ormai finita, seduta a gambe incrociate sul comodo divano.

Fabietto (Filippo Scotti), il protagonista del nuovo film di Paolo Sorrentino,  suo alter ego in una storia che è autobiografica e intima, vive a Napoli con i suoi genitori, Saverio e Maria, e i suoi due fratelli, Marchino e Daniela. Una presenza, quella di quest’ultima, che lo spettatore potrebbe anche mettere in discussione: di lei si sente solo la voce, senza mai vederla sulla scena (comparirà una sola volta). Per tutta la durata del film è in bagno e quando qualcuno chiede dove sia Daniela, beh! la risposta è sempre la stessa. La famiglia Schisa ha tanti parenti, personaggi alquanto strani, pittoreschi che sanno stare insieme, vivere la gioia di essere famiglia, volersi sinceramente bene, sostenersi.

Siamo negli anni Ottanta, gli anni in cui i napoletani speravano e sognavano l’arrivo del salvatore, non del figlio di Dio ma di Diego Armando Maradona che di Dio è solo la mano con cui ha segnato il primo gol contro l’Inghilterra nei quarti di finale dei Mondiali del 1986, che hanno poi portato l’Argentina alla conquista del titolo in finale, contro la Germania. Maradona diventa il centro della vita, dei pensieri, forse anche delle preghiere dei napoletani e chi in quegli anni c’era, ricorda l’atmosfera della città che ha saputo e sa da sempre vivere e manifestare le sue emozioni in modo enfatico e coinvolgente. Maradona diventa uno degli ingredienti principali di un film che racconta la vita e la morte, gli obbligatori riti di passaggio, il distacco, il mare, Napoli. Di un film a cui Sorrentino dedica la cura, la precisione, l’attenzione a ogni dettaglio, i personali virtuosismi, come ci ha abituati sin dalla sua prima regia. Confeziona un film esteticamente bello e non la si può mettere in discussione la bellezza di questa sua ultima pellicola, ma al modesto parere di quella che è solo una spettatrice, sembra che egli abbia voluto inserire in un puzzle frammenti che non gli appartengono. Scelte forzate, omaggi ricercati a tutti i costi (Fellini e Capuano), scene sostanzialmente decorative che non hanno alcun legame con la storia. E momenti, personaggi lasciati sospesi, in attesa che il cerchio si chiuda per scoprirne la funzione. O forse semplicemente lasciati lì, come bozze di storie o quadri non compiuti, affidati alla sensibilità dello spettatore. Solo però di quello spettatore che rimane rapito dal primo all’ultimo fotogramma e che probabilmente è riuscito a restare dentro, a cogliere, a percepire quello che a me non è arrivato. Ed ero ben predisposta a emozionarmi, persino a piangere, ieri sera: sarebbe bastato ben poco per far commuovere una ragazza che, quando ride troppo, finisce con il trasformare le sue risate in lacrime.

Sono andata avanti, cercando di immergermi di nuovo fra le tinte vivaci di Napoli che festeggia il primo scudetto, cercando di risvegliare l’empatia con il protagonista, pronto a lasciare la sua città, per trasferirsi a Roma. La vita reale non gli piace più. La realtà è scadente.

Lui vuole fare il cinema, mentre io vorrei trovare ancora l’emozione di un racconto che resta forse troppo in superficie, senza approfondire personaggi che invece di diventare pittoreschi restano macchiette e situazioni inserite nella sceneggiatura solo per mettere in evidenza una cultura che da quando guardo Sorrentino non ho mai messo in discussione.

Vanno i titoli di coda e non poteva mancare un altro simbolo di Napoli, Pino Daniele. La sua voce, la sua malinconia, un’ultima sfumatura di una città che in più di due ore di film resta solo relegata in stereotipi, in semplici luoghi comuni.

Napule è… quella finestra che cattura l’immensità del mare, la luce magnifica di un tramonto, i fianchi delle montagne che si offrono come culla al sole.

Napule è… tante storie da cogliere, da raccontare. Aspettiamo che un’altra macchina da presa apra il suo occhio sulla città e catturi un altro angolo, un altro aspetto di quella ricca e variegata umanità, fatta di persone e luoghi.

 

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