di Annarosa Tonin
Per dare forza alle mete che volevo raggiungere, mi chiamavo come lei. Che Brunilde fosse più vicina di me al camminare sempre a testa alta e incrociare i visi altrui, incutendo perenne timore, l’avevo capito mentre leggevo la sua storia, il cui finale, però, non cambiava mai.
Ai miei occhi Brunilde sarebbe stata la prima creatura di carta a insegnarmi come si modella uno spirito competitivo. La sua fine per nulla gloriosa è stata fondamentale nel condurmi alla scoperta che di ogni storia raccontata e, per estensione, vissuta davvero è possibile cambiare il finale anche solo per se stessi, senza farlo sapere tanto in giro.
A convincermi che la storia di Brunilde valesse la lettura era stato l’ abito da ballo che compariva sulla copertina de La fine di una Valchiria; sulla sinistra dell’illustrazione, Brunilde guardava dall’alto in basso due ufficiali dell’esercito zarista, i cugini Boris e Camillo – raffigurati alla destra – intenti in una conversazione, uno di quei momenti in cui la natura umana dà il meglio di sé, facendo apparire un’innocua, naturale formalità l’interesse per qualcosa o qualcuno che, in verità, è la meta delle mete, il destino d’amore corrosivo dell’esistenza umana.
Al nome Brunilde, che già contiene una forza fonetica di indubbio spessore, si accompagnava il titolo “baronessa di Hallweg”. Un poco circospetta, temevo che l’incontro fra una spia tedesca (sì, perché Brunilde era una spia!) e la bellezza che attribuivo all’aristocrazia russa, mi facesse stare male. Insomma, la mia prima volta alle prese con la fascinazione del malvagio, tanto più che ardivo leggere la storia in questione nel giardino di mio nonno, sotto l’albero di cachi; quando mi chiedeva come procedeva, nascondevo sempre che la protagonista era tedesca. Nonno e i tedeschi non avevano mai avuto buoni rapporti, diciamo così, a tal punto che, quando il mio spirito competitivo alzava la voce e faceva sapere in giro che mi sarebbe piaciuto imparare quella lingua, anche per ragioni di studio, il vecchio col cappello di paglia sentenziava: Guai a ti!
Allora, tutta la questione della malvagità di Brunilde restava confinata e il viso del nonno non si increspava, perché io ero contenta della bella storia da leggere.
C’era di mezzo l’amore.
Brunilde preferiva Boris a Camillo, ma Camillo era quello che le stava sempre vicino. Brunilde non trattava benissimo Camillo, era nervosa, perché Boris non la guardava abbastanza e non aveva alcuna voglia di ballare con lei.
Avevo quindici anni e mi firmavo Brunilde. La matita il cui tratto sanciva la proprietà dei romanzi che mi regalavano scriveva: proprietà privata di Brunilde Anastasia; avevo aggiunto quest’ultimo nome perché l’aristocrazia russa non mi voltasse le spalle.
Anche Brunilde Anastasia aveva i suoi Boris e Camillo e, mentre leggeva gli sviluppi della storia della Valchiria, dei suoi balli e dei suoi intrighi, si commiserava per il suo reale, quotidiano, avverso destino, poiché la sala da ballo scintillante con la musica che volava leggera era il sagrato della chiesa del paese, che poteva contenere il pubblico di un concerto rock di tutto rispetto, ma si limitava alla fisarmonica di Camillo.
Il muretto, che faceva conoscere entrambi i lati dell’esistenza, stare con i piedi appoggiati a terra o penzolare a stapiombo della scalinata molto ripida, accoglieva i due musicisti, Brunilde Anastasia e Camillo. Sì, perché arrivavo col mio violino di città, nel senso che studiavo musica, collezionando buoni risultati e onesta inquietudine.
Di Camillo poco mi importava. Soprattutto, non era biondo, non era più vecchio di me, non sapeva ballare. Il Boris della situazione, invece, sì. A dire il vero, non era biondo neanche lui, ma allevava cavalli e questo me lo rendeva la meta delle mete da raggiungere. All’imbrunire potevo incontrarlo andando alle stalle vicino al torrente. L’unica cosa che faceva era salutarmi. Pensavo che del resto poco gli importasse, tanto non sarei rimasta in paese per sempre, e che la città non gli interessasse, se non per il treno su cui saliva ogni settimana per raggiungerne una ancora più grande.
A Brunilde Anastasia, che il mattino scopriva i mulini e le vie delle acque, il pomeriggio leggeva, all’ora del Vespro andava a prendere il latte e dopo cena usciva a suonare e cantare, le giornate non sembravano recare tutte lo stesso finale, mentre la copertina che si era portata dalla città conteneva un finale solo.
L’onesta inquietudine e una presenza inattesa avrebbero modellato per qualche anno a venire tutti gli altri finali possibili.
I miei finali perduti, potrei chiamarli così.
Erano legati a Viola Assoluto, un panno morbido, fatto apposta per pulire le lenti degli occhiali, o segnare le pagine di un romanzo.
In una delle serate al paese, in cui la compagnia di ragazzi che si riuniva sul sagrato era arrivata più tardi del solito, si era accomodato fra le pagine della storia della Valchiria – senza farlo sapere tanto in giro – mentre Brunilde Anastasia gironzolava fra i roseti.
Da quale mondo era arrivato?
Per i tuoi occhiali e i tuoi libri.
Senza di loro non vivi, mi pare.
L’allevatore di cavalli sapeva scrivere. Lo aveva fatto su un foglio di quaderno a quadri strappato male.
Insomma, Brunilde Anastasia e Boris, senza farlo sapere tanto in giro, avevano cambiato il finale della storia della Valchiria, con buona pace di Camillo e del paese. Eppure, quando si incontravano all’imbrunire, continuavano a salutarsi senza alcuna parola. Solo cenni del capo, un’innocua, naturale formalità a certificare l’onesta inquietudine umana, che si alimenta di ciò che non è stato e avrebbe potuto essere.
Grazie al panno morbido, nei miei finali perduti lasciavo agli oggetti la maestà della conclusione, ritenendolo il più bello degli insegnamenti appresi e la più originale delle verità.
Tuttavia, anche Viola Assoluto a un certo punto sarebbe scomparso e con lui altri finali possibili di ogni romanzo letto e ogni incontro vissuto.
Brunilde Anastasia non ha sposato Camillo, né ha continuato a suonare.
Ogni tanto ritorna sul sagrato della chiesa, come in un recente pomeriggio domenicale.
Pensando di potersi sedere sul muretto e scegliere di nuovo il suo finale, senza farlo sapere tanto in giro, coi piedi appoggiati a terra o rivolti allo strapiombo, è stata costretta a rinunciare, perché, come spesso accade nelle storie d’amore, qualcun altro arriva prima.
Ciao, lo sai che qui c’era la casa della strega Brunilde?
Lo vuoi vedere il mio disegno?
La voce di una bambina e la sagoma di una donna vestita di viola.
Poco distante, l’allevatore di cavalli intento a raccogliere aghi di pino. In paese ora lo chiamano l’Ingegnere.
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